L’OPERA POETICA DI LUIGI ARMANDO OLIVERO

 

Luigi Armando Olivero (1909-1996) è un poeta in lingua piemontese e l’estensore di centinaia di articoli e di saggi in lingua italiana, pubblicati su giornali e riviste di tutta l’Italia. Ha scritto molto anche per riviste e giornali stranieri. È stato pure il creatore e il principale contributore – in lingua italiana e in lingua piemontese – di quattro riviste: Ël Tòr, Il Garibaldi, Poesia dialettale, La Fiera dialettale[1] e l’autore di tre lunghi saggi (Turchia senza harem, 1945, Babilonia stellata: gioventù americana d’oggi, 1941, Adamo ed Eva in America alla vigilia del secondo diluvio universale, 1946)[2] che, in varie edizioni italiane e in traduzione (tedesca, inglese, francese), hanno venduto centinaia di migliaia di copie. La sua vastissima pubblicistica rivela una vasta, profonda e raffinata cultura letteraria e una meditata e aggiornatissima sensibilità verso svariate questioni sociali e politiche.

L’attività poetica di Olivero si estende per sette decenni (1925-1995) e conta 529 composizioni di vario metro e lunghezza (cioè poco meno di una poesia al mese per tutta la sua lunga vita).[3] Alcune poesie ammontano a pochi versi (la minoranza), altre ne contano centinaia.[4] La forma metrica di gran lunga più frequente è il sonetto. Non infrequente la canzone o la ballata. Dovunque trionfa la rima. Eccetto per una brevissima premessa agli esordi, in lingua italiana,[5] tutta la sua produzione in versi e in prosa metrata è in lingua piemontese.[6] Ha pure tradotto in piemontese versi dal greco e da altre lingue classiche e moderne, nell’evidente intento di misurarsi coi grandi lirici di tutti i tempi, ma anche di dimostrare l’attitudine della sua lingua alla veicolazione dei testi poetici più impegnativi.

Per quanto riguarda la completezza del corpus poetico in nostro possesso, è possibile che vi siano ancora sue poesie in raccolte da lui segnalate e però mai reperite, ma l’eventuale rinvenimento di manoscritti inediti o di stampati finora irreperibili (o forse mai esistiti) non cambierebbe sostanzialmente il nostro concetto della gamma linguistica o della portanza poetica di questo autore. Il giudizio critico, sostanzialmente, non muterebbe. Il fatto che egli abbia riproposto alcune composizioni più volte, sia in varie riviste che nelle quattro raccolte in volume (Roma andalusa, 1947, Ij Faunèt, 1955, Rondò dle masche, 1971, Romanzìe, 1983) implica che il meglio è stato da lui rivisitato e riproposto. Se tra quel “meglio” (quale che sia stato il criterio per farglielo ritenere tale) vi fosse stato altro, esso pure sarebbe stato riprosto: il fatto che non lo sia stato è forte indizio che altro non v’era o, se vi era, non di tale entità da modificare i parametri critici sull’insieme della sua opera poetica che, indubitabilmente, raccoglie quanto di più significativo egli ci ha lasciato. Questo, beninteso, non significa che si debba cessare di cercare, ma semplicemente che il rinvenimento di opere poetiche che rivoluzionino la nostra visione del suo operato è altamente improbabile.

Tra i dedicatari delle sue poesie e gli artisti che le illustrarono troviamo non solo i nomi che resero celebri le muse locali, ma gli interpreti maggiori e minori della cultura europea ed extra-europea.[7] Tra le parole ch’egli mutua ad altre lingue per incastonarle nel tessuto della propria poesia ve ne sono dall’inglese, dal francese, dal tedesco, dallo spagnolo, dal portoghese, dal provenzale, dal latino, dal magrebino e dall’arabo. Viaggiatore irrequieto e instancabile, tanto del pianeta, quanto delle varie temperie culturali, di Olivero si potrà affermare tutto, tranne che non fosse culturalmente, letterariamente e linguisticamente aggior­nato.

A questo riguardo il suo inamovibile attaccamento alla lingua piccola pur in un contesto culturale di tale respiro è davvero rivelante: sapeva di utilizzare quella che per lui era la lingua più consentanea ed avvertiva più acutamente del fondatore stesso de Ij Brandé, Pinin Pacòt, l’imperativo di ampliare, arricchire, aggior­na­re non solo la propria panoplia di tematiche e di registri compositivi, ma anche la sua lingua, avvertita come capace di recepire gli stimoli più eterocliti, più esotici, più sfumati, più à la page. È il ribaltamento di tutti i termini: la lingua locale, il “dialetto”, diventa veicolatrice della poesia più internazionale. Pur trovandosi in posizione paolina rispetto ai quattro o cinque originali fondatori de La bela companìa dij Brandé, egli è quello che ha vissuto ed ha portato l’assioma di base, poesia grande in lingua piccola, alle sue estreme e lungamente meditate conseguenze. Ha creduto nel fare poesia in piemontese come nessun altro mai. Ma ha creduto anche nel fare poesia tout court e in quel fare poesia ha trovato la ragione della propria vita.

L’accusa spesso mossagli di non dire la verità su sé stesso o sulle proprie conoscenze o creazioni è in parte magari vera, per quel che riguarda l’aspetto fattuale o anagrafico, ma è infondata in prospettiva poetica: la sua verità era la poesia ed in termini poetici egli è stato veritiero e conseguente, perché la sua sola coerenza era la creazione poetica. La sua sola realtà era l’irrealtà della poesia.

Con tutti i suoi contatti e le sue letture verrebbe fatto di pensare a influenze, calchi o maniere vistosamente palpabili e riconoscibili un po’ dovunque nel suo poetare. Eccetto per un paio di composizioni (Andé an paradis con j’aso e Libertà), che sono rifacimenti dichiarati di poesie francesi, il resto della sua produzione non reca segni tangibili di influenze capillari, di tematiche, di maniere o di mode non sue: e anche questo è un caso singolare, forse dovuto al suo poetare in piemontese, una lingua che lo forzava a ristrutturare, a riparametrare ogni verso su una lunghezza d’onda completa­mente sua, come pure a non poter recepire sicut erant modelli italiani, così abissalmente diversi da quelli piemontesi. Il piemontese non solo gli ha procurato l’originalità, ma lo ha esentato da qualsiasi imitazione pedissequa. Gli ha anche dato carta bianca a trattare di qualsiasi tema, anche i più triti e i più banali, cosa che non avrebbe mai potuto permettersi se avesse poetato in italiano, lingua dalla poetica ristrettissima, come ben rivelano le tavolozze dei suoi contemporanei in lingua nazionale, draconianamente monocrome una volta esaurite le escursioni rapisardiane e carducciane e coeve di poeti come Ungaretti e Saba. Insomma, al montaliano ciò che non siamo, ciò non vogliamo Olivero risponde con un reboante ciò che sono, ciò che voglio. Non era tanto una questione di reticenza o di poetica morigerata, ma di fattibilità: in piemontese rimaneva ancora quasi tutto da fare e quel “quasi tutto” è stato quanto ha prodotto Olivero.

Singolarmente, non vi sono temi o stili che contraddistinguano o che prevalgano in determinate epoche della sua vita: ha trattato temi come la morte e la vanità quando era giovane, e l’amore o l’infanzia quando giovane non era più, riprendendo poi temi seri o faceti in momenti ed epoche diverse. La sua produzione è caratterizzata da rinvii, da ritorni, da recuperi, ma gli spunti – quando li tratta come tali – si trasformano sempre in composizioni radicalmente nuove. Ha saputo rimanere sé stesso rinnovandosi costante­mente. L’intensità della sua ispirazione non pare conoscere alti e bassi riconducibili a momenti particolari o ad avvenimenti esterni. Anche la sua gamma lessicale non rivela ammanchi o arricchimenti particolari nelle opere della maturità rispetto a quelle della gioventù: il suo repertorio linguistico si è mantenuto sbalorditivamente ricco prima come poi. Persino i metri e le rime non consentono la scansione della sua attività in stagioni particolari: ha utilizzato sonetti e canzoni, sirventesi e madrigali, quartine, sestine, ottave, versi con la rima al mezzo, monostici, distici, polimetri, versi liberi, versi da 2 a 17 sillabe, con rime baciate, alternate, spezzate, al mezzo, speculari, senza che vi siano forme metriche o prosodiche che prevalgano in una certa epoca della sua vita piuttosto che in un’altra. Ha cantato con eguale impegno i temi più sacri dell’umanità come pure una partita di pallone o un bambolotto. I Cantici di Salomone lo hanno impegnato non di più e non di meno del rifacimento di una canzone contadina: qua come là il poeta Olivero si piega col filo della schiena teso a trasformare tutto in Poesia.

Pure i ritmi di produzione non conoscono soste o stasi: di rado passava mese senza che componesse versi, anche se risulta spesso inattendibile stabilire le date di composizione sulla base di quelle di pubblicazione. Né è sempre affidabile la cronologia ch’egli stesso proponeva, apponendo luoghi e date in calce alla maggior parte delle sue poesie. Non risulta neppure che Olivero abbia mai ripudiato alcunché di quanto ha scritto in versi, tant’è che ripropone decenni dopo poesie di epoche anteriori, a volte con lievi, altre con notevoli cambiamenti ma, non di rado, anche senza alcuna modifica: tutto ciò che egli ha composto è sempre attuale e presente per lui e come tale lo propone ai suoi lettori, accanto a quanto di nuovo andava di continuo creando.

La sua musa poetica ha abbracciato pressoché ogni argomento, dai motivi popolari a quelli mitologici, dalle poesie amorose a quelle erotiche, dalla religione più ortodossa a quella più dissacrante, dall’amor di patria all’anarchismo, dal­l’eso­ti­smo all’anacreontica, dagli oggetti più umili a quelli più monumentali, dal paesaggio piemon­tese a quello magrebino, dall’ar­chi­tet­­tura alla natura, dalla diatriba alla dedica fraterna, dall’amicizia all’odio, dal paganesimo all’esistenzialismo, dalla magia alla scienza, dall’argomento d’attualità a quello storico, dallo stile postmoderno a quello fiabesco e populista, dalla religiosità più baciapile e bacchettona a quella più eslege e libertina. È stato poeta d’occasione come pure vate sub specie æternitatis.

 

Per questo primo saggio (ne seguirà uno più approfondito, sotto forma di introduzione alle sue opere poetiche) abbiamo individuato una cinquantina di filoni, che raggrupperemo e tratteremo sommariamente, evidenziandone le caratteristi­che salienti.

 

È soprattutto la vastità del suo poetare che mette in serie difficoltà chi volesse riassumerne in un saggio l’intera poetica. Non sembrano esservi denominatori comuni. Ogni poesia è un’ “eccezione”. È qui che si demarca l’incolmabile differenza tra questo poetare “a fiume” in lingua regionale (che poi, sotto sotto, è tutt’altro che “regionale”) e il poetare sempre più rarefatto e reticente in lingua naziona­le (cui egli rimane, formal­mente, linguisticamente e tematicamente estraneo, nonostante le numerose dediche e gli stretti contatti personali e di lettura). Soprattutto non ha mai avuto paura di essere sé stesso, di essere spontaneo: se ha creato un personaggio di sé, come D’Annunzio (cui dedica una bella poesia), lo fa con l’avallo del più terragno attaccamento ai modi popolari e risulta per questo assai più accettabile che non gli esibizionismi oltranzisti del poeta del Vittoriale.

Olivero è senz’altro l’autore più indicato per tracciare un consuntivo della poesia in lingua regionale, delle sue dinamiche e della sua poetica. Insomma, se si vogliono appurare limiti e libertà di chi poetava in piemontese (o in altra lingua regionale) basterà studiare da vicino l’opera di Olivero: non solo perché ha poetato in piemontese, ma perché ha agito e verbalizzato secondo la logica, ma non i limiti, della lingua popolare.

Ed è proprio la sua lingua che lascia attoniti. Non solo rovescia tutti i preconcetti o anche i concetti di lingua locale, ma è di una envergure, di una varietà, di una selettività, di una opulenza che supera di gran lunga quella dei più che abili maestri, suoi conterranei e contemporanei, de La bela scòla dij Brandé.[8] Se si confronta il lessico squisì di Alfredino Nicola o di Pinin Pacòt con quello oceanico di Luigi Olivero se ne ricava la stessa impressione che confrontando il lessico minimo di Francesco Petrarca (poche migliaia di parole) con quello massimo di Dante (più di trentamila). Nei versi di Olivero c’è un nome, un aggettivo, un verbo, un avverbio, un esotismo, un’onomatopeia per tutto: e non di rado si stenta a reperirne l’equivalente in italiano. Checché egli stesso abbia affermato (nell’intervista rilasciata ad Icilio Petrone e poi premessa alla bella raccolta intitolata Rondò dle masche)[9] a proposito del “dialetto” piemontese (al quale paradossalmente Olivero rifiuta lo status di lingua), è chiaro che al villastellonese non sono mai mancate le parole per dare libera, articolatissima e calzante espressione al suo inesauribile estro poetico: non si è mai sentito prigioniero di una lingua troppo piccola per la sua straripante musa. Anzi, in più luoghi la lingua piemontese gli offre l’estro per assonanze, rinvii, sottintesi, giochi di parole che con ogni probabilità non gli sarebbe mai riuscito di escogitare in nessuna delle altre lingue che pur conosceva ed utilizzava.

Si può dunque affermare che una creatività simile, costante­mente desta e attiva, senza flessioni o crisi o astinenze, è davvero inusitata, che un lessico come il suo può essere frutto solo di puntigliose ricerche da fonti orali e cartacee, che una maestria simile nell’utilizzare i metri più disparati ha richiesto sperimen­ta­zioni, recuperi, studi, autodisciplina e tirocinio assidui ed approfonditi. Nel suo insieme l’opera poetica di Luigi Olivero rappresenta il contributo individuale più cospicuo alla storia della poesia in lingua piemontese. Nella sua vastità il più rimarchevole nella cultura italiana. Se egli non è noto e riconosciuto al suo giusto valore, ciò non è solo perché ha poetato in una lingua minore. Se quella fosse l’unica causa, mal si spiegherebbe la maggiore notorietà di un Marin, di un Loi, di un Firpo, di un Pierro, di un Buttitta sullo scenario delle muse regionali. Vero piuttosto è che costoro hanno poetato davvero “in dialetto”, producendo versi che ci si aspettava dal dialetto: non hanno messo in imbarazzo i critici, che hanno volentieri e di buon grado concesso loro il riconoscimento di essere i primi della seconda fila. Una poetica universale come quella di Olivero pone ben altri problemi di catalogazione, per cui era meglio ignorarlo che spiegarlo. Ha soprattutto travalicato i limiti autoimposti della dialettofonia: trattare di tutto, seriamente, contravveniva ai taciti accordi tra poeti e critici, per cui in dialetto era consentito trattare di pochi argomenti, per lo più di tono ridanciano. Fare il vate in dialetto era come suonare musica dodecafonica su una fisarmonica o su una chitarra: si contravveniva alle norme classiche e nessuna indulgenza poteva assolverlo.

A questo si deve porre rimedio non solo con traduzioni adeguate, ma con saggi che di Olivero evidenzino tutto lo straordinario genio e tutta la gamma creativa, in questo di certo non prona alle mescole di dialetto che si stempra nell’italiano (la sua lingua è quanto di meno ibrido si possa concepire) e non riducibile ad una ristretta gamma di argomenti – quelli più recepibili dal pubblico extra-regionale –. Soprattutto facendo le debite considerazioni sull’indipendenza della creatività poetica dalla regionalità o nazio­na­lità o internazionalità della lingua, conclusioni cui la critica letteraria italiana rimane tuttora perlopiù preclusa, insabbiata com’è nei suoi inveterati principi di dialetto = poesia dialettale = poesia terragna, rozza, macchiettistica. Insomma, per capire, classificare e valorizzare la poesia in lingua regionale bisogna sviluppare i parametri di una critica letteraria apposita, senza timori, senza prevenzioni, linguisticamente agile, che non corrisponde di certo a quella dei critici italiani educati ai gusti e adusi ai parametri della produzione in lingua nazionale. Ma poiché Olivero è poeta internazionale, la critica letteraria in grado di decifrarne il messaggio poetico d’insieme deve essere anche sensibile a correnti e a stimoli che travalicano la compagine italiana e fanno del piemontese solo la lingua veicolatrice, non il contesto culturale che ne accompagnò la produzione. Chiedere ai critici italiani di fare un passo in giù, studiando seriamente un dialetto, e un passo in su, studiando seriamente delle lingue straniere, è come chiedere ad un cigno di fare anche l’anatroccolo e l’aquila.

Olivero ha poetato in lingua, una lingua magico-sacrale sterminata che, lui stesso, con grande acume e pazienza filologica, ha messo a punto ed è stato poeta nel senso più universale e onnicomprensivo del termine. La sua lingua è stata popolare e dotta al contempo: popolare nella misura in cui da qualche parte del Piemonte qualcuno ha utilizzato quella determinata parola, dotta nella misura in cui nessun locutore di piemontese le ha mai utilizzate tutte. Nessun poeta regionale o nazionale può eguagliare la sua tematica, la sua inventività, la sua metrica e pochissimi la sua eccellenza lirica. Bisogna partire quindi da queste premesse per tentare di ridurre ad un’unica prospettiva sinottica la sua sterminata creatività. Il suo vero merito è ancora tutto da chiarire.

 

d

L’amore è uno dei temi più ricorrenti nella poesia di Olivero. Non si presenta, tuttavia, sotto un’unica modalità. Ve ne sono svariatissime.

Una delle più tipiche è quella magico-anacreontica, in cui fa uso di un fauno (frequentissima figura per rappresentare sé stesso in abiti arcadico-simbolici) per esprimere sia il proprio estro poetico, sia le sue propensioni amorose, come in Alegorìa dij pomin d’amor (Allegoria delle bacche di biancospino), L’erba galìa (L’erba gallica), Serenada (Serenata), Aereopoema dl’èlica piemontèisa (Aereopoema dell’elica piemontese), Fontan-e ’d Villa Borghese (Fontane di Villa Borghese), Fontan-a dël Mosé (Fontana dël Mosè), Mè faunèt (Il mio faunetto), Legion d’angej ëd fiama (Legioni d’angeli di fiamma), Faje bërgere (Fate alpine), Cantada dla sità d’Alba (Cantata della città d’Alba), Sinfonìa d’una neuit d’otón (Sinfonia d’una notte d’autunno). È da notare che il fauno danzante-poetante-corteggiante non compare solo in contesti anacreontici, ma anche futuristi (Aereopoema), segno evidentissimo che Olivero mescola spesso i filoni e crea poesie di svariatissima dosatura e composizione. L’ironia e il sottinteso si celano tra le righe.

Tra le poesie che contengono la figura del fauno e ad esso, definendolo e descrivendolo, si ispirano, troviamo la poesia Mé faunèt, che è anche la composizione alla base della meravigliosa raccolta Ij Faunèt. Curata dallo stesso autore e mirabilmente illustrata, vorrebbe essere anche una proposta tematica, che accoglie poesie tematica­mente affini: non è, a nostro parere, un accostamento di composizioni affini, ma è certamente una raccolta di grande efficacia ed esemplarità, usufruibile da un pubblico più vasto grazie ad accurate, eleganti traduzioni in francese e in italiano.[10]

MÈ FAUNÈT

Un faunèt ancoronà

’d rape d’uva e dë viòle

a j’é ’nt l’ànima mia.

Ant la stagion fiorìa

’d giroflé e ’d parpajòle

mè faunèt bala ’nt ij prà.

 

Na monfrinòta ’d boneur

bala e subia ’l faunèt

e ij fan còro le siale.

L’ha tut un bate d’ale

– cibibì, lòdne e farchèt –

ch’ai fërfoja drinta ’l cheur.

 

– Përchè mai, ànima mia,

ant la bruta stagion

t’ ses fiapa e derelìa?

– Sensa azur ’d poesìa

mè faunèt, ginojon,

a piora ’d malinconìa ...

 

Il metro consiste di tre sestine di settenari-ottonari in libera alternanza, con il primo verso che rima con l’ultimo, il secondo con il penultimo e i due centrali a rima baciata (rima speculare). Presumibilmente è stata composta nel 1944, in piena guerra mondiale, secondo la datazione fornita dall’autore stesso. In questa poesia, apparente­mente di tono anacronistico e idilliaco, oscillante tra l’anacreontico e l’arcadico, fa capolino il doppio codice, poi tipico di tutta la poesia di Olivero. È quel Perchè mai, ànima mia, / ant la bruta stagion / ’t ses fiapa e derelìa? che introduce, d’improvviso, l’elemento della contemporaneità (i tempi tristissimi attuali) e le ripercussioni sulla sua (altrimenti gaia) poesia, con l’allegoria finale del fauno che a piora ’d malinconìa, cioè dell’elemento arcadico profondamente condizionato dagli avvenimenti del tempo (e arcadico, per l’appunto, non è, visto che l’Arcadia era il distacco completo da ogni realtà politica o sociale).

Tutto ciò fornisce una prima chiave interpretativa, quale che sia il filtro o la modalità (fra i tanti e le tante via via adottati), per capire l’Olivero poeta allegorico: è sempre, in fondo, poeta della contemporaneità, poeta civile, poeta sensibilissimo alle vibrazioni e alle sollecitazioni ambientali, anche quando si traveste da fauno e utilizza allegorie che solo in superficie sono scisse dalla storia a lui dolorosamente contempo­ranea. È una poesia levigatissima, dal punto di vista formale, che si può leggere a due livelli, ma che contiene un messaggio di fondo fortissimo: Olivero osserva sé stesso e il mondo e ne esce con versi nostalgicamente mutili di quella spensieratezza che in altri tempi e in altre circostanze egli avrebbe.

Ciò richiama il tema ricorrente del poeta nato nell’età o nel secolo sbagliato (Ël don Chissiòt modern), che avrebbe composto versi in puro stile e spirito arcadico se non fosse per il fatto che si trova a vivere in tempi durissimi. Nulla di più lontano dal vero (e Olivero lo sa benissimo): è poeta che adora la sfida della contem­poraneità e che ha portato l’imperativo de Ij Brandé (poetare di cose universali) fin ben addentro al sociale, al politico, all’impegnativo destino di ogni grande cantore. La sua nostalgia fa da paravento al suo ardire, al suo coraggio, al suo oltranzoso senso di sfida: Mi në peus gnente se la vita grama / a sëmna la mia strà ’d tanti nemis: / mi ’m sovagno la ponta dij barbis / come Aramis jë sfido a ’ncrozié lama con lama.

A questi frementi, vivissimi sottintesi sopravvive e si muove, quasi indipendente, la sua voglia di amare, mai sopita, quale che fosse l’età alla quale componeva i suoi versi:

Ma ’l vòst licor

– ò pomin ross arzent

dël prim amor –

a jë sgiajiss ij dent

tant ch’a jë scor

sui lavrucio nossent.

 

1926

 

Dall’amoroso all’erotico il passo è breve, ma lo scarto di toni è netto: qui ci imbattiamo in un Olivero dai registri già più diretti, più outrés, incurante della cappa di verecondia che fino allora aveva gravato sulle muse regionali (pensiamo ad un Nicola prima e ad un Brero poi: quanti versi hanno sacrificato al loro innato pudore?) e in prossima sintonia con la poesia francese e spagnola che, in quegli stessi anni, trattava questo tema con toni più o meno altrettanto truculenti ed espliciti. L’elemento passionale gli offre l’estro per similitudini tra la più fortunate della sua poesia:

 

Su da le rèis angavignà ’nt  la tèra,

su për le ven-e ’l desidere arbeuj

e la mia man at tasta prima e at cheuj

parèj d’un pom madur che a casca ’n tèra.

Boca su boca, sensa vëdd-se ant j’euj,

(ant ij cavèj n’odor ’d mentassa amèra),

randa a lë Stlon, ch’a ten la càuna a meuj,

ij nòstri nerv son grop ëd serp an guèra.

Bela e sarvaja, ant ël calor ’d mesdì,

tuta toa carn a l’é un foré dë spi:

zanzive ’d reuse rosse ant la rijada ...

Ij bej rimòrs a passo andrinta ’d mi

come un vòle ’d colomb sota n’arcada.

E un gal a bëcca ’l sol con na cantada.

                       

(1927)

 

Spesso l’erotico – come in D’Annunzio (ma con esiti del tutto diversi) si miscida al sacro in una religione sacro-sacrilega condivisa da parecchi poeti dell’epoca. Ne è prova la composizione L’òstia ’d sangh sël Mont Olimp, mentre invece il tema arcadico, con tanto di animali personificati, e più o meno sottesamente autobiografici, riemerge in Cantada dël tòr, così valida nell’originale piemontese, così precaria e difficile da rendere nella traduzione italiana, poco atta quest’ultima – come lingua – a rendere l’originalità della composizione in una tradizione poetica che non possiede per nulla tali tradizioni. Altrettanto dicasi per la Cantata dël boch.

L’analoga Cantada dël diauleri dij pé forcù introduce il lettore alla serie (ma sparsa un po’ dovunque, come tempi e ispirazione) di poesie dedicate a streghe, magalde, masche, diavoli ed elfi, che alla vena anacreontico-arcadica sostituiscono quella popolare piemontese che, di tali figure, si nutre in ogni sua faola o racconto popolare. Il poeta si rende conto di corteggiare con queste tematiche il lato fiabesco della sua gente, ma non si accontenta di farne una mera trascrizione. Anche qui introduce elementi altamente autobiografici cui il contenuto popolano funge solo da paravento e da sfondo:

 

Quand che l’istà a së slarga an sla campagna

e l’odor dël mentàss as més-cia ant l’aria

con ël profum dl’erbètta limonaria,

            as désvija ’l diauleri ch’am compagna.

 

Faje bërgere, Oriss, Le masche, Ël servan dosano in vari modi il mitico e il fiabesco, con venature autobiografiche più o meno celate tra le quinte della sua mirabile orchestrazione di questi temi demotici.

Accanto al tema amoroso e a quello erotico troviamo il rimpianto per gli amori in erba (Prim frisson, Canson a temp ëd corenta dël cit servan ëd j’amson, Amor masnà) in cui il tono pericolosamente patetico e apparentemente dozzinale viene riscattato da sapienti dosature della componente campestre (odori di fieni, corse di bimbi, visioni solatie). Tra queste poesie si distende la lunga teoria di egloghe, serenade, canson, cioè il repertorio metrico e di genere più classico che, da un lato, palesa il serio tirocinio poetico dell’autore (la sua totale dimestichezza con ogni metro e tipo di composizione), dall’altro rivela la sua capacità onnivora di assimilare ogni genere, trasformandolo in quell’amalgama di modi e toni che sono solo suoi. E ciò in maniera sempre originalissima:

 

Legion d’àngej ëd fiama a passo an cel

su strà d’òr e prà ’d viòle a l’orizont

dël Paradis: ant l’ora dël tramont

            che na cros ëd diamant lus daré un vel.

 

Il nudo femminile come oggetto levigato, forma pura in movimento o statica, è pure oggetto delle sue attenzioni che si oggettivano in arte poetica assumendo modalità che oscillano tra il neoclassico (Sota j’euj d’òr) e il terragno più spontaneo e più icastico (Le tre patice), anche se lo stile metaforico-mitologico soccombe alle incursioni del poeta voyeur (Sèira ant ël bòsch):

 

Pen-a surtia

da un bagn d’eva ’d fontan-a,

na ran-a

a të spìa:

të spìo ’d cò mi.

 

Vëdte patìcia

veul dì vëde la lun-a

ch’a smìcia

            tra j’erbo fiorì.

 

È soprattutto il poeta civile, però, quello che canta i martiri della guerra civile (An mòrt d’un partisan alpin, Crist paisan, Stabat Mater) con toni non dissimili dal Llanto por la muerte de Ignacio di Garcìa Lorca, che si fa avanti come interprete, testimone e partecipe della tragedia dei suoi tempi (era – tra l’altro – amico del poeta spagnolo la cui tragica fine lo rattristò moltissimo). Olivero non fa misteri della sua visione apocalittica, sconsolata, del dramma nazionale: la guerra civile lascerà tracce indelebili nelle coscienze dei suoi connazionali. Mitiga il senso di assurdità del tutto invocando il tema a lui più caro, quello della libertà:

 

An slë sfond invernengh ëd la campagna

– bianca-azura-ondolà parèj d’un mar –

l’erbo e tò còrp son ferm ant na mistà.

 

Ma un fil ëd sangh, dai tò pé rèidi, a sagna

ant ij sorch frèid come scalin d’autàr

            scaudand la smens dël gran dla Libertà.

 

La libertà è, con l’amore, la magia, l’amicizia e la natura, uno dei cinque motori della poetica di Olivero.

Anche per la libertà le accezioni abbondano attraverso la produzione poetica di Olivero. Vi è, prima di tutto, una libertà individuale, precondizione alla creatività e alla vita stessa:

                       

Mi son sempre stàit lìber come ’l vent

dij mar inmens e dle montagne ardìe.

Su j’ale tèise dle speranse mie

l’hai traversà pais e continent.

 

Libertà diventa poi un valore civico, succhiato con il latte della balia e inculcato con l’abbecedario nei primissimi anni di scuola. Insomma, libertà come valore civico fondante:

 

Sui mè papé dë scolé

’d zora mè banch e su j’èrbo

drinta la sàbia e ’n sla fuòca

mi scriv tò nòm

 

su tuti ij feuj già lezù

su tuti ij feuj ancor bianch

pera sangh papé sënner

mi scriv tò nòm

 

 

Libertà infine come componente esistenziale, come ragione e religione di vita, senza la quale ogni periodica rigenerazione risulterebbe impossibile:

 

Irt! ... Podèj seurte da ’sta vàuda ’d nita

dont a fongo ambrassà gòj e dolor.

E podèj frandé al cel un crij d’amor:

 

 – Oh torna, Libertà,

a tëmpré toa spa-cros ant un reu ’d fior.

Seure ’d Jeanne d’Arc, lussìfera ’d Nosgnor!

 

Già nelle poesie d’amore c’imbattiamo nel tema dell’evasione : da questo mondo, da questa realtà, dai luoghi dell’incontro con la persona amata verso paesaggi inondati di luce e privi di forza di gravità. In questi mondi sublunari appaiono figure mitiche, grottesche, farsesche, favolose, come L’Uomo-Ippopotamo ne L’Ùltima neuit ëd Hàmed, o il vecchio marchese del Jus Primae Noctis, o Ël trionf ëd Don Juan, o

 

Lady Godiva, bionda principëssa

dla Stòria inglëisa, che ’t l’has dàit l’onor

për salvé da la taja dël tò Sgnor

ël tò pòpol con na scomëssa.

 

L’acuto spirito di osservazione di Olivero produce versi originalissimi in coincidenza con gli oggetti e le circostanze più disparate. È il caso de La cantada dël balon mondial (composta in occasione del campionato mondiale di calcio Italia '90), dello sguardo che cade Su la stàtua d’un-a morosa sconossùa d’Henry VIII, di un cuscinetto punta-aghi a forma di cuore, di una giornata di vento, di una lode in onore del pane, delle lacrime delle viole, di una madia, della Legione Straniera, delle capigliature delle donne, di un raggio di sole, delle parti del discorso per una grammatichetta piemontese, dei colori, della pesca nell’isola di Capri, di un bassorilievo funerario, di un pesco in fiore, del sonno, del fuoco fatuo, del tufo, delle raganelle pasquali, di un paio di scarponi, delle lucciole, del pane di granturco, delle rondini, delle cicale, di una sedia sola in mezzo ad un prato, delle parole di guerra, del nulla.

Non sono mai composizioni leziose o pretestuose, cucite su modelli letterari, ma considerazioni che dall’oggetto preso di mira si estendono a considerazioni sull’amore, sulla vita, sulla natura, sulla solitudine, sulla morte:

 

J’oslin ëd fiama che ant le neuit d’istà

a tërlo tra le cros dij siminteri,

se mai cantèisso, a canterìo ij misteri

d’j’amor sugnà dai mòrt ann-amorà.

 

Per le propria poesia non si fa la minima illusione. Una delle più rivelanti composizioni è intitolata Gnente ed è tutto dire:

 

Gravé ant paròle ’d piomb la poesìa

për ij viv e për coj ch’a nasseran?

Òh, fadëssa! Rabèsch fàit da mie man

son ven-e ’d feuje al vent ch’a-j pòrta via.

 

I lo sai pro: j’é ’d valentòm ch’a san

eterné ’d seugn batì ’d pera scurpìa.

Mi nò. Mi scrivo la mia poesìa

sla fiòca e për ël sol che a la seurb pian.

 

Anche la composizione Paròle an sl’eva ribadisce questa rassegnazione al passare rapido e immemore della sua opera poetica:

 

Tut lòn che scrivo mi, l’é scrit an sl’eva

e am na fa gnente s’a-i resterà gnente

dle mie paròle, triste ò soridente,

ch’a nijo sota a la mia man tròp greva.

 

Il tema reiterato è che le sue parole saranno riassorbite dalla neve che si scioglie o dall’acqua che scorre, cioè nate dal nulla, al nulla ritorneranno.

Un lieve recupero della propria opera poetica l’abbiamo in Róndola, dove la propria presenza, lui vivo, passa inosservata, ma in prosieguo di tempo sarà capita e rivalutata:

 

Quand che i sarai pì nen

s’arcorzeran che j’era.

 

Róndola ’d primavera,

flecia ant ël cel seren,

mi sarai sot na pera

ti ant na fior sël teren:

ma vëddroma pì nen

nì ’l mond nì ij sò velen …

 

Ànima mia, legera

róndola ’d primavera!

 

Uno dei temi più ricorrenti è quello della morte. Non è soltanto in occasione della morte di grandi personaggi del mondo della poesia (la bellissima prosa per Dino Campana o l’accorata composizione del Nino Costa) che emerge il tema della morte, ma esso fa capolino anche in poesie mitologiche, popolari, amorose, occasionali, come nella poesia dei colori, o quella dedicata al sonno, o alle parole di guerra. È soprattutto quando parla di tempo e di umanità alla deriva nel tempo che il tema della fragilità e della mortalità fa capolino:

 

Mocoma lenga, man e pé ai Rìcord

(sumiòt giàun) con dë spà da samourai.

Sverginoma singh vèrgin ëd Sakai

e, sgorgiàndie ant sinch tasse fin-a ai bòrd,

 

brindoma al Dragh dël Temp ch’a l’ha ’ngojà

stanta mijiard d’omnèt borenfi ’d bòria:

travondendse, con lor, tuta la stòria

’d des mila sécoj ’d regn dl’umanità.

 

L’umanità che delirand a otransa

séguita a meuire, a nasse e a vive an guèra,

antossiand l’Aria e ampoazonand la Tèra,

mare dle smens, già Dea dl’Abondansa.

 

Ma ij mè quat amis vnu dal Nirvana,

cimpà ’l saké, m’amprendo la soa siensa

’d batì tra Vita e Mòrt un pont: n’inmensa

arcada ’d fior con l’art ëd l’ikebana.

 

L’esotismo ci rivela fino in che misura Olivero abbia trasformato in sogno poetico anche i Paesi che ha effettivamente visto. In lui tutto doveva trasformarsi in una dimensione onirica anche nel momento stesso in cui dall’Islanda al Magreb contemplava, lui presente, i volti del pianeta. Scrive innumerevoli poesie su Paesi esotici, allora visitati da pochissimi, come Cuba, Hawaii, Messico, Argentina, Fiòrdane, Madèira, Haiku, Rio Rojo, ma soprattutto il deserto, che risveglia in lui crisi mistico-religiose, marce senza fine, desiderio di oasi, paura di morte:

 

S’na canissa, nu, dëstèis,

al ruin dël sol d’istà,

veuj rësté con j’euj slargà:

marabut ch’a prega Allah,

còrp e spìrit sensa pèis.

 

E s’a va la carovan-a

con le s-cirpe rosse al vent,

mi la guardo indiferent:

la saluto con la ment

tant ch’as perd travers la pian-a.

 

È in questo contesto che Olivero dà vita ai suoi audacissimi tentativi di appropriarsi di parole esotiche e di farle entrare nel linguaggio poetico piemontese:

 

Son n’antìlope al lass, ch’a stenz dë sbeuj

croland an sël sò cheur grev come ’l mond.

Am gropo e arfranzo j’òss, më splin-o j’euj,

’d serp ëd vent furibond.

 

Simoun, rè dij serpent dl’Àfrica nèira,

jë stan-a dai rantan, da le boscaje:

’d sìfoj ’d bambou sifland, a jë sbërgèira

ant bamboule sarvaje.

 

 E poi ci sono le danzatrici con le danze di tutti i Paesi, le donne in carne e ossa mescolate con le donne-mito, come Joséphine Baker, Sherazade, Mabruka, la regina di Saba, ciascuna immersa in un suo ritmo, in un suo speciale, nenioso sfondo musicale.

Il tema religioso è però quello che vede esplodere in mille direzioni diverse l’incredibile personalità di Luigi Olivero: vi sono rosari, Madonne del deserto, angeli in croce, santi, presepi, dies irae, preghiere del sangue, talismani, orazioni, pater, ma soprattutto l’emergere di una religione tutta sua, quella della creatività, della fede poetica, della fiducia senza fine nella forza della parola. La sua vera religione è l’esistenzialismo della parola che costantemente riprende, plasma e ripropone il mistero della vita. Dirà di sé stesso:

 

            L’hai piorà tròp da quand che son al mond.

            Òh! ... Piorà come un mas-cc a peul pioré:

            sensa làcrime e sensa stravanié,

            ma con ël cheur ch’a sagna ant ël profond.

 

E rincarerà la dose vedendosi vagabondo agli incroci di tutte le strade:

 

An sël mè cheur gorègn ëd vagabond

j’era la póver dlë strà ’d tut ël mond.

Amor m’ha batù ’l cheur con un tërfeuj

            e cola póver l’é volarne ant j’euj.

 

Cerca di celiare sul proprio modo di essere con lunghe composizioni come la Sirventèisa dël Novod d’Olivier, ma la verità la si trova in altri versi, tra nostalgia e consuntivo doloroso:

 

L’avìa na front  dovèrta come ’l feuj

d’un lìber ancor bianch doa che ’l destin

l’avrìa peui scribacià – con un piumin

            meujà ’d velen – tut lòn che sai ancheuj.

 

E meglio che da qualsiasi altra parte nei versi ch’egli dedica al suo quarantesimo compleanno:

 

Blòch ëd pera sarvaja, vita mia,

che l’hai scurpì con lë scopel d’assel

dël mè coragi batù dal martel

            dla volontà ’n cadanse d’armonìa.

 

In uno dei suoi più bei canti alla Primavera s’intrecciano bellezza del creato, amore, morte, illusioni, presente, passato:

 

Fin-a ’l git dla fontan-a, a tò passage,

a s’inchin-a con grassia ’d nans a ti

con në svantaj ëd perle e un bianch merlì

’d nébie che, al vent, a scumo an sël feujage.

 

Fin-a le feuje dël persié fiorì

at vòlo ancontra, tënnre, con n’airage

ëd parpajòle reuse, a fé romiage

’ntorn a toa testa bionda. E a canto ij nì.

 

E at canto ij nì una mùsica ’d bësbij

antërsija tra ij ragg dël sol e ij fij

dl’ària sbogià, ’nt ël pass, da la toa vesta.

 

Ò madonin-a con ël cheur an festa!

Ò Primavera dle canson d’amor

            che ’t pòrte, an sen, un cit mòrt. Mè dolor.

 

È in poesie come Ël gorgh e Ven l’ora che si gioca l’esistenzialismo nudo di questo grande pensatore che molte, moltissime volte si è nascosto dietro a versi bellissimi, ma scritti come rifugio, come paravento. La sua vera poesia è quella in cui riflette, liricamente, melodiosamente, ma anche sconsolatamente, sul senso dell’esistere:

 

E peui as meuir: e tut l’é stàit për finta.

Crij dl’ànima e dla carn ... amor ... bataje ...

Frisson ëd pèss fluvèt passà ’nt le maje

’d na rèj che gnente a l’é restaje andrinta.

 

Làcrime d’onda e un cit lusor dë scaje.

E ’l gorgh slusiss d’euj fiss che a-j nijo drinta

e a vira, a vira: e, an fond, as vèd la grinta

giàuna dla Mòrt ant n’arbeuj d’èrbe giaje.

 

La Mòrt ch’a speta e che ni rij ni piora

përchè a sà d’essi un’ombra sota j’ombre

’d j’eve dl’eternità che a sghijo sombre.

 

Ch’a sghijo garghe, larghe, come j’ore

dla neuja eterna ’d Nòna Mòrt: an fond

            al gorgh dij seugn e dij rifless dël mond.

 

Sono quelle acque dell’eternità che scorrono oscure che piacciono di meno ai critici che mal si ravvisano davanti a parole di questa forza dette in un “dialetto”; è quel rimanere confusi su cosa dire e sul concedere spazi molto più ampi al poetare in lingue altre che quella nazionale che la figura di Olivero diventa estremamente problematica e, in fondo, scomoda. È quando in composizioni con versi di 17 sillabe, come Elegìa për un fil d’erba ci si imbatte in versi come L’òm l’é un nisi fil d’èrba ch’a seugna ’l seugn fòl d’essi un erbo, ma che a craselo basta una ramà ’d pieuva che non si sa più come incasellarlo, perché per dire chi era bisognerebbe ridefinire lo spazio e l’essenza della poesia dialettale e abbandonare canoni funzionanti già da decenni per tanta poesia regionale, ma – ahimè – non per questa. E non meno problematiche sono composizioni lepide, scherzose e pur tanto impegnative e serie come l’Epicedion per i suoi dodici gatti morti.

Invece bisogna avere il coraggio di visitare composizioni come De Profundis

 

D’zora le eufòrbie e tra ij motass dl’ «hammada»

la neuit a bogia; as serca un reul ëd sabia,

squase a taston, come a schivé la rabia

dël teren e ij cotej ’d sa serenada.

 

Ma su la pnà dl’odor ëd carn uman-a

ij dent dle jene as mòlo ant una rijada

longa, insistenta, scantirà an sl’ «hammada»

aranda ai feu dëstiss dle carovan-e.

 

Contra ij montruch ëd pere e su le spin-e

dij fi sarvaj, tramez le fèils giaunisse

brusà dal sol, la neuit a piora stisse

            ’d disperassion su nòstre teste chin-e.

 

e riformulare da qui, al di là di ogni considerazione di attualità o di eccellenza poetica, qual è stata la poetica di questo cantore ostinatamente dialettofono, vedere perché una tale latitudine di temi manca dalle tavolozze degli altri poeti dialettali, scavare oltre la lingua e giungere ad un giudizio che è l’essenza ultima di ogni critica letteraria: era poeta e, se sì, di quale portanza, di quale originalità, di quale eccellenza?

 

È quanto cercheremo di stabilire nella prefazione ai due volumi delle sue poesie, riprendendo quanto qui già avviato, ma ben lungi dall’essere conclusivo davanti a tanta materia di canto e di autoconfessione. Che è poi anche un inno alla libertà: quella di essere sé stessi, nella propria vera lingua, senza il letto di Procuste di poetiche prefabbricate per sottrarsi alle quali si dice assai di meno del dovuto, per non cadere nel banale o per non tacere del tutto.

Olivero ha scelto la via opposta, ma condannarlo all’ostracismo critico solo perché non ha composto i propri versi in italiano è ingiusto e getta più luce su chi lo ignora che su di lui, ignorato.

Bisogna avere il coraggio di rifare i percorsi critici, chiamando in causa le poetiche nazionali e internazionali. E se il coraggio non basta, basterà la pazienza e l’amore di equità.

 

 

Sergio Maria Gilardino

Dins la valaddo prouvençale de Sancto Lucìo de la Coumboscuro

Domenica, il 9 gennaio del 2011.

 

 

N O T E

 

[1]      Le date di pubblicazione delle tre riviste sono le seguenti:

        Ël Tòr: Arvista lìbera dij Piemontèis, Quindicinale, Roma, 1945-1946. Numeri da 1 a 30 più un numero doppio, 31/32, il 15 dicembre 1948 – 1 gennaio 1949;

        Il Garibaldi: Arte Costume Storia Turismo delle Regioni d’Italia e del Mondo Latino, Quindicinale, Roma, 1952. Uscì per cinque numeri dal 15 maggio;

        Poesia dialettale (Roma 1956-1961)

        La Fiera dialettale (Roma, 1970).

 

2      Paiono esservi differenze tra le date di stesura e di pubblicazione. Lo studioso Giovanni Delfino ci fornisce, per le pubblicazioni, i seguenti dati:

        1941: Babilonia stellata, Ceschina Editore, Milano. Tre edizioni, più una quarta del 1943, notevolmente ampliata. Saggio sugli usi e costumi americani visti con occhio profondamente critico. La quarta edizione, ampliata con la collaborazione dell’amico Ezra Pound, presenta alcuni nuovi capitoli con feroci accuse alla politica economica americana sulla falsariga del pensiero di Pound. Traduzione tedesca: Babylon unter Davidsternen und Zuchthausstreifen (letteralmente Babilonia sotto stelle di Davide e strisce di galera) di Johann Von Leers, Runge, Berlino 1944.

        1945: Turchia senza harem, Donatello De Luigi, Roma. Saggio ancora molto attuale sugli usi e costumi della Turchia ai tempi della modernizzazione portata avanti da Kemal Ataturk. Traduzione inglese di Ivy Warren Turkey without Harems MacDonald & Co., Londra 1952. In Italia tirò 950.000 copie.

        1946: Adamo ed Eva in America. Alla vigilia del secondo diluvio universale, L’Atlantica Editrice, Roma. (Traduzione inglese di Ivy Warren: Adam and Eve in America, MacDonald & Co., Londra 1951. Traduzione tedesca di Otto Muller America total Plem Plem? (America totalmente sempliciotta, o ingenua, o pazza?) a puntate sulla rivista Herz Dame, Düsseldorf 1952). Saggio romanzato di vita americana. All’atto dell’edizione inglese in Italia aveva tirato già 635.000 copie.

 

3      Olivero ha scritto di avere composto oltre 1000 poesie. Con lungo lavoro di ricerca Giovanni Delfino ne ha rintracciate 529.

 

4      Sinfonìa d’una neuit d’Invern, Sinfonìa d’una neuit ëd Primavera, Sinfonìa d’una neuit d’Istà, Sinfonìa d’una neuit d’Otonn, di circa 100 versi l’una non sono tra le composizioni più lunghe. La sirventèisa dël nevod d’Olivé, la canzone alla Legione Straniera, le varie Cantade, sono assai più lunghe e superano in certi casi anche i 200 versi.

 

5      Nel 1926 un suo libricino di poesie in italiano viene premiato in un concorso organizzato da L’Illustrazione Nazionale di Bologna.

 

6      Per quanto riguarda la speciosa distinzione tra lingua e dialetto ci rifacciamo ad un nostro saggio anteriore in cui affermavamo:

        Lingua è quello che la storia ci ha consegnato.

        Tutte le lingue parlate dai popoli della terra per centinaia, a volte migliaia di anni, tutte le lingue che sono servite a tutte le necessità di quei popoli ben prima dell’arrivo di lingue forti, sono lingue. È il cumulo di parole e di campi semantici in ogni parola che fa una lingua. Ogni parola corrisponde ad un oggetto, ad un atto, ad una situazione creati e vissuti nella storia di quel popolo. Lingua quella degli algonchini come quella dei mercanti fiorentini, lingua quella dei walser come quella dei traders newyorkesi, lingua quella delle truppe e degli ufficiali piemontesi a Magenta e a Solferino come quella dei marines a Okinawa.

        Che poi molte di quelle lingue non siano diventate lingue ufficiali, o prestigiosi veicoli letterari, che siano rimaste emarginate e che – di conseguenza – siano oggigiorno solo più parlate in forma residuale, non vuole dire che non sono lingue. Se mai non sono più utilizzate come lingue totali, ma dietro a quelle poche parole che rimangono ci sono le diecine di migliaia di parole che ogni popolo nei secoli immancabilmente ha accumulato.

        È questo accumulo di parole nel corso dei secoli che conta. Quello è il tesoro di base. Tutte le lingue, ufficiali o no, sono partite da quel nucleo. Del tutto infondato pensare che ci siano nuclei storici più cospicui di altri: ogni popolo ha registrato la propria storia nella propria lingua. Se non ci fossero state certe esperienze, certe tecniche, certe difficoltà, certi percorsi, non ci sarebbero certe parole. Un popolo litoraneo, migrato verso territori di montagna, dopo una generazione diventa un popolo di montanari. Certe parole muoiono, certe parole nascono. I processi di neologia spontanea (come il modo eschimese di chiamare una mela o un’arancia) sono tra i più affascinanti. Ma anche le parole che spariscono lasciano sempre delle tracce, a volte in un modo di dire, altre in un avverbio e in un proverbio. La somma finale è la storia di quel popolo. Certo è che nessuno “nasce qualcosa”; tutti diventano “qualcosa”. Per questo le parole di ciascun popolo sono uniche, ma i pilastri su cui si regge la creazione dei campi semantici fisici e metafisici di ogni parlata sono equivalenti.

        Da questo punto di vista tutti i popoli e tutte le lingue sono uguali.

        [...]

        Una lingua locale, quando passa dalla bocca dei parlanti alla penna di un grande poeta, si arricchisce ipso facto attraverso complessi processi di diastratia, diacronia e diatopia, per cui una lingua scritta è sempre lingua e non più lingua locale, ma universale.

        L’universalità della lingua locale non dipende dal fatto che essa voglia valicare i confini della regione, ma dal fatto che veicola eccellenza poetica. Nel momento in cui una lingua diventa portatrice di grande poesia l’incombenza di capirla non è più di chi ha creato quella poesia, ma del critico-lettore.

        [Sergio M. Gilardino, La poesia della terra, inedito]

 

7      Giuseppe Macrì, Gabriele Cena, Orfeo Tamburi, Giovanni Consolazione, Gregorio Prieto, Johan Castberg, Eugenio Dragutescu, Josè Escassi, Sergei Horn, Henri Matisse sono alcuni degli artisti che hanno illustrato le sue opere poetiche. Ve ne sono diecine d’altri sparsi nelle varie riviste.

 

8      Sodalizio nato a Torino nel 1927 e fondato sul principio di poetare in lingua regionale ma non di soli argomenti regionali, insomma sul presupposto di sprovincializzare la poesia in piemontese. Produsse grandi maestri di eccezionale levatura artistica e letteraria sull’arco di ben tre generazioni. Il caposcuola fu Pinin Pacòt che redasse pure i principali articoli nella rivista Ij Brandé.

 

9      1971 Icilio Petrone: «La lingua piemontese e la rivoluzione permanente della poesia di Luigi Olivero», Prefazione-intervista a Rondò dle masche L’Alcyone Roma: “Il dialetto piemontese è una lingua allo stesso modo che un pollaio è la Mole Antonelliana, un paracarro è la piramide di Cheope, un grappolo di ribes è l’Orsa Maggiore, un pizzico di piselli è una broche di smeraldi, un armadio da cucina è la porta maggiore della basilica di San Pietro, uno stuzzicadenti è la Colonna Traiana, un culbianco è un’aquila reale.”

 

10     L’elegante volumetto Ij Faunèt contiene 69 poesie, una prefazione “Luigi Olivero ou de la céleste anarchie” di Alex Alexis (Pseudonimo di Luigi Alessio, poeta, scrittore, giornalista, editore da Caramagna Piemonte TO). Secondo lo studioso Giovanni Delfino, dalla cui biografia di Olivero sono tratte queste note, solo 17 poesie risultano pubblicate qui per la prima volta. Tutte le poesie hanno traduzione italiana di Clemente Fusero, traduzione francese del poeta corso Anton Francesco Filippini e della scrittrice belga Simone Blavier.

 



[1]      Le date di pubblicazione delle tre riviste sono le seguenti:

        Ël Tòr: Arvista lìbera dij Piemontèis, Quindicinale, Roma, 1945-1946. Numeri da 1 a 30 più un numero doppio, 31/32, il 15 dicembre 1948 – 1 gennaio 1949;

        Il Garibaldi: Arte Costume Storia Turismo delle Regioni d’Italia e del Mondo Latino, Quindicinale, Roma, 1952. Uscì per cinque numeri dal 15 maggio;

        La Fiera dialettale (Roma, 1955-1961).

[2]      Paiono esservi differenze tra le date di stesura e di pubblicazione. Lo studioso Giovanni Delfino ci fornisce, per le pubblicazioni, i seguenti dati:

        1942: Babilonia stellata, Ceschina Editore, Milano. Tre edizioni, più una quarta del 1943, notevolmente ampliata. Saggio sugli usi e costumi americani visti con occhio profondamente critico. La quarta edizione, ampliata con la collaborazione dell’amico Ezra Pound, presenta alcuni nuovi capitoli con feroci accuse alla politica economica americana sulla falsariga del pensiero di Pound. Traduzione tedesca: Babylon unter Davidsternen und Zuchthausstreifen (letteralmente Babilonia sotto stelle di Davide e strisce di galera) di Johann Von Leers, Runge, Berlino 1944.

        1945: Turchia senza harem, Donatello De Luigi, Roma. Saggio ancora molto attuale sugli usi e costumi della Turchia ai tempi della modernizzazione portata avanti da Kemal Ataturk. Traduzione inglese di Ivy Warren Turkey without Harems MacDonald & Co., Londra 1952. In Italia tirò 950.000 copie.

        1946: Adamo ed Eva in America. Alla vigilia del secondo diluvio universale, L’Atlantica Editrice, Roma. (Traduzione inglese di Ivy Warren: Adam and Eve in America, MacDonald & Co., Londra 1951. Traduzione tedesca di Otto Muller America total Plem Plem? (America totalmente sempliciotta, o ingenua, o pazza?) a puntate sulla rivista Herz Dame, Düsseldorf 1952). Saggio romanzato di vita americana. All’atto dell’edizione inglese in Italia aveva tirato già 635.000 copie.

[3]      Olivero ha scritto di avere composto oltre 1000 poesie. Con lungo lavoro di ricerca Giovanni Delfino ne ha rintracciate 529.

[4]      Sinfonìa d’una neuit d’Invern, Sinfonìa d’una neuit ëd Primavera, Sinfonìa d’una neuit d’Istà, Sinfonìa d’una neuit d’Otonn, di circa 100 versi l’una non sono le composizioni più lunghe. La sirventèisa dël nevod d’Olivé, la canzone alla Legione Straniera, le varie Cantade, sono assai più lunghe e superano in certi casi anche i 200 versi.

[5]      Nel 1926 un suo libricino di poesie in italiano viene premiato in un concorso organizzato da L’Illustrazione Nazionale di Bologna.

[6]      Per quanto riguarda la speciosa distinzione tra lingua e dialetto ci rifacciamo ad un nostro saggio anteriore in cui affermavamo:

        Lingua è quello che la storia ci ha consegnato.

        Tutte le lingue parlate dai popoli della terra per centinaia, a volte migliaia di anni, tutte le lingue che sono servite a tutte le necessità di quei popoli ben prima dell’arrivo di lingue forti, sono lingue. È il cumulo di parole e di campi semantici in ogni parola che fa una lingua. Ogni parola corrisponde ad un oggetto, ad un atto, ad una situazione creati e vissuti nella storia di quel popolo. Lingua quella degli algonchini come quella dei mercanti fiorentini, lingua quella dei walser come quella dei traders newyorkesi, lingua quella delle truppe e degli ufficiali piemontesi a Magenta e a Solferino come quella dei marines a Okinawa.

        Che poi molte di quelle lingue non siano diventate lingue ufficiali, o prestigiosi veicoli letterari, che siano rimaste emarginate e che – di conseguenza – siano oggigiorno solo più parlate in forma residuale, non vuole dire che non sono lingue. Se mai non sono più utilizzate come lingue totali, ma dietro a quelle poche parole che rimangono ci sono le diecine di migliaia di parole che ogni popolo nei secoli immancabilmente ha accumulato.

        È questo accumulo di parole nel corso dei secoli che conta. Quello è il tesoro di base. Tutte le lingue, ufficiali o no, sono partite da quel nucleo. Del tutto infondato pensare che ci siano nuclei storici più cospicui di altri: ogni popolo ha registrato la propria storia nella propria lingua. Se non ci fossero state certe esperienze, certe tecniche, certe difficoltà, certi percorsi, non ci sarebbero certe parole. Un popolo litoraneo, migrato verso territori di montagna, dopo una generazione diventa un popolo di montanari. Certe parole muoiono, certe parole nascono. I processi di neologia spontanea (come il modo eschimese di chiamare una mela o un’arancia) sono tra i più affascinanti. Ma anche le parole che spariscono lasciano sempre delle tracce, a volte in un modo di dire, altre in un avverbio e in un proverbio. La somma finale è la storia di quel popolo. Certo è che nessuno “nasce qualcosa”; tutti diventano “qualcosa”. Per questo le parole di ciascun popolo sono uniche, ma i pilastri su cui si regge la creazione dei campi semantici fisici e metafisici di ogni parlata sono equivalenti.

        Da questo punto di vista tutti i popoli e tutte le lingue sono uguali.

        [...]

        Una lingua locale, quando passa dalla bocca dei parlanti alla penna di un grande poeta, si arricchisce ipso facto attraverso complessi processi di diastratia, diacronia e diatopia, per cui una lingua scritta è sempre lingua e non più lingua locale, ma universale.

        L’universalità della lingua locale non dipende dal fatto che essa voglia valicare i confini della regione, ma dal fatto che veicola eccellenza poetica. Nel momento in cui una lingua diventa portatrice di grande poesia l’incombenza di capirla non è più di chi ha creato quella poesia, ma del critico-lettore.

        [Sergio M. Gilardino, La poesia della terra, inedito]

[7]      Giuseppe Macrì, Gabriele Cena, Orfeo Tamburi, Giovanni Consolazione, Gregorio Prieto, Johan Castberg, Eugenio Dragutescu, Josè Escassi, Sergei Horn, Henri Matisse sono alcuni degli artisti che hanno illustrato le sue opere poetiche. Ve ne sono diecine d’altri sparsi nelle varie riviste.

[8]      Sodalizio nato a Torino nel 1927 e fondato sul principio di poetare in lingua regionale ma non di soli argomenti regionali, insomma sul presupposto di sprovincializzare la poesia in piemontese. Produsse grandi maestri di eccezionale levatura artistica e letteraria sull’arco di ben tre generazioni. Il caposcuola fu Pinin Pacòt che redasse pure i principali articoli nella rivista Ij Brandé.

[9]      1971 Icilio Petrone: «La lingua piemontese e la rivoluzione permanente della poesia di Luigi Olivero», Prefazione-intervista a Rondò dle masche L’Alcione Roma: “Il dialetto piemontese è una lingua allo stesso modo che un pollaio è la Mole Antonelliana, un paracarro è la piramide di Cheope, un grappolo di ribes è l’Orsa Maggiore, un pizzico di piselli è una broche di smeraldi, un armadio da cucina è la porta maggiore della basilica di San Pietro, uno stuzzicadenti è la Colonna Traiana, un culbianco è un’aquila reale.” (15)

[10]     L’elegante volumetto Ij Faunèt contiene 69 poesie, una prefazione “Luigi Olivero ou de la céleste anarchie” di Alex Alexis. Secondo lo studioso Giovanni Delfino, dalla cui biografia di Olivero sono tratte queste note, solo 17 poesie risultano pubblicate qui per la prima volta. Tutte le poesie hanno traduzione italiana di Clemente Fusero, traduzione francese del poeta corso Anton Francesco Filippini e della scrittrice belga Simone Blavier.