LUIGI ARMANDO OLIVERO

2 novembre 1909 ~ 31 luglio 1996

di Giovanni Delfino

delfino.giovanni@virgilio.it

 

Olivero 

 

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Rondò dle masche L'Alcyone, Roma, 1971

Ij faunèt Il Delfino, Roma, 1955

Articoli di Giovanni Delfino riguardanti Luigi Olivero pubblicati su giornali e riviste

Traduzioni poetiche di Luigi Olivero in piemontese e in italiano

Genesi del poemetto Le reuse ant j'ole: sei sonetti di Pacòt e sei di Olivero

Commenti ad alcune poesie di Luigi Olivero a cura di Domenico Appendino 

Le poesie di Luigi Armando Olivero (Prima parte)

Le poesie di Luigi Armando Olivero (Seconda parte)

Le poesie di Luigi Armando Olivero (Terza parte)

Luigi Olivero Giornalista

Luigi Olivero e Federico Garcia Lorca

Luigi Olivero ed Ezra Pound

Olivero e D'Annunzio

Sergio Maria Gilardino - L'opera poetica di Luigi Armando Olivero 

Poesie di Luigi Olivero dedicate allo sport

Pomin  d'Amor (Prima raccolta inedita di poesie di Olivero)

Polemiche

Poesie dedicate al Natale  e ad altre ricorrenze (Pasqua, Carnevale...)

Bio-bibliografia

Aeropoema dl'élica piemontèisa

Poesie inedite

Poesie in italiano

Poesie dedicate a Villastellone ed al Piemonte

Episodi della vita di Luigi Olivero

Scritti inediti  e non di Luigi Olivero

Lettere ad Olivero

Artisti che hanno collaborato con Luigi Olivero

Biografia di Luigi Olivero: primo scenario (Gli inizi)

Biografia di Luigi Olivero: secondo scenario (Prima stagione poetica)

Biografia di Luigi Olivero: terzo e quarto scenario  (Verso la tempesta: diluvio universale ~ Viaggi)

Biografia di Luigi Olivero: quinto e sesto scenario (Attività frenetica ~ Roma: maturità d'un artista)

Biografia di Luigi Olivero: settimo ed ottavo scenario (Incontri, polemiche, viaggi, cantonate ~ Ultima stagione ~ Commiato)

Appendici prima, seconda e terza

Appendice quarta ed ottava

Appendice quinta: gli scritti di Luigi Olivero su giornali e riviste

Giudizi espressi in anni recenti su Luigi Olivero

L'officina di Luigi Olivero

Luigi Olivero legge la sua Ël bòch

Documenti e curiosità

Siti integrativi

 

Secondo scenario

 

Incontro con Alfredino, Pinin Pacòt e la “Companìa dij Brandè”: prima grande stagione poetica

 

     Il primo incontro con la letteratura piemontese avviene, come racconta lo stesso Olivero, nel 1928, quando si imbatte in un sonetto di Alfredo Nicola pubblicato su Il Pasquino. (1) Prosegue poi ricordandoci che già da due anni scriveva sonetti in italiano, che, gentilmente, quella rivista gli pubblicava e che Io  non avevo ancora scritto una sola virgola in piemontese. Un giorno, sul giornale di Gec (Enrico Gianeri), appare un sonetto di Alfredino in cui questi manifesta tutti i suoi dubbi nella scelta di un regalo per la fidanzatina, pensando infine di ricorrere ai soliti due etti di diablotin (cioccolatini). Olivero risponde ad Alfredino con due suoi sonetti in cui, al posto dei due etti di diablotin, consiglia invece due etti di basin, che sicuramente sarebbero meglio accolti, e poi, se del caso, rafforzati dai due etti di diablotin.  Ecco il sonetto di Alfredino così come apparve su Il più piccolo, settimanale d’attualità torinese  di Alberto Grappini  del dicembre  1928:

 

         ‘L regal ‘d Natal                                        

Savìa pà cos regaleje, epura

vôlend acôntentè me pôciôniñ,

 l’avìa neñ veuja ‘d fè bruta figura

e ‘d rôbatè ‘n dôi ettô ‘d diablôtiñ…

 

Anlôra côn ‘na frisa d’añcalura

ì l’ài  gatjaie ‘l cheur un mômentiñ

côntent se ‘na parola, anche se scura,

l’aveissa fame – ônesta – da lumin.

 

Ma côme ‘na côrenta campagniña

ch’a gira sensa fin, vertiginôsa,

sôa lenga l’à ciapame ‘na rôtiña

 

ch’i l’ài mai vistne uña tant famôsa…   

Mi quindi fasend l’erbo ‘mbacucà

‘n dôi ettô ‘d diablôtin sôñ rôbatà! 

Il regalo di Natale

Non sapevo cosa regalarle, eppure / volendo accontentare  l’amor mio, / non avevo voglia di far brutta figura / e cascare in due etti di diablotin… //

Allora con un pizzico d’ardire / le ho solleticato un attimo il cuore / felice se una parola, anche se oscura, / m’avesse fatto – onesta – da lumino. //

Ma come una correnta campagnola / che gira senza fine, vertiginosa, / la sua lingua m’ha preso in una routine //

che  mai n’ho visto una così  famosa… / Quindi, facendo l’albero infagottato / nei due etti di diablotin son cascato!

Alfredo Nicola CopertinaNicola

 

 

 

 

Alfredino in un acquarello di Mercedes Tomaselli

           Il sonetto viene pubblicato poi da Alfredino nella sua raccolta Penombre, dedicato a Luigi Olivero, con una variante al penultimo verso:

Mi quindi côn ‘na gran semplicità

           Olivero nella copia di Penombre in suo possesso (oggi in proprietà Silvio Bonino, Margarita CN) chiosa:

migliore, questo verso, nella prima lezione

          Sul numero successivo della rivista di Grappini del gennaio 1929, ecco i due sonetti di Olivero in risposta ad Alfredino: 

 

                  L me regal                                                  

                           I                                                                            

     Ti ‘t ses l’eterno cit ch’a l’à paura        

dle faje, dël diaôlot e dël magnin.

Ma ciamô mi!… ‘ndè fe côla figura

‘d regaleje a la sfrincia ii diablôtin!

 

     L’è pà ‘n regal, lô-lì. Cônven-e pura,

‘t l’as propi avù ‘n penssè ‘n po’ miserin.

Ti, ‘nvece, côn dôi etto… d’ancalura

‘t pôdie slanssete e deie… ‘n bel basin.

 

     Chila, spôrsend-te tuta la bôchin-a,

l’avrìa pi nen pôdù mnè la longhina

o dete ‘d gena côn sôa vôs grassiôsa.  

 

     E ti, côn n’aria franca e côntegnôsa,

‘t l’avr’a pôdù bësbeje : «O pôciônin,

t’aùguro ‘n bòn Natal côn côst basin!» 

 

                            II                                                                  

     Un bel basin da mascc, giust e serà

su la sôa bòca frëssca e caprissiôsa,

un ‘d côi basin ch’a sciodô mach d’istà

o ch’a pasiò la fiëtta pì nervôsa;

 

     dilô ti, dilô ti, ch’it l’as cantà

l’ariëtta dla môntagna delissiôsa,

dilô ti, ch’it l’as l’anima armôniôsa

dël poeta gentil an-namôrà:

 

     dilô: l’er-lò nen mei côl bel basoto

ai dôi etto ‘d pastiss ch’it l’as portaje?

l’er-lò nen mei ‘na paròlina bela -

 

     ch’a strensëissa dôi cheur an t’un sôl moto -

che ‘l nastrin vernisà ‘d côle batiaje,

che ‘l dôi etto ‘d pastiss ch’it l’as portaje?

                                                                                                               

Il mio regalo

I

Sei l’eterno bimbo che ha paura / delle fate, del diavoletto, del calderaio. / Ma dico io!… fare quella figura / di regalare all’innamorata i diablotin! //

         Mica è un regalo quello. Convienine, / hai proprio avuto un misero pensiero. / Tu, invece, con due etti… d’ardire / potresti lanciarti e darle… un bel bacio. //

                 Lei, porgendoti tutta la boccuccia, / non l'avrebbe potuto  tirarla tanto alla lunga / o darti impaccio con voce graziosa. // 

E tu, con  aria  franca e  contegnosa, / avresti  potuto  bisbigliarle: «Adorata, / t'auguro  buon

Natale con questo bacio!»

            II

Un bel bacio da maschio, giusto e schioccato /  sulla sua bocca fresca e capricciosa, / uno di quei baci che sbocciano solo d’estate / o che calmano la fanciulla più nervosa; //

dillo tu, dillo tu, che hai cantato / l’arietta della montagna deliziosa, / dillo tu, che hai l’anima armoniosa / del poeta gentile innamorato: //

dillo, non è meglio quel bel bacio / che i due etti di dolcetti che le hai portato? / non è meglio una parolina bella – //

     che stringa due cuori in un sol movimento – / che il nastrino colorato di quei confetti, / che i due etti di pasticcini che le hai portato?

  

           Olivero   aggiunge   in   margine   al foglio   quali correzioni: ‘l bindel  per

‘l nastrin e ant l’istess moto per an t’ un sôl moto.

          Alfredino risponde ringraziando del suggerimento, Olivero gli invia una gioconda lettera che viene fatta leggere a Vincenzo Signorini che ben conosce entrambi. Signorini li fa incontrare e diventano così  amici. È proprio Nicola a introdurlo quindi nella cerchia degli autori e letterati che si raccolgono sotto le insegne della "Companìa dij Brandé"  e a convincerlo a comporre da allora le sue poesie in piemontese. (2)

           Sarà poi l'incontro con Pinin Pacòt, raccontato dallo stesso, in una sera  del 1930 (precedente il mese di luglio, vedere nota N° 3) all'osteria di Murisengo, a schiudergli il rapporto personale - un'amicizia difficile ma sincera, fragile ma preziosa - con  l'altro grande letterato della cultura in piemontese del Novecento che così ce lo presenta:

E cola seira, për la prima vòlta, mi, i l’hai conossù Vigin Olivé, che as në rivava da soa Vilastlon tapà con un magnìfich paira ‘d braje bianche (antlora ancora ‘d mòda), che mach a vëddje, a preanunsiavo già soa originalità.

Sùbit i soma capisse. E mentre d’antorn a noi as parlava ‘d dialèt e ‘d grafìa, ‘d teatro e ‘d cansonëtte, ‘d Viriglio e ‘d Paggio Fernando, tra ‘d noi, i l’ero sùbit disse ‘d nòm, che, për noi, a l’avìo ‘l son  misterios ëd paròle ‘d riconossiment. E i l’avoma parlà sùbit ëd Baudelaire, ‘d Verlaine e ‘d Rimbaud, ëd Leopardi e ‘d Campana, ‘d Rubén Dario e ‘d Mistral. Poeta che i conossìo mach noi, ò che për lo meno i chërdìo d’esse mach noi a conòsse. … Ma antlora i l’ero giovo, e i la pensavo parèj, quand che i soma conossuse, Olivero e mi. E për lòn, an nòm dla poesìa, i soma dventà sùbit amis.

A l’è staita n’amicissia dificila, ma sincera; fràgila ma pressiosa. Coma un cristal, che për boneur, a l’è mai rompusse, anche se a l’é stait pi ‘d na vòlta an perìcol.

…  Lòn che a interessa a l’è che cola originalità che Olivero, già antlora, a manifestava ant soe prime poesìe, a fussa autèntica, viva e vital, e a pudeissa, coma a l’ha fait, dé vita a na poesìa neuva e sincera, ant la forma e ant la sostansa. … Adess i veuj mach salutè, ant l’òm ëd mond che a l’è dventà ancheui, giornalista, scritor, polemista, poeta, conossù, stampà e premià an Italia e fòra, col giovnotin ëd tanti ane fa, annamorà dla poesìa. (3)

Foto

            Disegno

 

 

Pinin Pacòt in foto e in  disegno di Macrì

          Ancora del 1930 è un’altra conoscenza che contribuirà all’indirizzo futuro di Olivero. Di passaggio, ormai sempre più  raro,  nella sua Villastellone, legge su ‘l caval ‘d brôns un articolo di Paggio Fernando in cui, tra l’altro, si cita il fatto che Tito Gantesi si è ritirato a vivere proprio a Villastellone, nella pace di uno splendido giardinetto, circondato dai suoi libri e dai suoi ricordi. Leggere la notizia e cercare di rintracciare il Gantesi per Olivero è tutt’uno. Nessuno però conosce Gantesi a Villastellone. Chiede lumi a Paggio Fernando che gli dà la dritta: chiedere di Chiaffredo Tommaso Agostinetti, suo vero nome. Ecco così l’incontro con la pi rinomà dle polingane antiche e navigà dla bibliofilìa piemontèisa (la più famosa delle vecchie e navigate volpi della bibliofilia piemontese)  come ebbe a definire Gantesi il Viriglio.

Gantesi

Gantesi (seduto a dx) con amici nel suo giardino a Villastellone

          Così   Olivero descrive Gantesi in un sonetto inviato su una cartolina illustrata a Paggio Fernando: 

L’hai peui «intervistà» Tito Gantesi

un pres-diné ‘ndorà come l’arista

e ‘ndrinta ‘l mè carnet  da giornalista

.l’hai d’cò pëssialo tra j’«appunti presi».

 

La figura a l’é nen d’un archivista

ch’a passa la soa vita an s’ij scartare

baricoland su j’«edizioni rare»

con na barëtta, an testa, da sacrista.     

 

Gnente afàit! A l’é un òm ch’at dà la man

con na franchëssa tuta piemontèisa

e, ‘nt chiel, j’é pròpi nen d’àut-tut ch’a pèisa.

        

Ai pèiso j’ani, sì. Ma j’ani a smijo,           

su certi erbo gorègn, ëd pòm ch’a rijo     

e ch’ai fan gola ai giovo da lontan…                       

Ho poi «intervistato» Tito Gantesi / una tarda mattinata dorata come un’arista / e nel mio carnet da giornalista / l’ho così pizzicato tra gli «appunti presi». //

La figura non è quella d’un archivista / che passa la sua vita tra i quaderni / sforzandosi gli occhi sulle «edizioni rare» / con, in testa, una berretta da sagrestano. /

Niente affatto. È un uomo che ti da la mano / con una franchezza tutta piemontese / e, in lui, non c’è proprio nulla che pesi. //

Gli pesano gli anni, si. Ma gli anni somigliano, / su certi alberi tenaci, a dei pomi che ridano / e che faccian gola ai giovani da lontano…

 Gantesi

Gantesi in un disegno di "Carlin" del '41

          Olivero prosegue: A l’è così che ‘l pi giovo e sfrandà di poeta piemontèis dla neuva generassion a vëdija ji stantatré ani che Tito Gantesi a l’avija antlora: stantatré pom codôgn galup, colorà di soris dël bon imor e grev dël gius dla sapiensa, ch’a pendijo da n’erbo vej ma tutun drit e massis. …

L’òm che tuti i leterà pi brav, durant pi che mes sécol e da le tère pi lontan-e, a l’han avsinà ciamandje ‘d consèj, ‘d notissie, d’informassiôn, d’agiùt ë-stòrich, leterare, bibliogràfich, ëd documentassion vària, che chiel a negava mai a gnun: l’òm ch’a l’avija armugià an tute le biblioteche statai e privà, trovand ëd document importantìssim e sovens decisiv…Un modest ch’a l’ha sempre contribuì a fé-je fé bela figura a j’autri mentre chiel as contentava’d resté ant l’ombra a studié e a travajé, sërcand sempre ‘d neuve pianà ch’a lo mnèisso a ‘d neuve dëscuverte bibliogràfiche. … A forsa ‘d savèilo modest, për ël « bon Malino» (come lo hanno sempre chiamato gli amici) a l’avijo gnanca pi ‘l riguard ëd sitelo come colaborator.

Benedet òm! (4)

         Natale del 1931. È solo a Ventimiglia tra i fiori del locale mercato. Nostalgia, solitudine, ricordi… Gli viene spontaneo un sonetto dal titolo Mercà dle fior che dedica all’amico farmacista, Monssù Dino Piccaluga; da questo episodio prende forse avvio, tra il dicembre del 1931 e il marzo del 1932,  con Pinin Pacòt, con cui ha ormai stretto amicizia,  una sorta di agone poetico, batajòla ‘d rime, con la composizione dei dodici sonetti, sei di Pacòt e sei di Olivero dal titolo generale Le reuse ant j’ole dedicate al Dott. Giocondo Dino Piccaluga,  cui ho già accennato, ex capitan dël 3s Alpin ant la guèra 1915-’18, peui spëssiari a Vilastlon…ël  grand seigneur ëd col ësplendrient giardin ëd reuse (dont le pì ràire e voajante dedicà ai nòm dij sò soldà mòrt al front) andoa ch’a spompavo cole ole argin-e, rosse e pansarùe… Nel giro di cinque, sei settimane inizia una corrispondenza tra i due a base di cartoline postali in cui si scambiano i sonetti che mano a mano vanno a completare l’opera. Ancora nel 1979 Olivero riteneva che …costa improvisà batajòla ‘d rime abondantement grassëtte e fin-a assé teratologicament ithyphalliques… non fosse pubblicabile. Sul ‘l caval ‘d brôns del 21 maggio del 1932 da alle stampe il suo primo sonetto con il titolo J’ole ‘d Monssù Dino. Nel suo articolo apparso sull’Armanch dij Brandè del 1979, dove traccia la storia del poemetto, pubblica  il primo sonetto di Pinin Pacòt e i suoi primo, con minime varianti rispetto alla versione de ‘l caval ‘d brôns, e ultimo. Olivero nell’articolo dichiara pure di essere l’autore del titolo del poemetto. Mi pare che Pacòt lo contraddica in una sua lettera appartenente al Fondo Olivero di Villastellone, purtroppo non datata, ma sicuramente contemporanea o di poco successiva al completamento dei sonetti dove afferma:

Ho copiato i sonettacci. Se lo intitolassimo “Le reuse ant j’ole”? Sarebbe una camicia abbastanza pudica, che non starebbe neanche male su tutte le porcherie che abbiamo consciamente perpetrato. E che il cielo ce le perdoni!

           I sonetti sono stati poi dattiloscritti da Olivero in sei copie, numerate da uno a sei, rilegate in fascicoletti di 26 pagine e distribuiti agli amici più intimi, compreso Alfredo Nicola, dalla cui copia poi Giuseppe Goria, nell’articolo Le reuse ant j’ole, pubblicato sul numero 9 del settembre 2005  di Piemontèis ancheuj, darà alle stampe tutta la raccolta che vedrà così finalmente la luce. I sonetti I, III, V, VII, IX e XI sono di Pinin Pacòt, il II, IV, VI, VIII, X e XII di Olivero. Ancora di Olivero il post scriptum al sonetto IV e il nota bene al V, entrambi di ulteriori due versi l’uno.

           Una copia particolare, con tutti i sonetti vergati a mano da Pacòt ed Olivero su carta Aurelius, rilegatura in pergamena e frontespizio artisticamente miniato dal pittore e acquerellista Agide Noelli, fu dedicata, ad personam, al Dottor Giocondo Dino Piccaluga con la data del marzo 1932. Copia purtroppo andata distrutta nel corso di un bombardamento aereo della seconda guerra mondiale su Vinovo, dove lo spëssiari si era ritirato a trascorrere i suoi ultimi anni.

            Tra le carte del Fondo Olivero di Villastellone, in alcune cartoline e lettere di Pinin Pacòt inviate da Torino a “Luigi Olivero pubblicista Villastellone”, una con indirizzo “Al fiamengo e togo Luigi Olivero pubblicista Villastellone” in data 18 dicembre 1931 e 15, 16 marzo e seguenti del 1932, sono presenti, dei sonetti di Pinin Pacòt, in versione autografa, due versioni del  settimo, il nono e l’undicesimo, nonché un’ultimo, senza  numero progressivo, che risulta essere il terzo. Do in nota   la trascrizione  integrale dei quattro sonetti in quanto differiscono in parte da quelli pubblicati da Goria, sia per la grafia che per il contenuto, in particolare per le numerose varianti. (5)

           Oltre che essere autore (falsamente con ogni probabilità) del titolo del poemetto, di cui ho già parlato, nel corso del suo articolo Olivero afferma che i sonetti che pubblica sono inediti; il suo primo però era già apparso su ‘l caval ‘d brôns. Afferma inoltre di aver restituito a Pacòt le cartoline originali dei sonetti, mentre le stesse, tranne una, sono  presenti tra le carte di Olivero nel Fondo di Villastellone.

          Merita poi citare quanto Olivero dichiara quasi in conclusione del suo scritto, e cioè di aver confinato le sue poesie

pì ciciosëtte, vitaminiche e nackturaliste… ant l’infernòt d’un lìber antitolà Le patice. Lìber che probabilment a rësterà inédit përchè l’hai decidù ‘d feme, un di o l’àutr, fra capussin an sl’esempi dël manzonian mè amis Fra Cristoforo, dòp tante bataje: comprèise cole ch’a son da ‘nregimenté, second Luìs de Góngora y Argote, sota l’ansëgna ‘d sò vers famos an tuti i pajs de abla española e maraman an tut ël mond :a batallas de amor campo de pluma (ùltim ëd la Soledad primera).

           Ho anticipato per convenienza narrativa l’episodio della composizione del poemetto Le reuse ant j’ole, riprendo ora il racconto cronologico.  

          Scopre presto la sua fervida vocazione letteraria e giornalistica, tanto che inizia a collaborare, non ancora ventenne, con La Stampa e con Stampa Sera.

           Nel 1929, sul Monte Pirchiriano, presso la Sagra di San Michele, a picco sulla Val di Susa e le Chiuse, dove Carlomagno  nel 773 aggirò e sconfisse i Longobardi di Desiderio, compone la Romanza dle romanze dël sàut dla Bel’Àuda d’an cò dla Sagra ‘d San Michel inaugurando il vezzo di derivare così il componimento: Dësgifrà ‘nt na veja bërgamin-a trovà da un pëscador drinta un’arsela gòtica ‘d pera scurpìa, antamà ‘nt la riva dë Lagh ciòt dë Vian-a. Vezzo che seguirà poi con la pubblicazione di Adamo ed Eva in America. (6)

           Sempre nel 1929 è a Versailles dove compone Dama da cheur nel Parc de St. Cloud.

           Nell’inverno del 1929, a soli vent’anni, è chiamato a far parte del gruppo di lavoro alla Direzione dell’O. N. D. (Opera Nazionale Dopolavoro) di Torino con Matteo Bartoli, Nino Costa, Alfredo Formica, Ferdinando Neri, Giuseppe Pacotto, Leo Torrero e Andrea Viglongo. Il frutto di questo lavoro, che purtroppo ebbe a disposizione un limitato lasso di tempo, fu presentato da Pinin Pacòt come introduzione alla collezione Scritor Dialetaj Piemontèis di Andrea Viglongo e da allora conosciuto come grafia Pacotto-Viglongo. (7)

           Di Frédéric Mistral ricorre nel 1930 il centenario della nascita. La Compania dij Brandé decide di dedicare un omaggio al poeta provenzale con la pubblicazione di un volume di poesie a lui dedicato. Sotto l'egida di Pinin Pacòt, l'editore Viglongo, per i tipi del suo Studio Editoriale Librario Piemontese, pubblica A Mistral Omagi di poeta piemonteis raccolta di poesie di 17 autori diversi, tutti appartenenti alla Compania. Del giovane Olivero sono presenti 5 poesie La fija sola, Ël cheur e la cabana, Leterine d'amor, Venere d'aqua dossa, Ël «cocolino d'oro».

          In relazione a quest'opera mi piace soffermarmi su due episodi, solo uno dei quali riferentesi direttamente ad Olivero.

          Nella raccolta sono presenti due poesie di Tommaso Grosso con l'indicazione Nà a Bra ant ël 1898. Ingegné. Le due poesie Ariëtine amorose e L'omagi a nome del Grosso, sono state segnalate a Pacòt dal poeta Pinòt Casalegno. Pacòt le reputa consone e le inserisce nella raccolta. Le poesie sono però dello stesso Casalegno, nascondonono due acrostici. Infatti dalle iniziali dei versi della prima si legge Balin provenssal e da quelli della seconda A l'é na montatura. Il fatto non viene subito alla luce, tanto che la seconda edizione di A Mistral dell'anno successivo, con il nuovo titolo Diciasette poeti piemontes,i riporta ancora le due poesie firmate Tommaso Grosso. Ovvio il grande disappunto di Pacòt.

          Ecco ora quanto riguarda Olivero. Questi il 12 dicembre del '30 scrive all'editore Viglongo su carta intestata della rivista orobica cui collabora e della quale ho già fatto cenno Il pensiero. Chiede ad Andrea di annunciare la pubblicazione ad un certo numero di nominativi assicurando che acquisteranno quasi sicuramente l'opera. Chiede altresì di accantonare, per ogni ordine che perverrà, una piccola percentuale che possa andare a costituire il prezzo di un volume da inviare a lui quale contropartita!

           Remo Formica su La favilla. Rivista di coltura della lega italiana di insegnamento del gennaio '31 recensisce l'opera collettiva. Non è molto tenero con Olivero. Ecco due stralci dedicati al nostro:

... Ma in questo volume piace notare la vasta collaborazione dei giovani: Renzo Brero, Armando Mottura, Alfredo Nicola, Luigi Olivero, Carlottina Rocco, Teresio Rovere. Dal degno drappello si stacca  la fresca poesia di Carlottina Rocco (la migliore, mi pare), ma tutti meritano un elegio per la nobiltà cui quasi sempre  la loro poesia è ispirata.  (Se l'Olivero non avesse pubblicato Ël cheur e la cabana non avrei, forse, dovuto scrivere quel «quasi sempre»).

Personalità in formazione, niun dubbio, e che si manifestano traverso incertezze stilistiche e qualche stridore o debolezza improvvisa (l'Olivero chiude malamente il sonetto  di Venere d'aqua dossa che sarebbe, senza l'ultima terzina, mirabile; ...

          Questi concetti il Formica ribadisce anche nel secondo volume del suo In Beozia. Scorribande traverso il Piemonte letterario del 1930. Olivero ospiterà sul suo Èl Tòr poi molti articoli del Formica. O non ha avuto occasione di conoscere questi giudizi o, dati gli anni passati, li ha ben digeriti.

            Nel 1931 è a Cuneo come corrispondente per il Giro Ciclistico del Piemonte organizzato dal locale Dopolavoro Provinciale. Come ci racconta, in un articolo pubblicato sull’Armanach piemontèis del 1941, qui trova, mentre si sta recando alla Posta Centrale a trasmettere il suo pezzo, attraversando una piccola stradina, due o tre ragazzini che giocano alla scuola con il maestro in cattedra davanti ad una cassetta con sopra qualche fascicoletto malandato. Uno è il libricino del Parnas piemontèis del 1831, ormai raro almanacco annuale di poesia. Avsineme, feme mostré ‘l lìber, feme compagné da soa mare, pagheilo doi ë-scu e portemlo via sòta j’eui slargà dla mare e dël cit ch’a l’han chërdume un soget manicomiabil, a l’é stait un moment. (8) Troverà poi il fascicolo del 1845 nel 1940 a Carmagnola cercando, con una bella ragazzina, la nidiata di gattini che mamma gatta aveva nascosto. Fra mistà sbiadìe, pissèt mufì ‘d sinquantani fa e un fichu ‘d sent che ‘d sicur a l’avija coatà i rissolin d’una grassiosa antenata dla totin-a, a l’è vnuje fòra un libretin rilegà an ros, tut anlupà ‘d bòra e cuvert ëd pòver e d’aragnà. A l’era chiel e a l’é costame tersent… basin. (8) Il fascicolo del 1849 lo troverà poi a Parigi sempre nel 1940 portando a termine, ed acquisendo il possesso, di quella che allora credeva l’unica raccolta completa esistente dei preziosi fascicoletti. (Nota 9 quarto scenario)

            Occupandosi dei preziosi volumetti di ottocentesca poesia piemontese, Olivero ci regala anche questo suo pensiero:

Col Parnas che, tute le vòlte che l’hai pensa-je ad Agostinetti, ant costi tre ani, a l’é vnume la veuja ‘d procureme: come sempre, ant mia vita, l’é vnume la veuja ‘d procureme  tute le còse che gnun a l’ha e d’andé ant i pòst dova gnun a l’é staje.(8)

            In questi anni è caporedattore della rivista letteraria torinese Le grandi firme diretta da Pitigrilli e per un breve periodo vive poi a Venezia in qualità di condirettore de Il Gazzettino Illustrato. (9)

           Verso la fine dell’anno invia due poesie a Pinin Pacòt destinate all’Armanach del 1932, Cantaran-e dla neuit e Canta con tut l’argent… Sono entrambi il primo verso delle due poesie che verranno pubblicate rispettivamente con i titoli Le tre fôntane e Neuit a la Vila e che ho già citato tra quelle che Olivero ha dedicato al Suo paese natale. Invia anche il profilo del pittore Luigi Onetti, Pacòt ne chiede la sostituzione in quanto troppo lungo. Non verrà così pubblicato e se ne perderà purtroppo traccia.

            Nel 1933 compone la già citata Ël rodon destinata  all’Armanach Piemontèis del 1936, la censura preventiva fascista di allora ne vieta la pubblicazione. Nello stesso 1933 è a Budapest dove compone Sìngher.

            Corre ancora il 1933 quando Olivero è al Ristorante del Cambio a Torino in compagnia di Filippo Tommaso Marinetti, allora in piena polemica antipastasciuttara. Pastasciutta che Marinetti considera un piatto passatista, pesante allo stomaco, assolutamente controindicato al superdinamismo della generazione futurista. In pieno ossequio con i suoi dettami, quel giorno, al Cambio, con Olivero, Marinetti si divora un autentico Vesuvio di fumante pastasciutta.

   Marinetti                                                       Marinetti                                     

           Da questo, e da altri incontri con Marinetti, prenderà le mosse la composizione del futuristico, nell’ideazione poetica e nella composizione grafica, Aereopoema dl’elica piemontèis che lo stesso Marinetti definirà come vibrante di audacissima aeropoesìa, ùnica in tutti i dialetti del mondo.

         Rimaniamo ancora in ambito futurista. Ad Albisola, la cittadina della ceramica d’arte, Tullio Mazzotti, figlio del fondatore delle Ceramiche Mazzotti, tuttora attive, che si farà chiamare Tullio d’Albisola, inizia un intenso rapporto con i Futuristi e stringe amicizia con Munari, Marinetti, Fontana e tanti altri che frequentano il suo atelier. Le lettere che gli verranno scritte negli anni dai tanti amici e collaboratori futuristi, saranno poi raccolte e pubblicate in ben quattro volumi.

            Oltre che alla ceramica, di cui diviene maestro, si dedica anche alla poesia e compone L’anguria lirica, un lungo poema passionale che verrà pubblicato, come secondo esempio di tale sistema, stampato su fogli di latta. È illustrato da Munari e Diulgheroff con prefazione di Marinetti. L’impressione è della lito-latta Nosenzo di Savona per le Edizioni futuriste di “Poesia” di Roma.

Tullio

            Un giovane studente di architettura, Italo Lorio, autore di novelle e racconti (Fumo negli occhi Montes Torino 1934, Tempo di marcia Montes Torino 1935), è amico e collaboratore di Tullio d’Albisola. Chiede più volte di poter collaborare a le grandi firme. Ottiene l’incarico. Pubblica anche una lusinghiera recensione alla nuova fatica di Tullio al quale, con una lettera del 15 gennaio 1935, su carta intestata della rivista, chiede   di inviare in regalo una copia de L’anguria lirica a Luigi Olivero che in quel momento è caporedattore a Torino de le grandi firme.

Tullio

           Il 20 marzo Olivero, che ha ricevuto l’omaggio, così si rivolge con una lettera inviata a Tullio:

…ho ricevuto tutto: la stupenda “Anguria” in lito-latta che conservo, come una preziosa rarità editoriale, sul mio scrittoio…

           Sempre a proposito dell’Anguria così aveva scritto a Tullio in una precedente del 22 gennaio:

Noi ci siamo conosciuti sulla pista aerea della FIAT il giorno della manifestazione futurista in onore di S. E. Marinetti.

Ma le 5 fette rosso-fuoco dell’ANGURIA LIRICA mi pervengono sul binario luce della poesia comunicando ai miei nervi 5 scosse della sensibilità elettrica che irradia dall’anima del POETA CAMPIONE DI TORINO.

Tullio

            Da una lettera di Italo Lorio a Tullio d’Albisola estraggo questo pensiero sul  futurismo del gruppo d’Albisola:

Stando a quanto mi dici del futurismo non sono che volgari sfruttatori dell’altrui ingegno e capacità. Noi siamo molto ma molto lontani dal futurismo prampoliniano. Nel nostro progetto non c’è che “semplicità, logica, proporzione, economia” il resto è armonia e buon gusto.

Tullio  

         Ancora un aneddoto riguardante Olivero, Marinetti ed il poeta Corrado Govoni (Frazione Tàmara di Copparo FE 1884 – Lido dei Pini Anzio 1965).

            Nota l'amicizia di Olivero con Marinetti, altrettanto quella di Marinetti con Govoni, anche quest’ultimo seguace, per alcuni anni, della corrente futurista.

            Olivero racconta che, dopo la morte di Marinetti del 2 dicembre 1944, nei primi giorni del gennaio 1946, passeggiando per Roma, in Via del Babuino, entra in una libreria d’occasioni. Qui,  uno scaffale polveroso, sopra  sette  volumi pubblicati da Marinetti, tutti con dedica autografa, più che affettuosa,  a Corrado Govoni.

           Una delle dediche recita Al grande poeta Corrado Govoni, alla Meravigliosa Primavera della Sua anima. Con affetto. F. T. Marinetti.

           La parola ad Olivero:

Noi avoma gnun-e intension ëd fé belessì né l’apologia né la stroncatura ‘d F. T. Marinetti. Soma nen ëd fassios e soma nen ëd critich. Ma an fa dëspiasì – un dëspiasì ch’a confin-a con lë scheur – constaté coma ant l’ànima d’un poeta – ch’a duvrìa esse l’ànima pi sensibila e nòbila ‘d tute le ànime – a peussa formasse tanta cràcia ‘d vigliaccheria da feje arneghé la memoria d’un amis mòrt doe vòlte – fisicament e leterariament – con un gest così trivial come col ëd vende da cartassa inùtil ij so ùltim lìber sensa gnanca avej ël rigoard elementar dë s-ciancheje ‘l prim feuj dova col amis a l’ha pogià la man për ë-scrive la pi sincera, forse, dle soe diciarassion d’amicissia: coma l’è squasi sempre la diciarassion che në scritor a peul ofrije a un cambrada an letteratura quand a compagna, con le pòche paròle scrite an front d’un sò lìber, la sostansa viva dël sò pensé convertìa an carta stampà.

Savoma tuti – e tanti ‘d noi a l’han provà – ij sacrifissi ‘d costi ultimi ani che sovens a l’han obligane a vende le nostre còse pi care për compresse ‘d pan.

Savoma tuti che F. T. Marinetti a l’era fassista, an fasìa ciamé Caffeina d’Europa,  a l’avìa definì la guèra sola igiene del mondo,  a l’avìa ant chiel una bon-a dòse ‘d ciarlataneria mës-cià con una bon-a dòse d’ingegn auténtich mal impiegà; e ades a l’è, a rason ò a tòrt, universalment dëspresià.

Ma ij difet ëd l’òm e le soe tare politiche, ch’a esistjto già quand ch’a l’era an vita e donca a pudijo esse considerà fin d’antlora da j’amis che ancheuj a lo arnego, a peulo nen e a devo nen giustifiché un gest come col ch’a l’ha fàit Corrado Govoni ades che l’òm a l’è mòrt e, come l’oma già dit, anche leterariament sotorà. Un gest ëd bassa vigliacherìa, ripetoma, paragonàbil al gest ëd cola bestia african-a ch’a pissa an sël cadàver  ëd l’òm che na minuta prima a l’era ancora sò padron e ch’a la carëssava tratandla da amija. …

Però… Però la nostra cita aventura libraria a l’è ancora nen finija e ‘l séguit, se an fà rije ‘d cheur, an fà ‘d cò pensé ch’ai sia un destin che sèrte vòlte as divert a vendiché ij mòrt dj’afront ch’ai fan ij viv.

Ancheuj, passand ant una strairòla ‘d Tor di Nona pien-a dë strassé, dë marsé e ‘d feramiù, l’oma vist për tèra, tra na savata rota e un portacandèile armis, un lìber oit e s-cianchërlà ‘d Corrado Govoni: Poesie scelte (1903-1918) / edission Taddei e figli Ferrara. Soma chinasse a sfojatelo, sensa dësfilesse ij goant da le man. La prima pagina a l’era soagnà d’una bela dédica autografa dl’autor a una creatura che chiel a batesava «mia divina ispiratrice».

Una «divina ispiratrice» - viva la soa fàcia ‘d tòla, giuradisna! – ch’a l’ha campà ‘nt la pàuta le poesìe ‘d col poeta che, dëspresiand l’amicissia, a l’è meritasse, a soa vòlta, ‘d vëdse dëspresià, forse, l’amor…

L’oma comprà col lìber ëd Govoni. Soma andài a compré, sùbit dòp, coi sèt lìber ëd Marinetti. E i guernoma tuti eut come un-a dle documentassion pi singolar dla fondamental saloparìa dl’ànima uman-a 1946.

          Quel che è fatto è reso. Morale di allora. Morale dell’oggi e del domani! (10)

           Tra il 1933 ed il 1935 collabora attivamente, come articolista e traduttore, alle due riviste gemelle torinesi il dramma e, appunto, le grandi firme. Su quest’ultima pubblicazione trovo anche numerose traduzioni di Felicina Viscardi (a volte a firma Fele Viscardi) che di Olivero diverrà moglie da qui ad una decina d’anni.

           Spesso, da parte di ambienti torinesi, si è detto e scritto che, per Olivero, questa sarebbe una sua seconda firma. Anche se non posso escluderlo tassativamente, devo però dire, dopo attenta lettura di scritti della Viscardi, che lo stile, sia negli articoli che nelle traduzioni, si differenzia notevolmente da quello del  futuro marito.

           Da Cineserie pubblicato sul il dramma del 15 settembre 1934, dove Olivero disquisisce della ritrosia del teatro torinese a rappresentare opere di nuovi autori, stralcio un paio di brani:

Permettetemi di gustare tutta la gioia polmonare di uno sbadiglio educato – emesso con la palma tesa davanti alla bocca e senza sollecitare dalla laringe le modulazioni ipocritamente smorzate che sono la prerogativa del pubblico di prima fila delle poltrone  ad un concerto d’organi – e lasciatemelo dedicare alla produzione teatrale rappresentata dalle filodrammatiche torinesi nella stagione che si è chiusa. Davanti alle mie palpebre socchiuse crepitano  ancora tutti i coriandoli variopinti della soddisfazione  fisica che mi è derivata da questa innocente voluttà ghiandolare.

A queste filodrammatiche è bene ricordare come il Regime abbia disciplinati, potenziati, attrezzati i complessi dell’OND affinché compiano una funzione  educativa, perfezionatrice, peptonizzante, e non per ostinarsi a covare sullo scaldino di terracotta dei passatismi le fantasie dell’epoca del landeau, le storie vergate con la penna d’oca dei nostri avi gloriosi che sonnecchiano, effigiati con la papalina in equilibrio sul cranio lucidato  al «sidol», nelle gallerie dei fantasmi dei nostri gottosi castelli di provincia.

           Negli scritti della Viscardi, sia di quest’epoca, che in quelli successivi, nulla si trova di solo lontanamente paragonabile a quanto sopra trascritto, che per Olivero, invece, è la norma.

             Nel 1935 collabora ancora con Pinin Pacòt alla stesura del vaudeville Da Mondgardin a Addis Abeba per la Companìa ‘d Mario Casaleggio rappresentato per oltre cento repliche nell’inverno 1935-1936 al Teatro Rossini di Torino. Il primo atto del vaudeville conteneva anche, a dire di Olivero, alcune svice cansonëtte  an piemontèis di Pinin Pacòt. (5)

            Nel 1935, per l’Armanach Piemontèis del 1936, recensisce la nuova raccolta di poesie di Pinin Pacòt Crosiere dandoci una bella interpretazione della poesia di Pacòt che potrebbe benissimo essere la sua:

È në bsògn d’evasion, un mal sutil e tajent ch’aj fronsiss l’ànima, coma un fil ‘d seda bandà, ‘l mal che provoma tuti noi giovo: andé, navighé, volé, perdse ant ël lontan ëd la tera, dl’eva e dël cel; për savej, për vive fina a la fin nòstra pena, për lese ant j’eui d’òmini ‘d tute le rasse e ‘d tuti i canton còsa a l’é ch’a j’avisina, còsa a l’é ch’a j divid; për gòde ‘d na libertà sensa fren, d’un galòp ëd vitòria, fòi ‘d sol e d’asur, anciocand-se dël vin ëd j’obade e nutrend-se dle fëtte savurìe d’j’anelon ëd tute le lune pì caude d’amor. (11)

           Verso la fine del 1935, sempre per l’Armanach piemonteis del 1936, scrive Silabare dël poeta neuvsent piemonteis che a 26 anni racchiude l’idea di Olivero per quello che deve e dovrà essere la poesia piemontese. Dai principi enunciati in 23 capitoletti, le lettere dell’alfabeto, si distaccherà ben poco negli anni a venire. Ancora oggi il Silabare merita attenzione, come d’altra parte rileva Giovanni Tesio nella sua prefazione a Romanzie. Ne diamo qui alcune lettere: 

COSA pretendo costi vej  avans ëd carògne antidiluviane ch’a bato i pé doss su 154 sìlabe con ëd cadense e ‘d pensé di temp ëd Madama Real?

A vëdne nen, con i sò euj catërlos, che la pelìcola dla vita a l’è pi nen la medesima ‘d Lumiere ma ch’a presenta d’autre sene, d’autri gest, e che ‘l sò coment a l’è pi nen  col d’un piano dëscordà, sonà da ‘d pé fiorì d’aiassin, ma ch’a l’è fait da ‘n còro ch’a ‘ntona le vos medesime dla vita?

A sent-ne  nen ch’aj socrola da tute part un frisson neuv, una volontà inedita, në slans modern, n’ambission cauda ‘d superament?

Nò. Le veje carògne né vëddo, né sento. I sò euj a son sensa vista, i sò òss a son sensa miola. E ‘l sò fòsforo a traspariss pi nen – gnanca ant le neuit caude d’istà.

DOMJE na socrolà dë spale a la pover dël rispet tradissional. Domje un colp ëd batipover an sla schina di pi gargh: e peui piomje për man e tiromje con noi ant ël vent. Respiroma, e mostromje a respiré, a gola duvèrta e a nas liber. Sentiroma, e as sentiran, i polmon arsolà e le giàndole ambotìe: coma se ‘l buracio uman ch’a pendìa ai fìi dël pregiudisse a sia dësvijasse a l’improvis con una volontà soa, con una veuja ‘d vive soa, con un’ànima, un’ànima soa che chiel a savìa nen d’avèi e che adess as treuva duverta – coma na fior ch’a bèiv ël cel con una sèi sensa fin… 

E BASTA con i Brichetaire filòsofo, La bagna di povron e La vita sgairà, ch’a son nen poesìa. Përchè i giovo maravijos ch’a l’han nobilità soa vita ant le trincere dël Carso e ch’a son dventà filòsofi ant i Kriegsgefangenenlager rusiand i tross di povron; e noi, ancora pi giovo, che l’oma frustasse l’ànima e la sòla dle scarpe a sërchesse ‘n tòch ëd pan an s’i marciapé dla disocupassion internassional; noi, poeta sarcàstich, brutai, insensìbii ai fidlin dël ciairdluna e a le gnògne slavà di sensacojon; noi,  i l’oma na concession motobin diversa e rispetosa dla poesìa. 

FEDE ‘d nascita - ò pedigree? – dla nòstra poesìa.

L’oma ‘mparà a trovela, vestìa an piemonteis, su n’idrovolant a quota 6000 an vòl su l’Acròpoli; su jë vlu d’un-ë sleeping atravers ël Mitteleuropa; sul pont d’un batel fracassà da la tempesta an mes al Mediterraneo; për na contrà spagneula foratà dai fusìi dla rivòlta; ant una benna ‘d paja e ‘d cìmes an sle seuje dël Sahara; drinta la gòi tëbia e paisana d’una casòta vërdarossa dla campagna piemonteisa.

Poesìa a l’é tut lòn che dla vita a intra ant noi; rosà velenosa ò parfumà, soris inossent ò schèrne ‘d rivòlta; për fene sgnor anche se strasson, gentìi anche se sostansialment maleducà; për che dle nòstre emossion  i na fasso un colié ancërmant e pressios da argaleje al desidere ‘d perfession ch’a j’é an fond a tuti. 

GIGANT ëd pera, con la testa coronà ’d tute le stèile dël firmament, Dante, su le seuje ansangonà dla stòria ‘d nòstr pòpol, a ricòrda al pòpol che ‘l prim linguage (12) adat a esprime la poesìa dla vita a l’é ‘l dialèt

Ël dialèt, compagn dël vent e dla buria, creatura arsonanta nà da la tera e dal mar, batesà dal travai, faità a la pas e a la guèra, sensibil a le vibrassion ancreuse e sempie dj’element përché sciodù da le vos medesime  dj’element dla natura: ch’a son vivi ant ël pòpol përché ‘l pòpol a l’é mangiatera: come as ciamo i paisan tra ‘d lor.

Retòrica, sité Dante? Nò. A l’è motobin pi retòrich chërde che ‘l dialèt bantù o l’esquimeis, l’awaian ò ‘l piemonteis a peusso nen esprime con nobilità la poesìa dla vita: quand che fina le serve  dël Polesine e dla Basilicata a riconòsso che tuta la mùsica, ‘d tute le part dël mond, a peul esprime elevassion e sentiment.  

LAVESSE j’euj ant ël dì ‘d Santa Lussìa, a l’é il pi bel sìmbol ch’a l’abio ansignane da masnà. A l’é nen mach una parabòla dla mitologìa  cristiana: a l’é un consèj d’igiene spiritual che tut òm a dev compì ant l’età dël giudissi.

Lavomse j’euj ant l’eva di rì e aussomie al cël pë ch’a së specio ant l’azur e për ch’as lustro a ch’as suvo ant la sàbia d’òr, splendrienta, dël sol.  

ÒH! le ragnà che l’oma dovù dëstaché da l’edifissi liberty dla nòstra coltura! Che ‘d bergamine, che ‘d cartasse inùtii e pretensiose l’oma dovù argalé ai tnivlòt di dentin aùss di giare e a le perforatris autògene naturai dle càmole di solé. Che bele fantasìe ‘d tribù ‘d bòie panatere l’oma dovù organisé, për trovesse tranquìi., anfin, con nòstra cossiensa e scoté nòstra sensibilità novela, fërbëlla, dësdeuita, ma viva, ciaira, fantasiosa: ch’a cor a pé dëscàuss an sle strobie e longh ai senté; ch’a scota – con le gambe an aria pataria – ‘l motor ëd n’aeroplano ant l’azur; e che s’aj taca ‘l vërtigo ‘d fé un pecà sla sponda d’un ri a lo fa e s’aj taca ‘d contelo a lo conta ‘d cò!  

PECÀ! E-lo pecà fé l’amor? A sarìa un pecà nen felo. E përché nen canté l’amor: caud, liber, naturista, angorgà ‘d passion primitive, coma lo sentoma noi giovo - e nen coma lo subiave voiautri pé doss quand che fasìe i vasco con ël  colèt ëd celulòide, la farinata an s’na bija e le braje streite?

Lassene un pò’ canté l’amor  a nòstra manera; ché tant, anche s’a varia ‘nt  l’espression, ël gest  a cambia nen. E ‘l risultato a l’é sempre ‘l medesim: i cit ch’a j’avnirà da noi – coma coi ch’a son ë-vnù da voiautri – a jë smijran a le mame e le cite a jë smijran ai papà.

Lassé che canto l’amor a nòstra manera.

QUATÒRDES vers a basto për fërmé un mond poétich, quand che ‘l poeta a l’é dabon un poeta (sismògrafo  dla sensibilità soa e dla sensibilità dël mond ch’a gira d’antorn a chiel) e nen mach un beduìn dle rime ch’a mena quatr fèje tosonà e quatr  con ël pèil long, tre berine bianche e tre grise, a pasturé për ël desert d’un concet desolà, cissandje con òndes colp  për vòlta cadensà su la tòla da petròlio dla métrica tradissional.

14 vers sensa firma a peulo fé dì queich volta: «sossì, dal deuit, a l’é na poesìa ‘d Nino Costa», «son a l’é na lìrica sgnora ‘d Pinin Pacòt».

Përché? Përché ‘l poeta a l’ha durvì la fialëtta ‘d soa ànima e a l’ha versane un pò’ dla soa essensa su cole quatòrdes righe ‘d piomb ch’a peulo avèj fait pioré ‘l lynotipista ch’a l’ha componuie.

E, sovens, a basta un titol, un nòm, un agetiv, a cataloghé un poeta. (13) 

                  Lo stesso numero dell’Armanach Piemontèis, su cui Olivero pubblica il suo Silabare, ospita anche un suo ritratto, Olivero formato tessera,  che Pinin Pacòt gli dedica. Diamo un ampio stralcio anche di questo per rendere meglio comprensibili alcuni passaggi del Silabare.

……………………………………….

Olivero…a l’é un fiolin drit e degurdì, ch’a sa avsinesse a la poesìa con l’istessa sincerità e sensa gena, ch’a s’avsinnrìa a na bela fija dla Vila, là ‘nmes a l’òr di gran sota la gran serenità dël cel d’assel, antant che chila as na va cantand e j’euj aj rijo, an brass al sol ch’a l’anlupa ‘d calor e aj gonfia l’ànima ‘d veuje e ‘d libertà. Pòche paròle drite.

                                     E baci e strilli su l’accesa bocca

                                     mesconsi…(*)

Con doj euj foinù ch’a fisso sensa bassesse e un bel soris posà an s’j làver parèj ‘d na sigarëtta avisca, con un ghëddo degordì e sovens alégher, Olivero, coma a dev piaseje a le fomne bele, così ‘d vòlte aj dà ‘n s’i nerv a certi gilichèt aserb e a certi moscardin madur e bièt, ch’a son gelos ëd chiel, perché la poesìa aj va sot-brassëtta, parej dle bele fije. Eh, sacherlòt! L’è giovo; e peui,

                                     i poeta a son sempre giovo!

         E giovo, Olivero, al l’é, nen mach per l’anagrafe, ma pì che tut per soa manera barivela ‘d sautesse a cavalina, con ëd ciombe fiamenghe, tre o quat sécoi ëd poesìa dialetal piemonteisa, e ‘d feje na bela rijada ansima! Ma si, le tradission, le scòle, le manere a valo giusta mach  per cola pòca poesìa ch’aj sarìa l’istess, sensa le tradission, le scòle, le manere. E che Olivero a rispeta ò a rispeta nen la tradission, ch’a pìja Viriglio per un grand òm ò mach per l’autor dla bagna di povron, tut lo-li a l’ha gnune importanse; basta mach che

                                     la soa a sia poesìa.

……………………………..

         E quand che ‘l pojin l’ha podù drissesse sle gambe drite e sutile, a l’ha podù pié l’andi, a l’é partì con tuti i seugn, travers a le stra dla fantasìa e travers le stra dla tèra. Fratel pi giovo ‘d Rimbaud, e ‘d tuti j’autri vagabond ëd le stèile. E la poesìa ch’a l’avìa an chiel a l’ha portala an gir per ël mond, dai mascheugn angossant dle metròpoli d’Europa, al misteri bianch di vilagi african solitari e sperdù an brova di desert, a le campagne vërde frësche e riposante ‘d cà nòstra; a l’ha portala an gir ansima a j’onde tempestose dël mar, per le stra – vent e nivole – dël cel, long le rotaje lusente e an si stradon bianch ëd póver, daspertut dova che lë bsògn ò ‘l desideri a lo portavo, per trovela sempre e mach an chiel, tëssùa, con tute soe angosse e soe rivòlte, con tute soe veuje e soe gòi an sël tlé cadensà, tra un seugn e na pena, ‘d soa ànìma doleuria profonda. Cola ch’as vëd nen sota ‘l rije tajent dël polemista dësbrilà e bìrichin, ch’a dòvra la lenga sutila e pontùa, parèj d’un fiorèt, ch’a vòla improvis da la tersa a la quarta, per parte decis ant lë slussi ‘d n’afond sensa parada.

         Polemista per temperament, moschetié dël Re, d’Artagnan ëd la poesìa, per chiel tute j’ocasion a son bone per tachesse con le guardie del Cardinal. E guardie del Cardinal, per chiel, a son tuti coi che ‘d sòlit a scapo, për stërmesse a l’avait darera j’erbo, pontand lë spaciafòss contra l’alegra cavalcada ch’a s’avsina cantand, con le spa al sol e con le piume al vent. Per lòn a l’é fasse, forse, pi ‘d nemis che d’amis. Bon segn. L’òm, soa arte, soe idee a son nen

                                     indiferent. E a va bin.

          D’autra part, lòn ch’a conta pi che tut ant un poeta a l’é peui mach soa poesìa. E Olivero, poeta a l’é. ‘L volum ch’a stamprà prest a lo proverà, portand na nòta tuta neuva ant la poesìa piemonteisa, marcand na personalità original ëd poeta, ch’a mancrà nen ‘d trové tanti ch’a vorran discutlo sensa capilo, ma a troverà ‘d cò queicadun che, an nòm dla poesìa, dòp d’avèilo lesù, a dventerà

                                     per sempre sò amis.

                                                                                     PININ PACÒT

(*) Carducci? E perché no? St’ann a l’è sò sentenari.

 

Note al secondo scenario (Le traduzioni senza indicazione sono dell’autore) 

1) Così scrive Olivero (vedasi nota N° 2). Il Pasquino cessa le pubblicazioni causa censura fascista nel 1930. Purtroppo in Piemonte sono introvabili gli anni dal 1925 al 1930. Bisognerà rintracciare le annate dal 1926 circa al 1928 in cui potrebbero trovarsi poesie in lingua di Olivero. Il foglietto arancione  di cui parla Olivero e che distribuiva Alberto Grappini è Il più piccolo: settimanale d’attualità pubblicato a Torino. Ne esiste copia lacunosa per gli anni dal 1924 al 1930 alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Dovrò farvi un salto. (Vedere la nota N° 2 qui di seguito). 

Enrico Gianeri (GEC) (Firenze 1900 – Torino 1989).

Avvocato, giornalista, caricaturista e vignettista umoristico. Dirige la rivista satirica torinese Il Pasquino dal 1923 al 1930, quando la rivista è soppressa dall’allora regime fascista. Dirige anche la rivista Il codino rosso. È caricaturista stabile a le grandi firme, dalla fine della gestione Pitigrilli con il numero 384 dell’ottobre 1938 quando, a causa delle leggi del  regime  fascista  la  rivista passa all’ editore Mondatori sotto la direzione di Cesare Zavattini, fino  a tutto il 1939. 

Bibliografia 

La donna, la moda, l’amore in tre secoli di caricatura Garzanti Milano 1942;  Il Cesare di cartapesta: Mussolini nella caricatura Vega Torino 1945; De Gaulle ieri oggi e domani Teca Torino 1958; Storia del cartone animato Omnia Milano 1960; Storia del femminismo Omnia Milano 1961; Gianduja nella storia, nella satira Famija turinèisa Torino 1962; Storia di Torino dalle origini ai giorni nostri Piemonte in bancarella Torino SD; Piemont ovrié Piemonte in bancarella Torino SD; Vocabolari dla mala Piemonte in bancarella Torino 1976. 

2) Luigi Olivero Il Paradiso in technicolor della poesia di Alfredino  prefazione a Nivole di Alfredo Nicola 1950.

Esiste una predestinazione per le amicizie, come esiste una predestinazione per i matrimoni. Ero un minorenne metà anarchico e metà sognatore, metà per posa e metà per costituzione, quando, venticinque anni or sono, conobbi Alfredo Nicola. Alto, snello, aristocratico, misurato nella parola e nel gesto, di otto anni più adulto di me, era il mio “contrario”. Da almeno due anni, i nostri versi in italiano (firmati Alfredino i suoi, igi ero  i miei) apparivano spesso pubblicati, per una curiosa coincidenza, in décauville nelle colonne del Pasquino di Gec e in quelle di un foglietto arancione – il più piccolo – effemeride settimanale, nutrito di pubblicità e di vagìti letterarii, che Alberto Grappini faceva distribuire nelle vie, nei caffè, nei teatri torinesi.

Un giorno fece capolino da quel periodico un sonetto piemontese di Alfredino in cui si raccontavano le perplessi­tà di un innamorato nella scelta di un regalo per la fidanza­tina: perplessità tanto perplessa che finiva per scivolare nei soliti «doi etto ’d diablotin». Io non avevo ancora scritto una sola virgola in piemontese. Ma quel giorno mi vennero spontanei due sonettini alquanto scapestrati nella forma e nella sostanza, nei quali mi rammaricavo con Alfredino per la sua scelta che io avrei eletto, se si fosse trattato della mia innamorata, in «doi etto ’d basin», i quali certamente sareb­bero stati accolti con maggior entusiasmo chemotàttico se non gastronomico, dalla graziosa ricevente: tanto più che gli altri due etti di «diablotin» potevano ugualmente soprag­giungere di rincalzo a completare la festa. Il giornaletto pubblicò i miei sonettini con la dedica, Alfredino li lesse, mi mandò subito una lettera di allegra solidarietà in cioccolatini e baci da regalare alle nostre leggiadre pupe, io lo ri­cambiai con un’altra lettera gioconda che venne fatta legge­re dal destinatario al comune amico Vincenzo Signorini, allora studente in una delle sei o dodici (o diciotto?) facoltà in cui si è poi laureato, il quale ci avvicinò: ci fece conoscere personalmente. Fu così che Alfredino ed io divenimmo amici. E fu così che Alfredino mi indusse alla poesia piemontese, la cui «càmola» mi venne presto innestata nel cervello da Pinin Pacòt a cui egli, a sua volta, mi presentò contemporaneamente ai poeti, allora già uniti in gruppo e collaboratori al Caval ’d Brons, Carlottina Rocco, Renzo Brero, Aldo Daverio, Armando Mottura, Renato Bertolotto e tutta la gaia brigata con la quale si costituì rapidamente la «Compania dij Brandé». Ho narrato la genesi di questa semplice e meravigliosa amicizia, perché in essa è contenuta l’origine della mia stessa poesia piemontese. Infatti, senza Alfredino e senza i suoi «doi etto ’d diablotin», quasi sicu­ramente io non avrei mai scritto in lingua subalpina. Non avrei conosciuto Elisa Vanoni Castagneri, Pinin Pacòt, Nino Costa, Oreste Gallina, Carlo Baretti, Pinòt Casalegno, Nino Autelli, Mario Albano, Arrigo Frusta, Paggio Fernando, Giulio Segre, e tanti altri cari poeti amici, vivi o, purtroppo, defunti ma ugualmente in vita nella loro sopravvivente poe­sia: avrei seguitato ancora per qualche anno, forse, a rapisar­deggiare carduccianeggiare dannunzianeggiare e poi avrei smesso, come tanti altri minorenni di allora, senza aver trovato la mia autentica voce poetica che fu poi Pinin Pacòt a individuare, a cifrare artisticamente e a insistere con lunghe affettuose lettere didattiche affinché la coltivassi, la schiarissi, la rendessi veramente mia, come sembra sia dive­nuta in seguito, senza escludermi l’innato vezzo per la polemica pirotecnica che fece di me, per tanti anni, la «gòrba grama», il «gagno maléfich», il più giovane cattivo rampollo e il più compromettente sanculotto della caleido­scopica, ma pacifica e familiare, compagnia. 

A proposito del citato magistero nella voce poetica  da parte di Pinin Pacòt, trascrivo alcune lettere inviate da Pinin  Pacòt e da Nino Costa ad Olivero, tratte dal Fondo Olivero di Villastellone: 

29 luglio 1930 (Pinin Pacòt)

A pròposit, a të smijlo nen ch’a sarìa bel, butandse tuti ansema, a fé arvive eva, così piemonteis, abandonand acqua ò mej aqua, così toscan?

Alfredino a l’ha-co dite quai còsa dl’intension ch’a j’é an aria d’ fé arnass I Brandé, fait da noi giovo, mach da noi giovo. A të smija bona l’idea? J chërdo che’l moment a sia bon. Perché ch’a j’é na vera fioritura d’ poesìa giovo, un fòrt arnasse  pa mach dla literatura, ma dl’anma piemonteisa.

I l’hai trovà n’apassionà (29 agn) d’ nòst folclòr, ch’a l’ha cujì e ch’a l’ha contà ant na manera delissiosa le stòrie, le faule, le legende d’soa region alessandrina, ant un bel piemonteis pien ëd saiva e pien ëd calor. Aj publicrà prest e a sarà na bela còsa.

Alfredino a më scriv ch’a l’ha decidù un sò amis a scrive an piemonteis: n’autr prosator!

Mi l’hai decidù Rovere; Tòta Rocco a scriv ëd poesiòle ch’a son delissiose; Signorini a l’ha d’ bona intension (a l’halo fait quaicòsa a Vilastlon?). E peui t’jë ses ti, j’é Alfredino, j’é Brero, j’é Galina, j’é Motura, modestament d’cò mi, e chissà vaire d’autri ch’i troveroma, amis e scritor piemonteis. Coma ch’it vëdde, mal contà, na desena già. E peui j’é ancora Còsta di nòstri, e Còsta…a conta! Coma ch’it vëdde tante idee, tanti seugn, e quaicòsa d’ positiv. Tante bele còse e arvëdsse prest. Ëd cheur                                                                       

29 luglio 1930 (Pinin Pacòt)

A proposito, non ti sembra che sarebbe bello, mettendosi tutti insieme, far rivivere eva, così piemontese, abbandonando acqua o meglio aqua, così toscano?

Alfredino ti ha detto qualche cosa dell’intenzione che c’è in aria di far rinascere I Brandè, compilato da noi giovani, solo da noi giovani. Ti sembra buona l’idea? Credo che il momento sia favorevole. Perché c’è una vera fioritura di poesia giovane, una vigorosa rinascita non solo della letteratura, ma dell’anima piemontese.

Ho trovato un appassionato (29 anni) del nostro folclore, che ha raccolto e ha raccontato in modo delizioso le storie, le favole, le leggende della sua regione alessandrina, in un bel piemontese pieno di linfa e di calore. Le pubblicherà presto e sarà una bella cosa. (Nino Autelli)

Alfredino mi scrive che ha convinto un suo amico a scrivere in piemontese: un altro prosatore!

Io ho convinto Rovere (Teresio); Madamigella Rocco (Carlottina) scrive delle piccole poesie che sono deliziose; Signorini (Vincenzo) ha buone intenzioni (ha fatto qualche cosa a Villastellone?). E poi ci sei tu, c’è Alfredino (Alfredo Nicola), c’è Brero (Renzo), c’è Gallina (Oreste) , c’è Mottura (Alfredo), modestamente anch’io, e chissà quanti altri ne troveremo, amici e scrittori piemontesi. Come vedi, mal contati, già una decina. E poi c’è ancora Costa (Nino) dei nostri. E Costa… conta! Come vedi tante idee, tanti sogni e qualche cosa di positivo. Tante belle cose e arrivederci a presto. Di cuore 

23 agosto 1930 (Pinin Pacòt)

A propòsit ëd toa Vénere d’aqua dossa, che a l’é na còsa dignitosa e bela… con quaich riserva (ch’i ricòrdo nen), i chërdo che sò difet, ò mej sò ecess a sia dait da la sërnia dël vers. Ël martelian italian a l’é peui sempre un dopi vers, doi vers che per le vaire longhësse ch’a peulo avèi (pian, tronch, sdrucciolo) a formo ant ël vers complessiv dë stònadure e d’diseguajanse.

‘L martelian a peul avèj: 12. 13. 14. 15. 16 silabe. Tròpe variatà e tropa elasticità për podèi dovrelo ant ël sonèt, ch’a l’é un componiment equilibrà e plàstich, parnassian për ecelensa. Mi a më smija ch’it l’avrìe dovù fé l’alessandrin e nen ël martelian. E adess i më spiego. L’alessandrin  franseis a diferensa dël dopi setenari a l’é un vers unitari [dòdes sìlabe (a la franseisa) tërdes sìlabe (a l’italiana)] ch’a peul avei la cesura dòp la 6°, ma d’cò dòp la 4° o dòp l’8°, ò anche diversament. Ël prim tipo as peul avèi praticament con doi setenari basta che ‘l prim a sia tronch se ‘l second a comensa për consonant ò pian ch’a finissa an vocal e tronch an consonant se ‘l second a comensa an vocal. (Segue un esempio pratico)

Preuva a felo cost vers, a va benissim an piemontèis, ma për carità… mai gnun sdrucciole , ch’a son tròp italiane (gavà nìvola e tute j’autre an ‘ola).   

23 agosto 1930 (Pinin Pacòt)

A proposito della tua Vènere d’aqua dossa, che è una cosa dignitosa e bella… con qualche riserva (che non ricordo), credo che il suo difetto, o meglio il suo eccesso, sia dato dalla scelta del verso. Il martelliano italiano è poi sempre un doppio verso, due versi che per le varie lunghezze che possono avere ( piano, tronco, sdrucciolo) formano nel verso complessivo delle stonature e delle ineguaglianze.

Il martelliano può avere: 12. 13. 14. 15. 16 sillabe. Troppe varietà e troppa elasticità per poterlo adoperare nel sonetto, che è un componimento equilibrato e plastico, parnassiano per ecellenza. Mi sembra che avresti dovuto utilizzare l’alessandrino e non il martelliano. E adesso mi spiego. L’alessandrino francese, a differenza del doppio settenario è un verso unitario [dodici sillabe (alla francese) tredici sillabe (all’italiana)] che può avere la cesura dopo la 6°, ma anche dopo la 4° o dopo l’8°, o anche differentemente. Il primo tipo si può avere praticamente con due settenari basta che il primo sia tronco se il secondo inizia per consonante oppure piano che finisca con una vocale e tronco con una consonante se il secondo comincia con una vocale. (Segue un esempio pratico)

Prova a farlo questo verso, va benissimo in piemontese, ma per carità… mai nessuna sdrucciola, sono troppo italiane (eccetto nivola e tutte le altre terminanti in ‘ola). 

4 marzo 1931 (Pinin Pacòt)

E tant për vintré an argomanet it dirai che cost verb i l’hai mai sentulo di a Turin, gavà ‘d na vòlta da mè papà ch’j fasìa la carta a un vej garson ëd sò pare, (mè nono), che (ìl garson) a disìa pròpi parèj i ricordo: i vintre… ma chiel-là a l’era pa turineis, a l’era ‘d Trana.

S’a të smija dòvrolo pura; mi, però, it dirìa ‘d nen dovrelo; a mè smija ‘d pi na deformassion grossera, che un caràter particolar dël piemonteis.

Ma am fa gòi, lassa ch’it lo disa, da già ch’i son pi vej che ti e ch’i l’hai già fina quaich piuma grisa ant la caviera ch’a l’é già un pòch rairòta, am fa gòi vëdte annamorà ‘d tute coste veje forme ch’a l’han un gust così bon ëd piemonteis, cha pòrto ant lor, dirìa quasi, la marca ëd nòstra rassa, e ch’an lasso antravëdde lòn ch’a l’avrìa podù esse nòst piemonteis, s’a l’avèissa podù  formesse e maduré daspërchiel, sensa ‘nsuna influensa forestera. Brav Vigin, cola l’é stra giusta; i podruma magara nen fela tuta, ma a l’é cola. Per fé vive un malave a bsògna prima ‘d tut guarilo, bsògna curelo, bsògna feje torné soe fòrse tute soe fòrse! Però, però a bsògna peui ‘d cò nen esageré. Poch për vòlta as peul fene arvive ‘d paròle, e tante. Ma tut ant un crèp i coroma ‘l privo ‘d fesse rije a pres. E lòn a sarìa un mal gròs perché dòp i pudrìo pi nen fesse pié an sèl serio. Anvece, n’ignission al dì e ‘l malavi a l’è guarì.  

4 marzo 1931 (Pinin Pacòt)

E tanto per entrare in argomento ti dirò che questo verbo non l’ho mai sentito pronunciare a Torino, eccetto una volta da mio padre che sbeffeggiava  un vecchio garzone di suo padre (mio nonno), che (il garzone) diceva proprio così ricordo: i vintre… ma lui non era torinese, era di Trana.

Se ti sembra opportuno adoperalo pure; io, però, ti direi di non utilizzarlo; mi sembra più una grossolana deformazione, che un carattere particolare del piemontese.

Mi fa gioia, lascia che te lo dica, già che sono più vecchio di te e che ho già qualche capello grigio tra la capigliatura che è già un poco diradata, mi fa gioia vederti innamorato di tutte queste vecchie forme che hanno un così buon sapore di piemontese, che racchiudono in loro, direi quasi, il timbro della nostra razza, e che ci lasciano intravedere quello che avrebbe potuto essere il nostro piemontese, se avesse potuto formarsi e maturare da solo, senza alcuna influenza forestiera. Bravo Luigi, quella è la strada giusta; potremmo magari non percorrerla tutta, ma è quella. Per far vivere un malato, bisogna prima guarirlo, bisogna curarlo, bisogna fargli riprendere le sue forze tutte le sue forze! Però, però bisogna poi non esagerare. Poco per volta si possono far rivivere delle parole, e tante. Ma tutto d’un colpo corriamo il rischio di farci ridere dietro. E quello sarebbe un grave male perché dopo non potrtemo più farci prendere sul serio. Invece, un’ignizione al giorno e il malato è guarito. 

Senza data (Pinin Pacòt)

Sono contento del giudizio che ha espresso Pitigrilli sulla tua poesia, che sta formandosi in un’opera veramente bella. Circa il suo Tilgherismo, non me ne stupisco. È perfettamente logico, positivo e sperimentale. Quello che non capiscono né Piti né tantomeno quella specie di filosofo del Tilgher, è che scrivere in dialetto – in lingua piemontese! – per noi non è un semplice e banale fatto letterario, ma un profondo atto di fede, un pertinace atto di volontà. E questo lo sentiamo noi, lo viviamo noi, i Brandé dall’inestinguibile fiamma.

Bien parler sa langue est dèjà une sante morale. C’est soumettre les choses à la vertù traditionelle de son pensé. (Joachim Gasquet)

La nostra lingua è la piemontese, e il nostro popolo è il piemontese; come necessari elementi integrativi, la prima della lingua italiana, il secondo del popolo italiano. E perciò  la necessità, piuttosto che l’opportunità di poetare in piemontese, perché soltanto attraverso il nostro potenziato linguaggio, sarà possibile per noi fare della poesia italiana.

Questo in povere parole, quello che tu sintetizzi in un’unica parola: aristocrazia! 

19 giugno 1941(Nino Costa)

L’hai risevù ier seira toe doe bele poesìe a la memòria ‘d te ami j alpin. Grassie.

Dë sti temp at suced spiritualment a ti lòn ch’am suced a mi, materialment.

It tramude. It cambie l’alogg dla poesìa. Dì sì n’ann ò doi i tl’avras sernuje a tua Musa piemonteisa n’alogg bin pi seren da col d’adess – ma a sarà l’alògg definitiv e i tlo cambieraj pì nen per tuta la vita. Sarà to indiriss – toa marca – tò stil. As dirà: Olivero – come ‘ncheuj as dis Costa – sensa pericòl ëd confondse. Ti magara adess i tn’ancorse nen, ma a l’é parej. E mi veui augurete ch’a sia n’alògg arios, con tante fenestre duverte sël mond, e na stansiëtta riservà, tuta toa, per j’ore triste, per j’ore grame e per la malinconia e le speransëtte.

E tanto pì bel e pur a sarà cost alògg neu, perché it tl’avraj nen da paghé ‘l fitt ma i’t saraj tì ‘l padron dla cà, e ‘l rè e l’imperator dla toa fantasia.

Corage, Olivero. Adess ti ‘t sej an prima bataja – ma i son sicur che i’t vinceraj – ansi i’t saraj d’ij primi a vince.

Mi ‘m arlegro con ti e con mi, con ti perché i tl’has l’andi e la forssa, la veuja e la costanssa, con mi perché i l’hai compagnate, fermete, conossute e vorssute bin. 

19 giugno 1941 (Nino Costa)

Ho ricevuto ieri sera le tue due belle poesie alla memoria dei tuoi amici  gli alpini. Grazie.

Di questi tempi accade a te spiritualmente quello che a me sta accadendo materialmente.

Tu traslochi. Cambi la casa della tua poesia. Da qui ad uno o due anni avrai scelto alla tua Musa Piemontese una casa ben più serena di quella odierna – ma sarà la casa definitiva e non la cambierai più per tutta la vita. Sarà il tuo indirizzo – il tuo timbro – il tuo stile. Si dirà: Olivero – come oggi si dice Costa – senza pericolo di confondersi. Tu magari oggi non te ne accorgi, ma è così. E io voglio augurarti che sia una casa spaziosa, con tante finestre aperte sul mondo, e una stanzetta riservata, tutta tua, per le ore tristi, per le ore cattive e per la malinconia e le piccole speranze.

E tanto più bella e pulita sarà questa casa nuova, perché non ne dovrai pagare l’affitto ma ne sarai tu il padrone, e il re e l’imperatore della tua fantasia.

Coraggio, Olivero. Adesso sei alla prima battaglia – ma son sicuro che vincerai – anzi sarai tra i primi a vincere.

Mi rallegro con te e con me, con te perché hai l’abbrivio e la forza, la voglia e la costanza, con me perché l’ho accompagnata, ti ho fermato, conosciuto e voluto bene. 

Turin, 29 dic 1941 (Nino Costa)

Me car Olivero,

la Roma dij Papa, sinchsentesca e baròca a l’ha ispirate forsse la pi bela poesìa ch’it l’abia fait…fin adess. Fòrs avia ëd doe o tre paragon un po’ baroch, lòn ch’a disdòj nen a le catedrai, specialment le Roman-e, ël rest a l’è tutt a fait bel – ansi la scond e ultima part a son pagine  ëd vera e fòrta poesia. L’hai già lesula ai mè ‘d ca e a quaiche  amis e a son tuti d’acòrdi con mi. A l’Epifania i la lesran ëd cò an casa Orsi – dou soma  invità i solit: Baretti – Pacòtt – Talucchi ecc.

Bravo Olivero! It ses prope sla stra granda e tira ananas… ch’it rivrass dou ch’it veule. Dròlo, però, che da le Mistà pagan-e, it vade pòch per volta avsinandje a le Mistà cristian-e, ansi catoliche. Sòn am fa piasì  perché i son ‘d cò mi dl’istessa idea. Forsse j’ë sponta l’alba d’un ritorn al Crist e a sò vicari an Roma e a l’è bel che noi i sio a l’avanguardia. In hoc signo…vinces!

L’Armanach a va anansi a posson, ma a rivrà ‘d cò chiel a sò temp e a soa mira. Per le copie ch’i t’ l’has dë bsògn butte d’acòrd con Viglongo…S’it peule  mand-me notissie toe, e ‘d toa vita vera – val a di  cola dla toa poesìa. E stame gigio. E ricord-me  quaich vòlta. Bon ami-me car poeta – e …corage. Multa messa scensur… 

Torino, 29 dic 1941 (Nino Costa)

Mio caro Olivero,

la Roma dei Papa, cinquecentesca e barocca t’ha ispirato forse la più bella poesia che tu abbia fatto…fin’adesso. Forse avrà due o tre paragoni un po’ barocchi, quello che non disdice alle cattedrali, in special modo alle Romane, il resto è tutto fatto bene – anzi la seconda ed ultima parte sono pagine di vera e forte poesia. L’ho già letta ai miei di casa e a qualche amico e son tutti d’accordo con me. All’Epifania la leggeranno anche in casa Orsi – dove siamo invitati i soliti: Baretti – Pacott – Talucchi ecc.

Bravo Olivero! Sei proprio sulla strada maestra e tira innanzi… che arriverai dove vuoi. Strano, però, che dalle Immagini pagane tu vada poco alla volta avvicinandoti alle Immagini cristiane, anzi cattoliche.  Questo mi fa piacere perché sono anch’io della stessa idea.  Forse spunta il giorno d’un ritorno al Cristo e al suo vicario in Roma ed è bello che noi si sia all’avanguardia. In hoc signo…vinces!

L’Armanach va avanti a strattoni, ma arriverà anche lui al suo tempo e al suo traguardo. Per le copie di cui hai bisogno mettiti d’accordo con Viglongo:.. Se puoi mandami tue notizie, e della tua vita vera – vale a dire quella della tua poesia. E stammi allegro. E ricordami qualche volta. Buon amico-mio caro poeta – e…coraggio. Multa messa scensur… 

Torino, 13/5/1943 (Nino Costa)

Caro Olivero,

fui bombardato – sinistrato – sfollato – malato - migliorato. Tuttavia non mi scordai degli amici poeti e godo delle loro glorie, specialmente delle tue.  Di te, ora, si può ripetere il motto  dell’Austria di Maria Teresa Bella gerant alii, tu felije Olviginj, nube. (Altri facciano le guerre, tu  felice Olivero Luigi, pensa al matrimonio) (Parafrasata la frase autentica: Bella gerant alii, tu felix Austria, nube. Altri facciano le guerre, tu felice Austria, pensa ai matrimoni)

Viva te che ti sposi la tua bella poesia in carne ed ossa. Dio te la conservi e vi doni a tutti e due quella felicità e quella pace che meritate. Dei poeti di Torino non so più nulla. Io vivo ad Asti e viaggio su e giù  tutti i giorni. Qualche volta scarabocchio ancora ma il tempo mi manca che molte sono le faccende e le croci.

Un abbraccio a te e un augurio particolare a madamin Cinci.

Se vedi Caballo congratulati per me del premio della Montagna e di tante altre cose belle che fece, fa e farà. Oramai con lui siamo a Caballo e si farà strada. Son lieto che sia dei nostri 

Nino Costa  Torino 1886 - 1945. Il più noto dei poeti contemporanei piemontesi cui si ispirarono e ritennero maestro molti dei futuri appartenenti alla Compania dij Brandé.

Col ch’a l’è stait e ch’a resterà il poeta pi popolar, pi sgnor e gentil dla moderna leteratura piemontèisa ebbe a definirlo Luigi Olivero.

Molte delle sue poesie più autentiche e sofferte sono dedicate al tempo della seconda guerra mondiale (14 luglio 1943 Complenta sla sità ‘d Turin) e al figlio Mario partigiano caduto sul monte Génévry il 16 agosto 1944 (La mia patria l’è sla môntagna, Côi che marciô an prima fila, La nôtissia, La Madona d’ij soldà, Grisantem). 

Bibliografia 

Poesia piemontese Mamin-a SELP (Andrea Viglongo) Torino 1922; Sal e peiver SELP Torino 1925; Brassabosc Casanova Torino 1928; Fruta madura SELP Torino 1931; Poesie religiose piemontesi SELP Torino 1934; Roba nostra Tipografia G. Boccardo Torino 1938; Tempesta Tipografia Aurora Torino 1946.

Commedie per il teatro in piemontese Testa ‘d fer commedia storica in 3 atti Casanova Torino 1929; Tera mônfrina in 3 atti; Le dôe cioche in 1 atto; La dota ‘d Maria in 1 atto; Rondôlin-a persônera in 3 atti (con Onorato Castellano) SELP Torino 1931.

Opere in lingua italiana Il divino dono (poesie per bambini) Paravia Torino 1930; Aurore (bozzetto in 1 atto) Lattes Torino 1934. Il piccolo re (novelle per bambini) Ede Torino 1937.

Opere pubblicate dopo la morte Le pì bèle poesie (Raccolta fraterna di Italo Mario Angeloni) Tipografia Torinese Editrice Torino 1949; Poesie piemontesi di Nino Costa Il Cenacolo Torino 1955; Tornand 200 poesie piemontesi ignorate Viglongo Torino 1987. 

Mario Costa  Torino 5 febbraio 1925 – monte Génévry (Pragelato TO) 16 agosto 1944, figlio di Nino Costa, diciottenne a combattere sui monti per la libertà.

Il 5 di novembre del 1949 il Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, consegna ai parenti la laurea ad honorem alla memoria nel giorno anniversario della morte del padre Nino, con la seguente motivazione:

caduto sul monte Génévry mentre da solo, per aprire la via di salvezza ai compagni accerchiati si lanciava all’assalto di un fortino tenuto dai nazi-fascisti. 

Alfredo Nicola (Alfredino) poeta piemontese, 1902 – 1995, appartenente alla Compania dij Brandé fondata da Pinin Pacòt. Fonda e dirige dal 1931 la Colana musical di Brandé,  dal 1959 al 1994 il trimestrale Musicalbrandé. 

Bibliografia 

Tamerici Poesie Ramondini Torino 1922; Cansson piemontèise per canto e piano Augusta Semt Torino 1928; Penombre Poesie piemontesi Casanova Torino 1929; Primavere Poesie piemontesi A l’ansëgna di Brandé Torino 1933; Nivole Poesie piemontesi A l’ansëgna dij Brandé Torino 1951; Poesie, edission critica soagnà da Dario Pasé Ca dë studi piemontèis e La Sloira, Turin-Ivrea 2008 

3) Giuseppe Pacotto (Pinin Pacòt) Olivero Ij Brandè N° 151 15 dicembre 1952. 

E quella sera, per la prima volta, ho conosciuto Luigi Olivero che arrivava dalla sua Villastellone con un magnifico paio di pantaloni bianchi (allora ancora alla moda) che, bastava vederli, annunciavano subito la sua originalità.

… Immediatamente ci siamo capiti. E mentre intorno a noi si parlava di dialetto e di grafia, di teatro e di canzonette, di Viriglio e di Paggio Fernando, tra di noi, ci eravamo subito detti dei nomi, che, per noi, avevano il misterioso suono di parole di riconoscimento. E abbiamo parlato subito di Baudlaire, di Verlaine e di Rimbaud, di Leopardi e di Campana, di Rubén Dario e di Mistral. Poeti che conoscevamo solamente noi, o che per lo meno credevamo essere solo noi a conoscere.

… Allora eravamo giovani, e la pensavamo così, quando ci siamo conosciuti, Olivero ed io. E per questo, in nome della poesia, siamo diventati subito amici.

È stata un’amicizia difficile ma sincera; fragile ma preziosa. Come un cristallo, che per fortuna, non si è mai spezzato, anche se è stato in pericolo più di una volta. …

Quello che interessa e che quella originalità che Olivero, già allora, manifestava nelle sue prime poesie, fosse autentica, viva e vitale, e potesse, come ha fatto, dar vita ad una poesia nuova e sincera, nella forma e nella sostanza. …

Adesso voglio solo salutare, nell’uomo di mondo che è diventato oggi, giornalista, scrittore, polemista, poeta, conosciuto,  pubblicato e premiato in Italia e all’estero, quel giovanottino di tanti anni fa, innamorato della poesia. 

Il testo di Pinin Pacòt parla di una sera di settembre del 1931. Nel Fondo Olivero di Villastellone ho ritrovato una lettera di Pinin Pacòt diretta ad Olivero datata Turin, ël 29 d’ lugn dël ‘930 che inizia: 

Mè car amis,

s’im falisso nen is dasìo già dël ti cola seira famosa dla sina e dla sumia… e dle discussion, prima sorgis di firment e dle caudane ch’a l’han fait giré i bicochin e nasse le malinteise. 

Mio caro amico,

se non mi sbaglio ci davamo già del tu quella sera famosa della cena e della sbornia… e delle discussioni, prima fonte dei fermenti e delle caudane che ci hanno fatto impazzire e nascere i malintesi. 

La lettera prosegue poi toccando molti dei temi che Pacòt ricorda nel suo articolo su Olivero di oltre vent’anni dopo. La famosa cena, e quindi il primo incontro con Olivero, è sicuramente da anticipare di oltre un anno. Infatti un’altra lettera di Pacòt ad Olivero, sempre appartenente al Fondo Olivero di Villastellone, datata Turin, 4 – 3 – 1931 inizia già con un bel Mè car Vigin. 

Sulla rivista palermitana! Recensioni del 15 ottobre 1930 in ultima pagina compare il Notiziario torinese a firma Luigi Olivero in cui si descrive una cena presso la Piola di Val San Martino del 5 ottobre. Potrebbe essere la stessa (anche se la data non coincide con quanto ho scritto, ma il paragrafo finale la anticiperebbe di qualche mese) od altra successiva. Merita comunque leggerla: 

            Una «Bagutta» bicerina. Una temibile concorrente della nota osteria milanese sembra stia per aprire le verande nella nostra città, su per l’erta della collina che conduce a Val San Martino. Infatti, se l’osteria meneghina è meritatamente celebre per i suoi primi e per il suo risotto, la piola subalpina pare lo stia diventando per la sua posizione sovrana – terrazza tra gli alberi con veduta di straforo di tutta la città – e per le deliziose tagliatelle condite con fegatini di pollo (in piemontese: pica-tera) che ne fanno la ghiotta specialità.

Sul tramonto del giorno 5 corr. Si sono adunati, proprio su quella terrazza, i componenti del gruppo degli «Amis del dialet» equivalenti ad una parte dei migliori rappresentanti della nostra musa dialettale. Notavit: il poeta Nino Costa, il prof. Onorato Castellino, l’On. Saverio Fino, il comm. Lupi padre putativo del «Gianduja», Luigi Maggi, Giulio, Carlinot (il re della canzone), l’attore Carlo Vandano, Amelotti, Pinot Casalegno; i giovani: Pinin Pacot, Alfredino, A. Soddanino, Mottura ed altri.

            Effusioni, brindisi; frizzi a getto continuo di Carlinot (il re della canzone), dizioni di Nino Costa ( «La Côpà» e una delicatissima canzone trovadoresca ancora senza titolo), (La biondina di Val San Martino? n. d. a.) di Maggi, di Giulio. Accordi per una modesta manifestazione mistraliana, progetti per una prossima riedizione autunnale del «Birichin» giornale di sorrisi cari all’animo del nostro popolo e ai ricordi di scapigliatura di tanti suoi poeti. Canzoni.

Ritorno «a riveder le stelle» e le lucciole di strada Val San Martino (o Carlinot, re della canzone!) lungo i muri dei villini coperti di glicini e d’ombre… 

Come si può notare si parla di un «Birichin» da pubblicarsi nell’autunno, di un omaggio a Mistral (Sarà la pubblicazione collettiva di diciassette poeti piemontesi dedicata a Mistral e pubblicata lo stesso anno?), e di lucciole e glicini più consoni al mese di giugno che a quello di ottobre. 

Nell’articolo datato 17 dicembre 1964 e pubblicato sul primo numero de ‘l caval ‘d brôns del 1965, Ricordo di Pinin Pacòt. Come l’hai vistlo da viv, lo arvëdo da mòrt. Pinin Pacòt stàtua fërma ant ël Pantheon ëd nòstra poesìa  Olivero pubblica un messaggio inviatogli da Pacòt con allegata una sua poesia: 

            Caro Olivero, ho ricevuto i tuoi versi, optime! Sempre meglio esprimi e chiarifichi il tuo ansioso tormento. Sei sulla soglia della tua perfetta manifestazione. In piena luce.

            Stamane, finalmente, ho fatto quattro versi. Vedi che lo stimolo del tuo esempio non è stato vano. Te li mando e te li dedico, per quel poco che possono valere. 

A Luigi Olivero 

Ó mòrt, mia bianca seure,                                      Oh morte, mia bianca sorella,

ch’i t’avsin’e pian pian,                                            che t’avvicini piano piano,

pòsa an sël cheur doleuri                                      appoggia sul cuore dolente

la carëssa ‘d toa man;                                             la carezza della tua mano;

 

la carëssa ch’andeurma                                      la carezza che addormenti

- dossa legera dossa -                                                - dolce leggera dolce -

la pòvr’ànima corma                                                 la povera anima colma

e malavia d’angossa.                                                 e ammalata d’angoscia.

 

Ó mia bianca morosa,                                               Oh mia candida innamorata,

da le man da masnà,                                                      dalle mani da bambino,

ti ch’it cheuje le vite                                                       tu che ti porti via le vite

an sla brova dla stra,                                                      sul bordo della strada,

 

per ël di che ti ‘t ven’e,                                                    per il giorno che tu verrai,

per col’ora ‘d boneur,                                                     per quell’ora di felicità,

a svapora dal cheur                                                         evapora dal cuore

ël profum ëd le pen’e.                                                        il profumo delle pene. 

                                    P. P. 

                                    Ciau

                                                Pinin 

Olivero aggiunge in calce:

Una litra autògrafa ‘d Pinin Pacòt: adressà, ‘nt ël mèis ëd fërvé 1930, a Luigi Olivero a Vila Stlon. Le parole an italian a compagno la primìssima stesura d’una posìa singolarmente profética e ch’a l’é peuj stàita publicà sinch ani dòp ant «Crosiere» con quaich cite variant ëd forma e modificassion ëd pontegiatura e ‘d grafia. 

Nello scritto di Olivero c’è un vistoso errore. La data del 5 febbraio 1930, in cui ancora i due si conoscevano appena (Riunioni per l’unificazione della lingua indette dall’O.N.D. nell’inverno 1829-1930). La data corretta dovrebbe essere intorno alla fine del 1930 o  del 1931 con invio da parte di Olivero di sue poesie per la pubblicazione sugli Armanach piemontèis. Il primo è infatti del 1931, ma stampato sul finire del 1930.

La poesia che Pacòt pubblica su «Crosiere» è praticamente identica, come ben scrive Olivero. Appare nella sezione Ël cheur dla seira a pag. 91-92 con il titolo Mòrt, ò mia bianca seure… Solo una piccola discrepanza, non presenta più in testa la dedica a Luigi Olivero. Ad Olivero Pacòt riserva la poesia Priap. 

4) Luigi Olivero Omage a Tito Gantesi Armanach piemontèis Viglongo Torino 1941. 

È così che il più giovane e scatenato dei poeti piemontesi della nuova generazione vedeva i settantatre anni che Tito Gantesi aveva allora: settantatre ghiotte mele cotogne, colorate del sorriso del buon umore e pesanti del succo della sapienza, che pendevano da un albero vecchio ma tuttora diritto e massiccio. … L’uomo che tutti i più bravi letterati, durante più di mezzo secolo e dalle terre più lontane, hanno avvicinato chiedendogli consigli, notizie, informazioni, aiuti storico letterari, bibliografici e varie documentazioni, che lui non negava mai a nessuno; l’uomo che ha armeggiato in tutte le biblioteche statali e private, rintracciando documenti importantissimi e spesso decisivi … Un modesto che ha sempre contribuito a far fare bella figura agli altri mentre lui si accontentava di rimanere nell’ombra a studiare e a lavorare, cercando sempre nuovi indizi che lo portassero a nuove scoperte bibliografiche. … A forza di saperlo modesto, per il «buon Molino» non avevano neanche più il riguardo di citarlo come collaboratore.

Benedetto uomo!

Nell’Almanacco piemontese Viglongo del 1979 Olivero, con la stessa data, 1930, pubblica nuovamente la poesia dedicata a Tito Gantesi nell’ambito della raccolta Ritratin an ponta ‘d piuma ‘d poeta piemontèis, cambiando però completamente la prima strofa e modificando parzialmente le altre tre. Qui sotto le due versioni contrapposte. 

                       Tito Gantesi                                                                   Tito Gantesi

       (Nell’Armanach Piemontèis del 1941                          (Chiaffredo Tommaso Agostinetti 1857-1938)

                     però senza titolo) 

L’hai peui «intervistà» Tito Gantesi                            CHE ‘d camole e ‘d mijara ‘d bërle ‘d giare  

un   pres-diné ‘ndorà come l’arista                               l’ha sbogià cost grand vej ant soa conquista

e ‘ndrinta ‘l mè carnet  da giornalista                         ‘d vèrs përdù ‘d Calvo, ‘d Rosa… Un umanista

l’hai d’cò pëssialo tra j’«appunti presi».                      ch’a trata ij lìber da përson-e care.

              

La figura a l’é nen d’un archivista                                E, tutun, a l’ha gnente dl’archivista

ch’a passa la soa vita an s’ij scartare                             ch’a passa l’esistensa an s’jë scartare

baricoland su j’«edizioni rare»                                      baricoland ant una luz d’aquare 

con na barëtta, an testa, da sacrista.                               con na barëtta, an testa, da sacrista. .

 

Gnente afàit! A l’é un òm ch’at dà la man                    L’è un bon vivan. Në sgnor ch’at dà la man

con na franchëssa tuta piemontèisa                               con na franchëssa tuta piemontèisa

e, ‘nt chiel, j’é pròpi nen d’àut-tut ch’a pèisa.            e ant chiel j’é pròpi nen d’autut ch’a pèisa.

           

Ai pèiso j’ani, sì. Ma j’ani a smijo,                            Ai pèiso j’ane, sì. Ma j’ane a smijo,

su certi erbo gorègn, ëd pòm ch’a rijo                         su cèrti èrbo gorègn, ëd pom ch’a rijo

e ch’ai fan gola ai giovo da lontan…                         e ch’ai fan gola ai giovo da lontan. 

Alla raccolta di ritratti Olivero fa precedere i versi di Giovanni Pascoli 

Il poeta non ha altra effige

che quella dei suoi versi. 

I ritratti sono dedicati, nell’ordine, a Oreste Gallina, Tito Gantesi (Chiaffredo Tommaso Agostinetti 1857-1938), Arrigo Frusta (Augusto Ferraris 1875-1965), Alfredino (Alfredo Nicola), Carlottina Rocco, Concettina Prioli.

L’anno precedente, con L’Almanacco piemontese del 1978 aveva dedicato, per la stessa raccolta, i seguenti altri ritratti: Nino Costa (1886-1945), Pinin Pacòt (Giuseppe Pancotto 1899-1964), Paggio Fernando (Ferdinando Viale 1876-1955), Vincenzo Buronzo (1884-1976), Armando Mottura (1905-1976). 

Tito Gantesi (Chiaffredo Tommaso Agostinetti 8 agosto 1857 -  8 marzo 1938).

Bibliofilo e ricercatore. A lui si devono la riscoperta di opere ritenute ormai perdute di Eduardo Calvo, di Norberto Rosa, Armita , Cavour  e di molti altri.

Ha collaborato con numerosi articoli alle riviste La gazzetta del popolo della domenica, Il momento, Il fischietto, ‘L birichin, La birichiña, ‘l caval ‘d brôns ecc.

Ha lasciato incomplete, e quindi non pubblicate,  opere quali un Rimari Piemontèis, un  Vocabolari d’agiografia piemontèisa,   un  Dissionari  di sinonimi e una raccolta di biografie di Scritor piemontèis da Brofferio ai nòstri di. 

Bibliografia 

Eduardo Calvo: bosset biografich leterari Origlia Torino, 1894; Per le nosse ‘d Tota Vigia Cucco con Monssu Tonin Ferrero: Turin, 26 d’otober 1905 Bona Torino 1905 (in collaborazione con Ferdinando Viale, Paggio Fernando); Spigolature  calviane  Bocca Torino 1905;  Armanach e Stren-e an piemontèis  Armanach Piemontèis Torino 1941. 

5) Luigi Olivero Identikit dël poemèt inédit “Le reuse ant j’ole” ‘d Pinin Pacòt e Luigi Olivero Ij Brandè Armanch ëd poesìa piemontèisa 1979. 

…ex capitano del 3° alpini nella guerra 1915-‘18, poi farmacista a Villastellone… e che era appunto, il grand seigneur  di quello splendente giardino di rose (delle quali le più rare e sgargianti dedicate ai nomi dei suoi soldati morti al fronte) dove facevano bella mostra di se quelle pignatte d’argilla, rosse e panciute… 

Qui di seguito si riproducono, in attenta e precisa trascrizione, i sonetti  inedti di Pinin Pacòt ritrovati recentemente nel Fondo Olivero di Villastellone nella loro versione originale con le varie aggiunte e correzioni (differiscono in diversi punti, sia per la grafia che per il contenuto, da quelli pubblicati su Piemontèis ancheuj del settembre 2005 da Giuseppe Goria provenienti dalla copia posseduta da Alfredo Nicola). 

18 dicembre 1931 (Sonetto terzo) 

Eh, lo sai, an col òrt fiorì ‘d pecà,                           E, lo sai, in quell’orto fiorito di peccati,

sota l’ansëgna’d col bon De’ ‘d Priap,              all’insegna di quel buon Dio di Priapo,

pì d’un paira ‘d cojon l’é dventà fiap,                più di un paio di coglioni s’è ammosciato,

ciucià da quaich pusslagi stagionà,                          succhiato da qualche verginità stagionata,

 

e sot le stèile smòrte e ancalorà,                                e sotto le stelle pallide a accalorate,

a l’ombra ‘d j’ole tëgge faite a ciap,                          all’ombra dei massicci orci a forma di chiappe,

l’eve fane e dèsfane sensa antrap                               ne avete fatte e disfatte senza impacci

tra i pissèt dle brajëtte stagionà.                                 tra i pizzi delle braghette stagionate.

 

E va ben! Cole reuse ch’i chërdìa                                    E va bene! Quelle rose che credevo

violente e rosse sla verdura dl’òrt,                                    impetuose e rosse sulla verzura dell’orto,

dèsfojonije ‘n sij sen dla poesìa;                                         sfogliate sulle mammelle della poesia;

 

ma a coj’ole veuj nen ch’ij fasso tòrt:                          ma non voglio che si faccia torto a quegli orci:

ch’a sìo per noi la mas-cia alegorìa                             che siano per noi la maschia allegoria

d’un bel paira ‘d cojon massiss e fòrt!                          di un bel paio di coglioni massicci e forti! 

In calce, ancora tre versi di saluto di Pacòt a Olivero e Piccaluga:

 

Monsù Dino e Vigin, per mè confòrt,                                   Monsù Dino e Vigin, per mio conforto,

saba da seira i vnirai su a troveve;                                       sabato sera verrò su a trovarvi;

antant: l’hai la gòi ëd saluteve.                                             intanto: ho il piacere di salutarvi. 

15 marzo 1932 (Sonetto settimo con scritta sul verso della cartolina e ante scriptum) 

Daje n’andi, Vigin, che sensa pen’a,                            Datti una mossa, Vigin, che senza pena,

i rivroma a ‘nterssene na dosen’a!                                  arriveremo a tesserne una dozzina.

 

E daje ‘n sj’ole!                                                              E dagli con gli orci!

 

Sèt sonèt, coma ‘n cel le galinele                                     Sette sonetti, come in cielo le gallinelle

ch’a picòto le stèile ch’as dëstaco                                   che becchettano le stelle che si staccano

arlongh la longa e ciaira stra ‘d San Giaco                   dalla lunga e chiara Via Lattea

ant le neuit ch’a së smon’o le fumele.                              nelle notti in cui si offrono le donzelle.

 

Sèt anej d’òr, forgià ‘nt ël feu - ch’as taco                  Sette anelli d’oro, forgiati nella fiamma, che si           

                                                                                                                                            avvinghiano

coma ‘nt l’amor le boche grame e bele -,                      come nell’amore le bocche cattive e belle -,

d’angarlandé, con j’ole, le vassele                                da inghirlandare, con gli orci, le tinozze

ch’a fan beuje la glòria ‘d pare Baco.                           che fanno ribollire la gloria di padre Bacco.

 

Ma ‘n costì ch’a fa sèt, mè car Vigin,                             Ma in questo che è il settimo, mio caro Vigin,

de prufundis confesso ch’a l’é vera,                                de profundis confesso che è vero,

ch’a j’é scrit drinta j’ole nòst destin:                              che dentro gli orci sta scritto il nostro destino:

 

nòst destin, ch’a l’é pen-a un pugn ëd tèra,                    il nostro destino, ch’ è appena un pugno di

                                                                                                                                             terra,

dova ch’aj nass na fior per na matin,                              dove nasce un fiore per un mattino,

angrassà con ël sangh ëd nostra guèra!                          concimato con il sangue della nostra guerra! 

16 marzo 1932 (Invio della correzione del sonetto precedente) 

Corrige!

(Le prime due strofe sono identiche) 

Sèt, come i rag dla steila mistralian’a,                       Sette, come i raggi della stella mistraliana,

ch’a lus auta dal cel dla poesìa                                  che splende alta dal cielo della poesia

d’zora ai sentè dla tradission nostran’a.                   sopra i sentieri della tradizione nostrana.

 

E anans! Che ‘l destin i’l l’oma an pugn!                   E avanti! Che il destino l’abbiamo in pugno!

Nòstra vita l’é ‘n camp al meis ëd giugn,                     La nostra vita è un campo nell mese di giugno,

da manzoné, Vigin, a colp ‘d faussìa!                           da mietere, Vigin, a colpi di falce!  

(Sonetto nono senza data  ma con titolo e post scriptum) 

                  La cagna ‘nt l’ola                                                    La cagna nell’orcio 

Nossgnor! Se a tuti i sens chila ai la dà,                       Signore! Se in tutti i sensi quella gliela dà,

slargand le gambe e svantajand la coa,                        allargando le gambe e sventagliando la coda,

tuta storzüa e tuta socrolà                                               tutta ritorta e tutta sbattuta

l’é bin na vaca d’ànima la toa!                                       è ben una vacca d’anima la tua!

 

Pura ‘nt n’ola dl’òrt ransi ‘d pecà,                                Pura in un orcio dell’orto rancido di peccati,

mòla e garva sporsendse su la broa,                               molle e soffice sporgendosi sul bordo,

së spantia ‘nt na cascada përfumà                                  si espande in una cascata profumata

na reusa neuva ch’a se slarga e a croa.                          una rosa novella che si apre e cade.

 

Ànima ch’i të sbate arversa – cagna! –                           Anima che ti dibatti supina – cagna! -

tòrcia mata ‘d vergògna an convulsion                           torcia matta di vergogna in convulsione

quand che la ciòrgna ant ël calor at sagna,                    quando la ciòrgna ° nel calore geme,

 

a basta ch’a së slarga ant un canton                                basta che si allarghi in un angolo

ëd l’òrt col profum doss e sensa nòm                               dell’orto con il profumo dolce e senza nome

per andurmì la bestia an drinta l’òm!                              per addormentare la bestia dentro l’uomo!

 

Dal prim sonèt fina costì dla vaca                                     Dal primo sonetto fino a questo della vacca

l’hai tuti i tò sonèt guernà da bin                                      ho tutti i tuoi sonetti sistemati bene

ant la sacòcia snistra dla mia giaca.                                 nella tasca sinistra della mia giacca.

Salut tuti e statme bin.                                                         Salutami tutti e statemi bene.

                                       Pinin                                                                           Pinin 

° Non tradotto in quanto, o si sarebbe dovuto usare altro termine dialettale, o il corrispondente termine scientifico italiano dell’organo genitale femminile. Entrambi fuori luogo.

(Si veda nell’ottavo scenario quanto Olivero afferma in merito alla traduzione di Mamurra e le Muse). 

(Sonetto undicesimo senza data e con post scriptum) 

Sèt pecà ch’a n’ancërmo e ch’a n’anlupo             Sette peccati che c’ imbrigliano e ci 

                                                                                                                                   avviluppano

ant i sèt vei dla bissa Salomé,                                   nei sette veli della vipera Salomè,

e ch’a n’ambranco fòrt e ansema a pupo                e che ci stringono forte ed insieme poppano

sota la cagna che ‘nt nòst cheur a j’é.                     sotto la cagna che è nel nostro cuore.

 

Sèt fiame! Baudelaire inteligensa                              Sette fiamme! Baudelaire intelligenza

tajenta, përgna dle celeste sbòrgne                             tagliente, pregna delle celesti sbornie

ëd Poe; Verlaine an bòss sot la violensa                    di Poe; Verlaine in bocciolo sotto la violenza

ëd Rimabaud, rangotand da mila ciòrgne.                 di Rimbaud, rantolando da mille ciòrgne. °

 

Wilde, an soa pauta luminos e sol,                               Wilde, nella sua melma luminoso e solo,

Swimburne perdù ‘nt la furia dël Marcheis,                Swimburne smarrito nella furia del Marchese,

e Rubén cioch ëd vin e cioch ëd sol:                              e Ruben ubriaco di vino e ubriaco di sole:

 

sèt lenghe ‘d feu, pecà, sensa perdon,                           sette lingue di fuoco, peccati, senza perdono,

ch’in lasse la carn cioca e l’oneur ofeis,                       che ci lasciano la carne ebbra e l’onore offeso,

mi j’adòro pregandve an ginojon!                                 io vi adoro pregandovi in ginocchio!

 

            Vigin, pia ti ‘l ponpon!                                               Vigin, prendi tu ‘l ponpon!

forgiand l’ultim sonèt ëd la dozen’a                            forgiando l’ultimo sonetto della dozzina

piega l’ultim anel ëd la caden’a.                                  piega l’ultimo anello della catena.

                        Pinin                                                                           Pinin 

                                                                                    ° Vedere la nota al sonetto precedente. 

In una lettera di poco successiva (lettera non cartolina) scritta in italiano e purtroppo non datata, Pinin Pacòt suggerisce il titolo del poemetto: 

Ho copiato i sonettacci. Se lo intitolassimo “Le reuse ant j’ole”? Sarebbe una camicia abbastanza pudica, che non starebbe neanche male su tutte le porcherie che abbiamo consciamente perpetrato. E che il cielo ce le perdoni! 

Poco tempo dopo, in altra lettera si legge: 

Restituiscimi poi i tuoi sonetti. Fa qualche copia a macchina di tutta la collana. Ti spiace? Ciau. 

Nel Fondo Olivero di Villastellone esistono anche due copie  manoscritte del primo sonetto di Pacòt, quello pubblicato da Olivero. Diamo copia delle due varianti. La seconda, tranne che in qulche accento, è identica a quella presente nell’articolo di Olivero. (A fianco le varianti della  seconda versione, completamente differente nella seconda parte. Il manoscritto della  stesura riportata a destra è dell’8 marzo 1932.) 

Ant l’òrt ëd lë spessiari un paira d’ole,            ………ëd Monsù Dino………

aute an sl’ortajae su le fior sciodùe,

parèj ëd doe fumele patanùe,

as drisso – robie pansarùe e sole,

 

           a cheuje sot le steile a gossa a gossa

i pior ch’a sgriso l’aria dle neuit creuse,

per rendie a l’indoman an tante reuse

rijente e mate ant una festa rossa.                               ………’nt………………

 

            Ole rionde, ant la neuit macie besson’e,                     Mi ‘d vòlte i cheuje e veuido le mie pen-e

ch’i vë slonghe an sl’avlù dj’ombre …                        i pensé  fros ch’am toiro ant la sicòria

ant la dësbaucia  paciaflùa di fianch                          e tuti i pior ch’a scionfo e i peuss nen ten-e,

 

- speto che l’alba a ven’a a rije fòra,                            ant coj’ole, Vigin, rionde e barosse,

per dëstaché la reusa cioca ‘d sangh                             per gòdme ‘nt ël me seugn la viva glòria

ch’as na meuir an profum an brass a l’òra.                  ed cole reuse trionfante e rosse. 

In nota Pacòt aggiunge:

ultìm due versi anche:

………le reuse cioche……

………meuiro………… 

Ecco infine la versione purgata  e rimaneggiata che Pacòt pubblicherà nel 1935 in Crosiere: 

                                    Òrt                                                                              Orto

                                                A Dino Piccaluga                                                        A Dino Piccaluga 

Ant l’òrt, ch’a deurm e a seugna, un paira d’ole            Nell’orto che dorme e sogna, un paio d’orci

aute an sl’ortaja e su le fior s-ciodùe,                              alti sulla verzura e sui fiori dischiusi,

bëssone ‘d tèra cheuita pansarùe,                                     gemmelle panciute di terracotta,

as drisso vive patanùe e sole                                              si drizzano vive nude e sole

 

a cheuje sot le stèile a gossa a gossa                                 a cogliere sotto le stelle a goccia a goccia

i pior ch’a sgriso l’aria dle neuit creuse,                          i pianti che segnano l’aria delle notti profonde,

per rendje a l’indoman an tante reuse                               per trasformarli l’indomani in tante rose

rijente e mate ant una sesta rossa!                                     ridenti e matte in una cesta rossa!

 

E un brombo as piega sota ‘l peis ‘d na rapa,                  E un tralcio si piega sotto il peso di un

                                                                                                                                              grappolo,

e na fior straca e scolorìa as dësfeuja,                                e un fiore stanco e scolorito si sfoglia,

e un pom granà – madur ëd sol – së s-ciapa,                     e una melagrana – matura di sole – si fessura,

 

ant l’òrt, ch’a deurm e a seugna, sota ‘l rije                      nell’orto, che dorme e sogna, sotto le risate

ëd coj’ole carnose e gonfie ‘d veuja                                    di quegl’orci carnosi e gonfi di voglia

ch’a së stiro ant la neuit, reusa e slanghìe.                         che si stirano nella notte, rosa e languidi. 

Sempre su Crosiere subito dopo L’òrt dedicato a Dino Piccaluga, compare il sonetto Priap dedicato a Olivero con premesso il verso di Catullo Hunc lucum tibi dedico consecroque, Priape…Questo sonetto è in parte tratto, mescolandone i versi, da alcuni dei sonetti del poemetto. 

6) “Decifrata in un’antica pergamena rinvenuta da un pescatore nell’interno di un’arcella gotica di pietra scolpita, interrata nella sponda del Lago minore di Avigliana.” (Traduzione di Luigi Olivero) Almanacco piemontese Viglongo 1977. 

A proposito della citata opera Adamo ed Eva in America, per la genesi si veda alla voce omonima  nella Terza appendice; Ij Brandé N° 93 del 15 luglio 1950 annuncia la prossima uscita nell’edizione in inglese presso l’editore MacDonald di La Venere dei grattacieli accompagnata dall’edizione, sempre in inglese, di Turchia senza harem. 

7) Luigi Olivero Rondò dle masche L’Alcyone, Roma 1972. 

Olivero nel paragrafo La grafìa piemontese a pag.24 del Rondò dle masche ricorda così l’episodio:

È, infine, doveroso avvertire che questo parziale ritorno alla grafia tradizionale (vale a dire a quella impiegata, ma senza vera e propria unicità né assoluta continuità, nella seconda metà del Settecento e inizio dell’Ottocento) non è merito di un solo scrittore, come da troppo tempo insistono abusivamente alcuni fanatici mitomani pseudofilologi torinesi da osteria di barriera. In realtà questa riadozione venne accordata collegialmente nell’inverno 1929-1930 e poi meglio consolidata negli anni successivi, nel corso di alcune riunioni di studio che ebbero luogo nella sede dell’OND Provinciale di Torino. Riunioni alle quali parteciparono, oltre al Direttore Tecnico per il Folklore della stessa OND  avv. Eugenio Rastelli (e poi citiamo in ordine rigorosamente alfabetico, al fine di non deflorare la virginea ipersensibilità delle confraternitùcole pseudoletterarie torinesi devote a questo o a quello scrittore vivo o defunto), Matteo Bartoli, Nino Costa,  Alfredo Formica, Ferdinando Neri,  Luigi Olivero, Giuseppe Pacotto, Leo Torrero, Andrea Viglongo. Ma, il loro, non fu certo un lavoro massacrante, giacché si limitò a rinunciare ai due segni arbitrarii ô ed ñ cui abbiamo accennato all’inizio di questa nota, ad introdurre qualche accento grave o acuto, il trattino di separazione tra la n faucale e la vocale che la segue (e che gli antichi usavano indicare con una h intermedia o non indicare affatto) e idem per il suono s-c che nel passato usava contraddistinguere con un apostrofo intermedio oppure trascurarlo del tutto. 

Giovanni Magnani Mila bele paròle piemontèise: Prefassion “Pro Loco” ëd Val dla Tor S. D. 

Sullo stesso argomento così scrive Giovanni Magnani:

Ël problema ‘d costa grafia, cità come storica o tradissional, vis-a-dì cola dovrà ant la sconda metà dël Setsent, a l’è conossùa ‘ncheuj come grafia Pacotto-Viglongo,  perché presentà  da Pinin Pacòt come achit a la colession «Scritor Dialetaj Piemontèis» cudìa da Viglongo ‘nt ël 1930.

            A l’è la soma dij travaj portà avanti ‘nt l’invern dël 1929 a la Diression dl’O. N. D. ëd Turin, da Matteo Bartoli, Nino Costa, Alfredo Formica, Ferdinando Neri, Luigi Olivero, Giuseppe Pacotto, Leo Torrero e Andrea Viglongo. 

8) Luigi Olivero Parnas Píemontèís Armanach piemontèis 1941

Avvicinarmi, farmi mostrare il libro, farmi accompagnare da sua madre, pagarlo due scudi e portarmelo via sotto gli occhi spalancati della madre e del bimbo che mi hanno creduto un soggetto degno del manicomio, è stato un attimo. 

Fra santini sbiaditi, pizzi ammuffiti di cinquant’anni fa e un  fichu di cento che di sicuro avrà coperto i riccioli d’una graziosa antenata della fanciulla, è saltato fuori un librettino rilegato in rosso, tutto avvolto nella borra (ammasso di peli d’animale usati per il riempimento dei basti) e ricoperto di polvere e ragnatele. Era lui e mi è costato trecento… baci. 

Quel Parnas che tutte le volte che ho pensato ad Agostinetti,  in questi tre anni, m’è venuta voglia di procurarmi: come sempre nella mia vita,  mi è venuta la voglia di procurarmi tutte le cose che nessuno ha e di andare in tutti posti dove nessuno è stato. 

9) Pitigrilli (Dino Segre, Torino 9 maggio 1893 – 8 maggio 1975)

Ebbe come genitori   David Segre di religione ebraica  e  Lucia Ellena di religione cattolica. Segue studi classici e si laurea nel 1916 in Giurisprudenza a Torino.

In gioventù ha una relazione con la poetessa Amalia Guglielminetti che si conclude in breve tempo  addirittura con una causa in tribunale e polemiche sulle rispettive riviste.

Intraprende molto presto l’attività di critico letterario su vari giornali e la composizione di romanzi e racconti.

Fonda nel 1924 a Torino la rivista quindicinale le grandi firme (cui collaborarono negli anni trenta Luigi Olivero e la di lui moglie Cinci Viscardi). La rivista ha vastissima eco grazie alla pubblicazione di scritti dei più significativi esponenti della giovane letteratura e all’illustrazione dei più rinomati disegnatori ed umoristi quali Gino Boccasile. La rivista viene fatta chiudere con il numero 384 del 6 ottobre 1938 a causa dell’introduzione delle leggi razziali da parte del governo fascista. La rivista passerà all’editore milanese Mondatori sotto la direzione di Cesare Zavattini.

Già dal 1930 inizia a viaggiare in Europa  soggiornando spesso a Parigi e rientrando periodicamente e per breve tempo in Italia. (È il periodo in cui Olivero diviene caporedattore de le grandi firme.) Rientrato in Italia nel 1940 è costretto a rifugiarsi con la famiglia in Svizzera nel 1943 dove visse fino al 1947. Dal 1948, e per dieci anni, visse in Argentina. Rientrò poi definitivamente a Parigi, da dove, ogni tanto, faceva visita a Torino dove appunto, nella sua casa, lo accolse la morte.

Nel suo libro Piscina di Siloe del 1948 racconta e rende pubblica la sua conversione al cattolicesimo. 

Bibliografia 

Il Natale di Lucillo e Saturnino Sonzogno Milano 1915; Le vicende guerresche di Purillo Purilli bocciato in storia Lattes Torino 1915; Mammiferi di lusso Sonzogno Milano 1920; La cintura di castità Sonzogno Milano 1921; Cocaina Sonzogno Milano 1921; Oltraggio al pudore Sonzogno Milano 1922; La Vergine a 18 carati Sonzogno Milano 1924; L’esperimento di Pott Sonzogno Milano 1929;  I vegetariani dell’amore Sonzogno Milano 1929; Dolicocefala bionda Sonzogno Milano 1936; La meravigliosa avventura Sonzogno Milano 1948; Saturno Sonzogno Milano 1958; La piscina di Siloe Sonzogno Milano 1948; Pitigrilli parla di Sonzogno Milano 1949; L’ombelico di Adamo Sonzogno Milano 1951; Peperoni dolci Sonzogno Milano 1951;  Il sesso degli angioli Sonzogno Milano 1952; Come quando fuori piove Sonzogno Milano 1954; Il pollo non si mangia con le mani. Galateo moderno Sonzogno Milano 1957; I figli deformano il ventre Sonzogno Milano 1957; L’amore con la O maiuscola Sonzogno Milano 1948; I pubblicani e le meretrici Sonzogno Milano 1963; I Kukukuku Sonzogno Milano 1964;  La donna di 30, 40, 50, 60 anni. (Una croce sull’età) Sonzogno Milano 1967; La bella e i curculionidi Sonzogno Milano 1967; Amori express Sonzogno Milano 1970; Sette delitti Sonzogno Milano 1971; Nostra signora di Miss Tiff Marotta Napoli 1974. 

10) Luigi Olivero Dalla polemica sulla pastasciutta alla polemica sulla polenta Il Cavour N° 2 1968. 

       Quaderni di Tullio d’Albisola Vol. II (Lettere di Italo Lorio) Editrice Liguria 1981 

Il primo esempio italiano di Libro di Latta è stato ideato ed illustrato proprio da Tullio d’Albisola. Trattasi di Parole in libertà futuriste tattili termiche olfattive di Filippo Tommaso Marinetti pubblicato a Savona il 4 novembre 1932. Comprende 15 fogli litografati con composizioni coloristiche di Tullio d’Albisola.Tirato in 101 copie dalla Litolatta di Savona di V. Nosenzo.

Anguria lirica di Tullio d’Albisola è stato tirato dalla stessa ditta in 200 copie a Savona nel 1933. 

I brani delle lettere di Olivero riportati, sono tratti dall’Archivio “Tullio d’Albisola” di Vittoria ed Esa Mazzotti. In detto archivio sono conservate due lettere ed una cartolina di Olivero a Tullio. Le due lettere su carta intestata de le grandi firme, l’altro scritto su cartolina editoriale de "i vivi", rivista quindicinale d’attualità diretta da Pitigrilli. Qui di seguito la trascrizione integrale. 

Torino, 22 genn 

Caro d’Albisola,

noi ci siamo conosciuti sulla pista aerea della FIAT il giorno della manifestazione futurista in onore di S. E. Marinetti.

Ma le 5 fette rosso-fuoco dell’ANGURIA LIRICA mi pervengono sul binario luce della poesia comunicando ai miei nervi 5 scosse della sensibilità elettrica che irradia dall’anima del POETA CAMPIONE DI TORINO.

Gliene sono grato.

Annuncerò il poema nelle G. F.

Leggerò con piacere anche il Suo nuovo lavoro.

La ringrazio fervidamente e le stringo le mani con molta amicizia. 

Olivero 

20/3 

Carissimo Tullio, 

                   ho ricevuto tutto: la stupenda “Anguria” in lito-latta che conservo, come una preziosa rarità editoriale, sul mio scrittoio; “L’incidente” squisito che annuncerò sul prossimo numero di G. F.; e la ceramica che ho fatto subito battezzare dai baci materializzati in bouts dorés di una mia biondissima sorella della tua Nelly.

                  Appena Stroppa, o Pozzo, o qualcun altro, si troveranno d’accordo di affrontare l’orario delle F.F.S.S. o quello dell’aviolinea verrò con piacere a trascorrere una giornata con te. Intanto, se vieni a Torino, chiamami alle G. F.

                 Ti stringo le mani, con molte grazie e molte cordialità. 

Olivero 

6/6 

Grazie del ricordo e della nitida riproduzione della tua suggestiva ceramica che ho fatto ammirare anche da Stroppa.

Augurissimi 

Olivero

 

Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d’Egitto 22 dicembre 1876 – Bellagio 2 dicembre 1944) poeta, scrittore, drammaturgo, editore. Fondatore del movimento futurista, la prima avanguardia storica del novecento. A 17 anni da vita alla sua prima creatura: la rivista scolastica Papyrus. È minacciato d’espulsione dai gesuiti per aver introdotto nella scuola romanzi di Zola. Viene mandato a terminare gli studi a Parigi. Si iscrive poi a legge a Pavia. Abbandona la facoltà forse anche per il trauma della morte del fratello maggiore. Inizia a sperimentare in ogni campo della letteratura. Pubblica poesie in francese. Tra il 1905 e il 1909 dirige la rivista milanese Poesia che diverrà il primo organo ufficiale del Futurismo.

Nel febbraio del 1909 su Le figarò compare il Manifesto del Futurismo che deriva dalla trasfigurazione di un suo spaventoso incidente d’auto. Esce un uomo nuovo dal fossato dove è precipitato, deciso a liberarsi dagli orpelli decadentisti e liberty proponendosi un programma fortemente rivoluzionario. 

Bibliografia 

La conquête des Étoiles  (Raccolta di poesie) 1902 ; Gabriele d’Annunzio intime 1903; Destruction (Poesie) 1904; Le Roi Bombance (dramma satirico) 1905; Manifesto del Futurismo 1909; Tuons le Clair de Lune 1915; La bataille de Tripoli 1912; Teatro sintetico futurista 1915; Come si seducono le donne 1916; 8 anime in una bomba 1917; L’alcova d’acciaio 1921; Gli indomabili 1922; Futurismo e fascismo (racconti) 1924; Il club dei simpatici 1931; L’aereopoema del Golfo della Spezia (poesia) 1935; Il poema dei sansepolcristi 1939; L’aereopoema di Cozzarini 1944 (postumo). 

      Luigi Olivero Proponiment dël Tòr “Cigno gentil” con ànima ‘d porsel  Ël Tòr N° 12 1946 

Non abbiamo alcuna intenzione di far qui ne l’apologia ne la stroncatura di F. T. Marinetti. Non siamo faziosi e neanche dei critici. Ci fa dispiacere – un dispiacere che confina con lo schifo – constatare  come nell’animo di un poeta – che dovrebbe essere l’animo più sensibile e nobile di tutti gli animi – possa formarsi tanta feccia di vigliaccheria da fargli rinnegare la memoria d’un amico morto due volte – fisicamente e letterariamente – con un gesto così triviale come quello di vendere come cartaccia inutile i suoi ultimi libri senza neanche avere l’elementare riguardo di eliminare il primo foglio dove quell’amico ha poggiato la sua mano per scrivere la più sincera, forse, delle sue dichiarazioni d’amicizia: com’è quasi sempre la dichiarazione che uno scrittore può offrire a un camerata in letteratura quando accompagna, con le poche parole scritte in apertura d’un suo libro, la sostanza viva del suo pensiero trasformato in carta stampata.

Sappiamo tutti – e tanti di noi li hanno provati – i sacrifici di questi ultimi anni  che spesso ci hanno obbligati a vendere le nostre cose più care per comprarci il pane.

Sappiamo tutti che F. T. Marinetti era fascista, si faceva chiamare Caffeina d’Europa, aveva definito la guerra sola igiene del mondo. Aveva in se stesso una buona dose di ciarlataneria mescolata con una buona dose d’autentico ingegno impiegato male; e ora è, a ragione o a torto, universalmente disprezzato.

Ma i difetti dell’uomo e le sue tare politiche, che esistevano già quando era in vita e quindi potevano essere presi in considerazione fin d’allora dagli amici che oggi lo rinnegano, non possono e non devono giustificare un gesto come quello che ha fatto Corrado Govoni adesso che l’uomo è morto e, come abbiamo già detto, anche letterariamente sotterrato. Un gesto di bassa vigliaccheria, ripetiamo, paragonabile al gesto di quella bestia africana che orina sul cadavere dell’uomo che un minuto prima era ancora suo padrone e che la carezzava trattandola da amica. …

Però… Però la nostra piccola avventura libraria non è ancora finita e il seguito, se ci fa ridere di cuore, ci fa anche pensare che esista un destino che certe volte si diverte a vendicare i morti dagli affronti che fan loro i vivi.

Oggi, passando in una stradina di Tor di Nona piena di straccivendoli, di merciai, di rigattieri, abbiamo visto per terra, tra una ciabatta rotta e un candeliere usato, un libro unto e sdrucito di Corrado Govoni: Poesie scelte (1903-1918) / edizione Taddei e figli, Ferrara. Ci siamo chinati a sfogliarlo, senza sfilarci i guanti dalle mani. La prima pagina era arricchita da una bella dedica autografa dell’autore a una creatura che battezzava «mia divina ispiratrice».

Una «divina ispiratrice» - viva la sua faccia di bronzo, perbacco!- che ha buttato nel fango le poesie di quel poeta che, disprezzando l’amicizia, s’è meritato, a sua volta, di vedersi disprezzato, forse, l’amore…

Abbiamo comprato quel libro del Govoni. Siamo andati a comprare, subito dopo, quei sette libri di Marinetti. E li conserveremo tutti e otto come una delle documentazioni più singolari della fondamentale porcheria dell’animo umano 1946. 

11) Luigi Olivero Poesia 1935 Pinin Pacòt: Crosiere Armanch piemonteis A l’ansegna di Brandé Torino 1936. 

È un bisogno d’evasione, un mal sottile e tagliente che gli raggrinzisce l’anima, come un filo di seta teso, il male che proviamo tutti noi giovani: andare, navigare, volare, perdersi nelle lontananze della terra, dell’acqua, del cielo; per conoscere, per vivere fino alla fine la nostra pena, per leggere negli occhi degli uomini di tutte le razze e di tutti i paesi cos’è che li avvicina, cos’è che li divide: per godere di una libertà senza freni, di un galoppo di vittoria, folli di sole e d’azzurro, ubriacandosi del vino delle mattinate e nutrendosi delle fette saporite dei grandi anelli di tutte le lune più calde d’amore. 

12) Luigi Olivero scrive correttamente linguage e lingua in gran parte delle sue opere. Raramente fa uso di langagi di derivazione transalpina. Prima di lui Pacòt  e gli altri scrittori e poeti piemontesi, nonché praticamente tutti i vocabolari (compreso il Gran dizionario Piemontese-Italiano compilato dal Cavaliere Vittorio di Sant’Albino edito nel 1859 dalla Società L’Unione Tipografico-Editrice di Torino), che distinguono tra lenga, organo anatomico in particolare degli animali, e lingua ad indicare un idioma. Solo in anni recenti, tra i moderni scrittori e poeti piemontesi, in particolare gli ultimi Brandé e, in ogni caso, dopo la morte di Pinin Pacòt, è invalso l’uso, prima un poco timidamente, poi sempre più generalizzato, di lenga, lengagi per lingua, linguagi. Si è arrivati al punto, nelle ristampe di opere di Pinin Pacòt, di sostituire tutti i lingua e linguagi da lui correttamente utilizzati, con lenga e lengagi. Tra i dizionari moderni, Gianfranco Gribaudo nel suo Ël neuv Gribàud dissionari piemontèis Daniela Piazza Editore, alla voce lenga traduce lingua, idioma e, tra parentesi, aggiunge: da condannare l’italianismo lingua. Così pure nel sotto lemma langagi (non elenca lengagi) tra parentesi sottolinea: da condannare l’italianismo linguagi.

Io sono ligure, trapiantato in Piemonte ormai da tanti anni. Non conosco assolutamente bene il Piemontese. Devo però dire che quei lenga, lengagi ed, obbrobrio, lenghistich, all’orecchio mi suonano proprio male! Naturalmente è un parere del tutto personale.

In proposito si può leggere  la polemica tra Guido Griva (Discussioni sul lessico piemontese «Lingua», non «Lenga») sull’Almanacco Piemontese di Andrea Viglongo del 1980 e Tavo Burat (Discussioni sul lessico piemontese. Ancora su «Lingua» o « Lenga») e  Guido Griva (Argomenti contro l’arbitrio) sull’Almanacco Piemontese del 1981; il tema è stato ripreso recentemente nel saggio di Gianluca A. Perrini e Francesco Rubat Borel Për në studi dla lingua djë scritor piemontèis. Armarche an s’Luis Olivé nella nota 1 a pagg. 83-84 scritta in italiano e nella nota 38 a pagg. 101-102 identica ma scritta in piemontese, negli Atti del Convegno “Luigi Olivero Cantore della sua terra, poeta dell’umanità” Fondazione Ferrero Alba, Famija Albèisa 2007. 

13) Luigi Olivero Silabare dël poeta neuvsent piemonteis Armanch piemonteis A l’ansegna di Brandé Torino 1936. 

COSA pretendono questi vecchi avanzi di carogne antidiluviane che battono i piedi piatti su 154 sillabe con delle cadenze e dei pensieri dei tempi di Madama Reale?

Non vedono, con i loro occhi caccolosi, che il film della vita non è più lo stesso dei Lumiere ma che presenta altri scenari, altri gesti, e che il suo commento non è più quello di un pianoforte scordato, suonato da piedi fioriti di calli, ma che è fatto da un coro che intona le voci stesse della vita?

Non si accorgono che da tutte le parti scuote un fremito nuovo, una volontà inedita, uno slancio moderno, una calda ambizione di superamento?

No. Le vecchie carogne né vedono, né sentono. I loro occhi sono senza vista, le loro ossa sono senza midollo.  E il loro fosforo non traspare più – neanche nelle notti calde d’estate. 

DIAMO una scrollata di spalle alla polvere del rispetto tradizionale. Diamo un colpo di battipanni sulla schiena dei più pigri:  e poi prendiamoli per mano e tiriamoli con noi nel vento. Respiriamo ed insegniamogli a respirare, a bocca spalancata e naso aperto. Sentiremo, e sentiranno, i polmoni risuolati e le ghiandole imbottite: come se il fantoccio umano che pendeva ai fili del pregiudizio si sia svegliato all’improvviso con una volontà sua, con una voglia di vivere sua, con un’anima, un’anima sua, che non sapeva di avere e che adesso si trova aperta – come un fiore che beva il cielo con una sete senza fine… 

E BASTA con i Brichetaire filòsofo, La bagna di povron e La vita sgiairà, che non sono poesia. Perché i meravigliosi giovani che hanno nobilitato la propria vita nelle trincee del Carso e che sono diventati filosofi nei Kriegsgefangenlager  (campi per prigionieri di guerra n.d.a.); e noi, ancora più giovani, che ci siamo dannati l’anima e la suola delle scarpe rosicchiando i torsoli dei peperoni a cercarci un tozzo di pane sui marciapiedi della disoccupazione internazionale; noi, poeti sarcastici, brutali, insensibili ai raggi del chiardiluna e alle moine insipide dei senzacoglioni; noi, abbiamo una concezione di molto differente e rispettosa della poesia. 

ÒH! Le ragnatele che abbiamo dovuto staccare dall’edificio liberty della nostra cultura! Che di pergamene, d’inutili e pretenziose cartacce abbiamo dovuto regalare ai succhielli dei dentini aguzzi dei topi e alle perforatrici autogene naturali delle camole dei solai. Che belle fantasie di tribù di scarafaggi abbiamo dovuto organizzare, per trovarci, infine, tranquilli con la nostra coscienza ad ascoltare la nostra nuova sensibilità, discola,  sgarbata, ma viva, chiara, fantasiosa: che corre a piedi scalzi sulle stoppie e lungo i sentieri; che ascolta - con le gambe all’aria - il motore di un aeroplano  nell’azzurro; e che se ci prende il ghiribizzo di commettere peccato sulla sponda di un ruscello lo facciamo e se ci prende voglia di raccontarlo lo raccontiamo. 

GIGANTE di pietra, con il capo incoronato da tutte le stelle del firmamento, Dante, sullo strato di paglia insanguinata della storia del nostro popolo, ricorda al popolo che il primo linguaggio adatto ad esprimere la poesia della vita è il dialetto.

Il dialetto, compagno del vento e della  melma, creatura appagante nata dalla terra e dal mare, battezzata dal lavoro, incallita alla pace e alla guerra, sensibile alle vibrazioni profonde e semplici degli elementi perché nata dalle stesse voci degli elementi della natura: che sono vivi nel popolo perché il popolo è mangiatèra: come si chiamano tra di loro i contadini. 

LAVARSI  gli occhi nel giorno di Santa Lucia, è il più bel simbolo che ci abbiano insegnato da piccoli. Non è solamente una parabola della mitologia cristiana: è un consiglio d’igiene spirituale che tutti gli uomini devono compiere nell’età del giudizio.

Laviamoci gli occhi nell’acqua dei ruscelli e alziamoli al cielo perché si specchino nell’azzurro e perché si lustrino e e si asciughino nella sabbia dorata, splendente, del sole. 

ATTO di nascita – o pedigree? – della nostra poesia.

Abbiamo imparato a trovarla, vestita in piemontese, su un idrovolante a quota 6000 in volo sull’Acropoli; sul velluto di un vagone letto attraverso la Mitteleuropa; sul ponte di un battello squassato dalla tempesta in mezzo al Mediterraneo; per una contrada spagnola sforacchiata dai fucili della rivolta; in un capanno di paglia e cimici sulle soglie del Sahara; nella gioia tiepida e paesana di una casetta verderossa della campagna piemontese.

Poesia è tutto quello che della vita entra in noi: rugiada velenosa  o profumata, sorriso innocente o scherno di rivolta; per farci signori anche se straccioni, gentili anche se sostanzialmente maleducati; perché delle nostre emozioni se ne faccia una collana incantevole e preziosa da regalare al desiderio di perfezione che c’è in fondo a tutti. 

PECCATO! È peccato far l’amore? Sarebbe un peccato non farlo. E perché non cantarlo l’amore: caldo, libero, naturista, ingorgato di passioni primordiali, come lo sentiamo noi giovani – e non come lo patite voialtri piedi piatti quando facevate i bulli con il colletto di celluloide, l’infarinata sui testicoli e i pantaloni stretti?

Lasciateci un po’ cantare l’amore a modo nostro; perché tanto, anche se cambia nell’espressione, il gesto non cambia. E il risultato è sempre lo stesso: i bimbi che nasceranno da noi – come quelli che son nati da voialtri – assomiglieranno alle mamme e le bimbe assomiglieranno ai papà.

Lasciateci cantare l’amore a modo nostro. 

QUATTORDICI versi sono sufficienti a fermare un mondo di poesia, quando il poeta è davvero poeta (sismografo della sua sensibilità e della sensibilità del mondo che gli gira intorno) e non un beduino delle rime che porta quattro pecore tosate e quattro dal pelo lungo, tre agnelli bianchi e tre grigi a pascolare per il deserto di un concetto desolato, incitandoli con undici colpi per volta cadenzati sulla latta da petrolio della metrica tradizionale.

14 versi senza firma qualche volta possono far dire: «questa, dal garbo, è una poesia di Nino Costa», «questa è una signora lirica di Pinin Pacòt».

Perchè? Perché il poeta ha aperto la fialetta della sua anima e ne ha versato un po’ della sua essenza  su quelle quattordici righe di piombo che possono aver fatto piangere il lynotipista che le ha composte.

E, spesso, basta un titolo, un nome, un aggettivo, per catalogare un poeta. 

…………………………………………

            Olivero…è un giovanotto diritto e svelto, che si è avvicinato alla poesia con la stessa sincerità e senza l’imbarazzo, con cui si avvicinerebbe ad una bella ragazza di Villastellone, là in mezzo all’oro del grano sotto la gran serenità del cielo d’acciaio, mentre lei se ne va cantando e gli occhi le ridono, in braccio al sole che la circonda di calore  e le gonfia l’anima di desideri e di libertà. Poche parole dirette,

                                                e baci e strilli su l’accesa bocca

                                                mesconsi… (*)

            Con due occhi da faina che fissano senza abbassarsi e un bel sorriso posato sulle labbra come una sigaretta accesa, con garbo svelto e spesso allegro, Olivero, come deve piacere alle belle donne, così a volte da sui nervi a certi bellocci acerbi e a certi  maturi e fracidi farfalloni, che son gelosi di lui, perché la poesia gli va a braccetto, come le belle ragazze.  Eh, perbacco! è giovane; e poi,

                                                i poeti son sempre giovani.

            E giovane, Olivero, lo è, non solo per l’anagrafe, ma più di tutto per quel suo modo birichino di saltare alla cavallina, guizzando splendidi salti, tre o quattro secoli di poesia dialettale piemontese, e di farci sopra una bella risata! Ma si, le tradizioni, le scuole, le maniere valgono solo per quella poca poesia che ci sarebbe lo stesso, senza le tradizioni, le scuole, le maniere. E che Olivero rispetti o non rispetti la tradizione, che prenda Viriglio per un grand’uomo o solo per l’autore della bagna di povron, tutto questo non ha alcuna importanza; basta che

                                                la sua sia poesia.

…………………………………..

            E quando il bimbetto ha potuto alzarsi sulle gambe diritte e sottili, e ha potuto prendere il volo è partito con tutti i sogni, per le strade della fantasia e per le strade della terra. Fratello più giovane di Rimbaud e di tutti gli altri vagabondi delle stelle. E la poesia che aveva in lui l’ha portata in giro per il mondo, dagli arcani angoscianti delle metropoli dell’Europa, ai bianchi misteri di villaggi africani  solitari e sperduti nella calura dei deserti, alle campagne verdi fresche e riposanti di casa nostra; l’ha portata in giro in cima alle onde tempestose del mare, per le strade – vento e nuvole – del cielo, lungo le rotaie lucenti e sugli stradoni bianchi di polvere, dovunque il bisogno o il desiderio lo portavano, per trovarla sempre e solo in lui, tessuta, con tutte le sue angoscie e le sue rivolte, con tutti i suoi desideri e le sue gioie, sul telaio cadenzato, tra un sogno ed una pena, dalla sua anima dolente e profonda. Quella che non si vede sotto le risate taglienti del polemista senza briglia e biricchino, che adopera la lingua sottile ed appuntita, come uin fioretto, che vola improvviso dalla terza alla quarta, per partire deciso nel lampo di un affondo senza parata.

            Polemista per temperamento, moschettiere del Re, d’Artagnan della poesia, per lui tutte le occasioni sono buone per attaccar briga con le guardie del Cardinale. E guardie del Cardinale, per lui, sono tutti coloro che di solito scappano, per nascondersi all’agguato dietro gli alberi, puntando gli archibugi contro l’allegra cavalcata che s’avvicina cantando, con le spade al sole e con le piume al vento. Per questo si è fatto, forse, più nemici che amici. Buon segno. L’uomo, la sua arte, le sue idee non sono

                                                indifferenti. E va bene così.

            D’altra parte, quello che conta più di tutto in un poeta non è poi che la sua poesia. E Olivero, poeta lo è. Il libro che darà presto alle stampe lo proverà, portando una nota tutta nuova nella poesia piemontese, segnando una personalità originale di poeta, che non mancherà di trovare tanti che vorranno discuterlo senza capirlo, ma che troverà qualcuno che, in nome della poesia, dopo averlo letto, diventerà

                                                per sempre suo amico.

                                                                                                PININ PACÒT

(*) Carducci? E perché no? Quest’anno è il suo centenario.

 Ël Tòr

Ël Tòr N° 21 1946