LUIGI ARMANDO OLIVERO

2 novembre 1909 ~ 31 luglio 1996

 di Giovanni Delfino

delfino.giovanni@virgilio.it

 

Foto da studio 

 Luigi Armando Olivero : foto da studio anni '30 in Spagna (inedita)

(Collezione Silvio Bonino - Margarita - CN)

 

         Il torinese Parco del Valentino invernale interpretato da Luigi Olivero per l'Armanach piemontèis del 1938.

        Ël Valentin a l'ha freid, a frisson-a sota la nebia e a tramola sota la pieuva. Ma l'é ancor viv. Doman a resterà ampëssì sota la prima fiòca e 'l gel a lo farà parësse 'd cristal: cangiandlo tut ant un arabesch e ant un fioram, coma una riprodussion an ës-stil floreal liberty, sota a la campan-a 'd véder d'un cel niss trasparent. E a në smijrà 'd vëdde 'l Valentin an véder ëd Muran. 

         Il Valentino ha freddo, freme e trema sotto la pioggia. Ma è tuttora vivo. Domani resterà intirizzito sotto la prima neve e il gelo lo farà apparire di cristallo: mutandolo tutto in un arabesco e in un fiorame, come un quadro in stile liberty floreale, sotto la campana di vetro d'un cielo bianc'azzurro trasparente. E ci sembrerà di ammirare il Valentino in vetro di Murano.

 

 Mappa del sito

Home 

Rondò dle masche L'Alcyone, Roma, 1971 

Ij faunèt Il Delfino, Roma, 1955 

Articoli di Giovanni Delfino riguardanti Luigi Olivero pubblicati su giornali e riviste

Roma andalusa

Traduzioni poetiche di Luigi Olivero in piemontese e in italiano

Genesi del poemetto Le reuse ant j'ole: sei sonetti di Pacòt e sei di Olivero

Commenti ad alcune poesie di Luigi Olivero a cura di Domenico Appendino 

Le poesie di Luigi Armando Olivero (Prima parte)

Le poesie di Luigi Armando Olivero (Seconda parte)

Le poesie di Luigi Armando Olivero (Terza parte)

Luigi Olivero Giornalista

Luigi Olivero e Federico Garcia Lorca

Luigi Olivero ed Ezra Pound

Olivero e D'Annunzio

Sergio Maria Gilardino - L'opera poetica di Luigi Armando Olivero 

Poesie di Luigi Olivero dedicate allo sport

Pomin  d'Amor (Prima raccolta inedita di poesie di Olivero)

Polemiche

Poesie dedicate al Natale  e ad altre ricorrenze (Pasqua, Carnevale...)

Bio-bibliografia

Aeropoema dl'élica piemontèisa

Poesie inedite

Poesie in italiano

Poesie dedicate a Villastellone ed al Piemonte

Episodi della vita di Luigi Olivero

Scritti inediti  e non di Luigi Olivero

Lettere ad Olivero

Artisti che hanno collaborato con Luigi Olivero

Biografia di Luigi Olivero: primo scenario (Gli inizi)

Biografia di Luigi Olivero: secondo scenario (Prima stagione poetica)

Biografia di Luigi Olivero: terzo e quarto scenario  (Verso la tempesta: diluvio universale ~ Viaggi)

Biografia di Luigi Olivero: quinto e sesto scenario (Attività frenetica ~ Roma: maturità d'un artista)

Biografia di Luigi Olivero: settimo ed ottavo scenario (Incontri, polemiche, viaggi, cantonate ~ Ultima stagione ~ Commiato)

Appendici prima, seconda e terza

Appendice quarta ed ottava

Appendice quinta: gli scritti di Luigi Olivero su giornali e riviste

Giudizi espressi in anni recenti su Luigi Olivero

L'officina di Luigi Olivero

Luigi Olivero legge la sua Ël bòch

Documenti e curiosità

Siti integrativi

 

L’OPERA POETICA DI LUIGI ARMANDO OLIVERO

 

Sergio Maria Gilardino 

Prof. Sergio Maria Gilardino

 sgilardino@libero.it 

 

Luigi Armando Olivero (1909-1996) è un poeta in lingua piemontese e l’estensore di centinaia di articoli e di saggi in lingua italiana, pubblicati su giornali e riviste di tutta l’Italia. Ha scritto molto anche per riviste e giornali stranieri. È stato pure il creatore e il principale contributore – in lingua italiana e in lingua piemontese – di quattro riviste: Ël Tòr, Il Garibaldi, Poesia dialettale, La Fiera dialettale[1] e l’autore di tre lunghi saggi (Turchia senza harem, 1945, Babilonia stellata: gioventù americana d’oggi, 1941, Adamo ed Eva in America alla vigilia del secondo diluvio universale, 1946)[2] che, in varie edizioni italiane e in traduzione inglese e tedesca,  hanno venduto centinaia di migliaia di copie. La sua vastissima pubblicistica rivela una vasta, profonda e raffinata cultura letteraria e una meditata e aggiornatissima sensibilità verso svariate questioni sociali e politiche.

L’attività poetica di Olivero si estende per sette decenni (1925-1995) e conta 529 composizioni di vario metro e lunghezza (cioè poco meno di una poesia al mese per tutta la sua lunga vita).[3] Alcune poesie ammontano a pochi versi (la minoranza), altre ne contano centinaia.[4] La forma metrica di gran lunga più frequente è il sonetto. Non infrequente la canzone o la ballata. Dovunque trionfa la rima. Eccetto per una brevissima premessa agli esordi, in lingua italiana,[5] tutta la sua produzione in versi e in prosa metrata è in lingua piemontese.[6] Ha pure tradotto in piemontese versi dal greco e da altre lingue classiche e moderne, nell’evidente intento di misurarsi coi grandi lirici di tutti i tempi, ma anche di dimostrare l’attitudine della sua lingua alla veicolazione dei testi poetici più impegnativi.

Per quanto riguarda la completezza del corpus poetico in nostro possesso, è possibile che vi siano ancora sue poesie in raccolte da lui segnalate e però mai reperite, ma l’eventuale rinvenimento di manoscritti inediti o di stampati finora irreperibili (o forse mai esistiti) non cambierebbe sostanzialmente il nostro concetto della gamma linguistica o della portanza poetica di questo autore. Il giudizio critico, sostanzialmente, non muterebbe. Il fatto che egli abbia riproposto alcune composizioni più volte, sia in varie riviste che nelle quattro raccolte in volume (Roma andalusa, 1947, Ij Faunèt, 1955, Rondò dle masche, 1971, Romanzìe, 1983) implica che il meglio è stato da lui rivisitato e riproposto. Se tra quel “meglio” (quale che sia stato il criterio per farglielo ritenere tale) vi fosse stato altro, esso pure sarebbe stato riprosto: il fatto che non lo sia stato è forte indizio che altro non v’era o, se vi era, non di tale entità da modificare i parametri critici sull’insieme della sua opera poetica che, indubitabilmente, raccoglie quanto di più significativo egli ci ha lasciato. Questo, beninteso, non significa che si debba cessare di cercare, ma semplicemente che il rinvenimento di opere poetiche che rivoluzionino la nostra visione del suo operato è altamente improbabile.

Tra i dedicatari delle sue poesie e gli artisti che le illustrarono troviamo non solo i nomi che resero celebri le muse locali, ma gli interpreti maggiori e minori della cultura europea ed extra-europea.[7] Tra le parole ch’egli mutua ad altre lingue per incastonarle nel tessuto della propria poesia ve ne sono dall’inglese, dal francese, dal tedesco, dallo spagnolo, dal portoghese, dal provenzale, dal latino, dal magrebino e dall’arabo. Viaggiatore irrequieto e instancabile, tanto del pianeta, quanto delle varie temperie culturali, di Olivero si potrà affermare tutto, tranne che non fosse culturalmente, letterariamente e linguisticamente aggior­nato.

A questo riguardo il suo inamovibile attaccamento alla lingua piccola pur in un contesto culturale di tale respiro è davvero rivelante: sapeva di utilizzare quella che per lui era la lingua più consentanea ed avvertiva più acutamente del fondatore stesso de Ij Brandé, Pinin Pacòt, l’imperativo di ampliare, arricchire, aggior­na­re non solo la propria panoplia di tematiche e di registri compositivi, ma anche la sua lingua, avvertita come capace di recepire gli stimoli più eterocliti, più esotici, più sfumati, più à la page. È il ribaltamento di tutti i termini: la lingua locale, il “dialetto”, diventa veicolatrice della poesia più internazionale. Pur trovandosi in posizione paolina rispetto ai quattro o cinque originali fondatori de La bela companìa dij Brandé, egli è quello che ha vissuto ed ha portato l’assioma di base, poesia grande in lingua piccola, alle sue estreme e lungamente meditate conseguenze. Ha creduto nel fare poesia in piemontese come nessun altro mai. Ma ha creduto anche nel fare poesia tout court e in quel fare poesia ha trovato la ragione della propria vita.

L’accusa spesso mossagli di non dire la verità su sé stesso o sulle proprie conoscenze o creazioni è in parte magari vera, per quel che riguarda l’aspetto fattuale o anagrafico, ma è infondata in prospettiva poetica: la sua verità era la poesia ed in termini poetici egli è stato veritiero e conseguente, perché la sua sola coerenza era la creazione poetica. La sua sola realtà era l’irrealtà della poesia.

Con tutti i suoi contatti e le sue letture verrebbe fatto di pensare a influenze, calchi o maniere vistosamente palpabili e riconoscibili un po’ dovunque nel suo poetare. Eccetto per un paio di composizioni (Andé an paradis con j’aso e Libertà), che sono rifacimenti dichiarati di poesie francesi, il resto della sua produzione non reca segni tangibili di influenze capillari, di tematiche, di maniere o di mode non sue: e anche questo è un caso singolare, forse dovuto al suo poetare in piemontese, una lingua che lo forzava a ristrutturare, a riparametrare ogni verso su una lunghezza d’onda completa­mente sua, come pure a non poter recepire sicut erant modelli italiani, così abissalmente diversi da quelli piemontesi. Il piemontese non solo gli ha procurato l’originalità, ma lo ha esentato da qualsiasi imitazione pedissequa. Gli ha anche dato carta bianca a trattare di qualsiasi tema, anche i più triti e i più banali, cosa che non avrebbe mai potuto permettersi se avesse poetato in italiano, lingua dalla poetica ristrettissima, come ben rivelano le tavolozze dei suoi contemporanei in lingua nazionale, draconianamente monocrome una volta esaurite le escursioni rapisardiane e carducciane e coeve di poeti come Ungaretti e Saba. Insomma, al montaliano ciò che non siamo, ciò non vogliamo Olivero risponde con un reboante ciò che sono, ciò che voglio. Non era tanto una questione di reticenza o di poetica morigerata, ma di fattibilità: in piemontese rimaneva ancora quasi tutto da fare e quel “quasi tutto” è stato quanto ha prodotto Olivero.

Singolarmente, non vi sono temi o stili che contraddistinguano o che prevalgano in determinate epoche della sua vita: ha trattato temi come la morte e la vanità quando era giovane, e l’amore o l’infanzia quando giovane non era più, riprendendo poi temi seri o faceti in momenti ed epoche diverse. La sua produzione è caratterizzata da rinvii, da ritorni, da recuperi, ma gli spunti – quando li tratta come tali – si trasformano sempre in composizioni radicalmente nuove. Ha saputo rimanere sé stesso rinnovandosi costante­mente. L’intensità della sua ispirazione non pare conoscere alti e bassi riconducibili a momenti particolari o ad avvenimenti esterni. Anche la sua gamma lessicale non rivela ammanchi o arricchimenti particolari nelle opere della maturità rispetto a quelle della gioventù: il suo repertorio linguistico si è mantenuto sbalorditivamente ricco prima come poi. Persino i metri e le rime non consentono la scansione della sua attività in stagioni particolari: ha utilizzato sonetti e canzoni, sirventesi e madrigali, quartine, sestine, ottave, versi con la rima al mezzo, monostici, distici, polimetri, versi liberi, versi da 2 a 17 sillabe, con rime baciate, alternate, spezzate, al mezzo, speculari, senza che vi siano forme metriche o prosodiche che prevalgano in una certa epoca della sua vita piuttosto che in un’altra. Ha cantato con eguale impegno i temi più sacri dell’umanità come pure una partita di pallone o un bambolotto. I Cantici di Salomone lo hanno impegnato non di più e non di meno del rifacimento di una canzone contadina: qua come là il poeta Olivero si piega col filo della schiena teso a trasformare tutto in Poesia.

Pure i ritmi di produzione non conoscono soste o stasi: di rado passava mese senza che componesse versi, anche se risulta spesso inattendibile stabilire le date di composizione sulla base di quelle di pubblicazione. Né è sempre affidabile la cronologia ch’egli stesso proponeva, apponendo luoghi e date in calce alla maggior parte delle sue poesie. Non risulta neppure che Olivero abbia mai ripudiato alcunché di quanto ha scritto in versi, tant’è che ripropone decenni dopo poesie di epoche anteriori, a volte con lievi, altre con notevoli cambiamenti ma, non di rado, anche senza alcuna modifica: tutto ciò che egli ha composto è sempre attuale e presente per lui e come tale lo propone ai suoi lettori, accanto a quanto di nuovo andava di continuo creando.

La sua musa poetica ha abbracciato pressoché ogni argomento, dai motivi popolari a quelli mitologici, dalle poesie amorose a quelle erotiche, dalla religione più ortodossa a quella più dissacrante, dall’amor di patria all’anarchismo, dal­l’eso­ti­smo all’anacreontica, dagli oggetti più umili a quelli più monumentali, dal paesaggio piemon­tese a quello magrebino, dall’ar­chi­tet­­tura alla natura, dalla diatriba alla dedica fraterna, dall’amicizia all’odio, dal paganesimo all’esistenzialismo, dalla magia alla scienza, dall’argomento d’attualità a quello storico, dallo stile postmoderno a quello fiabesco e populista, dalla religiosità più baciapile e bacchettona a quella più eslege e libertina. È stato poeta d’occasione come pure vate sub specie æternitatis. 

Per questo primo saggio (ne seguirà uno più approfondito, sotto forma di introduzione alle sue opere poetiche) abbiamo individuato una cinquantina di filoni, che raggrupperemo e tratteremo sommariamente, evidenziandone le caratteristi­che salienti. 

È soprattutto la vastità del suo poetare che mette in serie difficoltà chi volesse riassumerne in un saggio l’intera poetica. Non sembrano esservi denominatori comuni. Ogni poesia è un’ “eccezione”. È qui che si demarca l’incolmabile differenza tra questo poetare “a fiume” in lingua regionale (che poi, sotto sotto, è tutt’altro che “regionale”) e il poetare sempre più rarefatto e reticente in lingua naziona­le (cui egli rimane, formal­mente, linguisticamente e tematicamente estraneo, nonostante le numerose dediche e gli stretti contatti personali e di lettura). Soprattutto non ha mai avuto paura di essere sé stesso, di essere spontaneo: se ha creato un personaggio di sé, come D’Annunzio (cui dedica una bella poesia), lo fa con l’avallo del più terragno attaccamento ai modi popolari e risulta per questo assai più accettabile che non gli esibizionismi oltranzisti del poeta del Vittoriale.

Olivero è senz’altro l’autore più indicato per tracciare un consuntivo della poesia in lingua regionale, delle sue dinamiche e della sua poetica. Insomma, se si vogliono appurare limiti e libertà di chi poetava in piemontese (o in altra lingua regionale) basterà studiare da vicino l’opera di Olivero: non solo perché ha poetato in piemontese, ma perché ha agito e verbalizzato secondo la logica, ma non i limiti, della lingua popolare.

Ed è proprio la sua lingua che lascia attoniti. Non solo rovescia tutti i preconcetti o anche i concetti di lingua locale, ma è di una envergure, di una varietà, di una selettività, di una opulenza che supera di gran lunga quella dei più che abili maestri, suoi conterranei e contemporanei, de La bela scòla dij Brandé.[8] Se si confronta il lessico squisì di Alfredino Nicola o di Pinin Pacòt con quello oceanico di Luigi Olivero se ne ricava la stessa impressione che confrontando il lessico minimo di Francesco Petrarca (poche migliaia di parole) con quello massimo di Dante (più di trentamila). Nei versi di Olivero c’è un nome, un aggettivo, un verbo, un avverbio, un esotismo, un’onomatopeia per tutto: e non di rado si stenta a reperirne l’equivalente in italiano. Checché egli stesso abbia affermato (nell’intervista rilasciata ad Icilio Petrone e poi premessa alla bella raccolta intitolata Rondò dle masche)[9] a proposito del “dialetto” piemontese (al quale paradossalmente Olivero rifiuta lo status di lingua), è chiaro che al villastellonese non sono mai mancate le parole per dare libera, articolatissima e calzante espressione al suo inesauribile estro poetico: non si è mai sentito prigioniero di una lingua troppo piccola per la sua straripante musa. Anzi, in più luoghi la lingua piemontese gli offre l’estro per assonanze, rinvii, sottintesi, giochi di parole che con ogni probabilità non gli sarebbe mai riuscito di escogitare in nessuna delle altre lingue che pur conosceva ed utilizzava.

Si può dunque affermare che una creatività simile, costante­mente desta e attiva, senza flessioni o crisi o astinenze, è davvero inusitata, che un lessico come il suo può essere frutto solo di puntigliose ricerche da fonti orali e cartacee, che una maestria simile nell’utilizzare i metri più disparati ha richiesto sperimen­ta­zioni, recuperi, studi, autodisciplina e tirocinio assidui ed approfonditi. Nel suo insieme l’opera poetica di Luigi Olivero rappresenta il contributo individuale più cospicuo alla storia della poesia in lingua piemontese. Nella sua vastità il più rimarchevole nella cultura italiana. Se egli non è noto e riconosciuto al suo giusto valore, ciò non è solo perché ha poetato in una lingua minore. Se quella fosse l’unica causa, mal si spiegherebbe la maggiore notorietà di un Marin, di un Loi, di un Firpo, di un Pierro, di un Buttitta sullo scenario delle muse regionali. Vero piuttosto è che costoro hanno poetato davvero “in dialetto”, producendo versi che ci si aspettava dal dialetto: non hanno messo in imbarazzo i critici, che hanno volentieri e di buon grado concesso loro il riconoscimento di essere i primi della seconda fila. Una poetica universale come quella di Olivero pone ben altri problemi di catalogazione, per cui era meglio ignorarlo che spiegarlo. Ha soprattutto travalicato i limiti autoimposti della dialettofonia: trattare di tutto, seriamente, contravveniva ai taciti accordi tra poeti e critici, per cui in dialetto era consentito trattare di pochi argomenti, per lo più di tono ridanciano. Fare il vate in dialetto era come suonare musica dodecafonica su una fisarmonica o su una chitarra: si contravveniva alle norme classiche e nessuna indulgenza poteva assolverlo.

A questo si deve porre rimedio non solo con traduzioni adeguate, ma con saggi che di Olivero evidenzino tutto lo straordinario genio e tutta la gamma creativa, in questo di certo non prona alle mescole di dialetto che si stempra nell’italiano (la sua lingua è quanto di meno ibrido si possa concepire) e non riducibile ad una ristretta gamma di argomenti – quelli più recepibili dal pubblico extra-regionale –. Soprattutto facendo le debite considerazioni sull’indipendenza della creatività poetica dalla regionalità o nazio­na­lità o internazionalità della lingua, conclusioni cui la critica letteraria italiana rimane tuttora perlopiù preclusa, insabbiata com’è nei suoi inveterati principi di dialetto = poesia dialettale = poesia terragna, rozza, macchiettistica. Insomma, per capire, classificare e valorizzare la poesia in lingua regionale bisogna sviluppare i parametri di una critica letteraria apposita, senza timori, senza prevenzioni, linguisticamente agile, che non corrisponde di certo a quella dei critici italiani educati ai gusti e adusi ai parametri della produzione in lingua nazionale. Ma poiché Olivero è poeta internazionale, la critica letteraria in grado di decifrarne il messaggio poetico d’insieme deve essere anche sensibile a correnti e a stimoli che travalicano la compagine italiana e fanno del piemontese solo la lingua veicolatrice, non il contesto culturale che ne accompagnò la produzione. Chiedere ai critici italiani di fare un passo in giù, studiando seriamente un dialetto, e un passo in su, studiando seriamente delle lingue straniere, è come chiedere ad un cigno di fare anche l’anatroccolo e l’aquila.

Olivero ha poetato in lingua, una lingua magico-sacrale sterminata che, lui stesso, con grande acume e pazienza filologica, ha messo a punto ed è stato poeta nel senso più universale e onnicomprensivo del termine. La sua lingua è stata popolare e dotta al contempo: popolare nella misura in cui da qualche parte del Piemonte qualcuno ha utilizzato quella determinata parola, dotta nella misura in cui nessun locutore di piemontese le ha mai utilizzate tutte. Nessun poeta regionale o nazionale può eguagliare la sua tematica, la sua inventività, la sua metrica e pochissimi la sua eccellenza lirica. Bisogna partire quindi da queste premesse per tentare di ridurre ad un’unica prospettiva sinottica la sua sterminata creatività. Il suo vero merito è ancora tutto da chiarire. 

L’amore è uno dei temi più ricorrenti nella poesia di Olivero. Non si presenta, tuttavia, sotto un’unica modalità. Ve ne sono svariatissime.

Una delle più tipiche è quella magico-anacreontica, in cui fa uso di un fauno (frequentissima figura per rappresentare sé stesso in abiti arcadico-simbolici) per esprimere sia il proprio estro poetico, sia le sue propensioni amorose, come in Alegorìa dij pomin d’amor (Allegoria delle bacche di biancospino), L’erba galìa (L’erba gallica), Serenada (Serenata), Aereopoema dl’èlica piemontèisa (Aereopoema dell’elica piemontese), Fontan-e ’d Villa Borghese (Fontane di Villa Borghese), Fontan-a dël Mosé (Fontana dël Mosè), Mè faunèt (Il mio faunetto), Legion d’angej ëd fiama (Legioni d’angeli di fiamma), Faje bërgere (Fate alpine), Cantada dla sità d’Alba (Cantata della città d’Alba), Sinfonìa d’una neuit d’otón (Sinfonia d’una notte d’autunno). È da notare che il fauno danzante-poetante-corteggiante non compare solo in contesti anacreontici, ma anche futuristi (Aereopoema), segno evidentissimo che Olivero mescola spesso i filoni e crea poesie di svariatissima dosatura e composizione. L’ironia e il sottinteso si celano tra le righe.

Tra le poesie che contengono la figura del fauno e ad esso, definendolo e descrivendolo, si ispirano, troviamo la poesia Mé faunèt, che è anche la composizione alla base della meravigliosa raccolta Ij Faunèt. Curata dallo stesso autore e mirabilmente illustrata, vorrebbe essere anche una proposta tematica, che accoglie poesie tematica­mente affini: non è, a nostro parere, un accostamento di composizioni affini, ma è certamente una raccolta di grande efficacia ed esemplarità, usufruibile da un pubblico più vasto grazie ad accurate, eleganti traduzioni in francese e in italiano.[10]

MÈ FAUNÈT

Un faunèt ancoronà

’d rape d’uva e dë viòle

a j’é ’nt l’ànima mia.

Ant la stagion fiorìa

’d giroflé e ’d parpajòle

mè faunèt bala ’nt ij prà.

 

Na monfrinòta ’d boneur

bala e subia ’l faunèt

e ij fan còro le siale.

L’ha tut un bate d’ale

– cibibì, lòdne e farchèt –

ch’ai fërfoja drinta ’l cheur.

 

– Përchè mai, ànima mia,

ant la bruta stagion

t’ ses fiapa e derelìa?

– Sensa azur ’d poesìa

mè faunèt, ginojon,

a piora ’d malinconìa ...  

Il metro consiste di tre sestine di settenari-ottonari in libera alternanza, con il primo verso che rima con l’ultimo, il secondo con il penultimo e i due centrali a rima baciata (rima speculare). Presumibilmente è stata composta nel 1944, in piena guerra mondiale, secondo la datazione fornita dall’autore stesso. In questa poesia, apparente­mente di tono anacronistico e idilliaco, oscillante tra l’anacreontico e l’arcadico, fa capolino il doppio codice, poi tipico di tutta la poesia di Olivero. È quel Perchè mai, ànima mia, / ant la bruta stagion / ’t ses fiapa e derelìa? che introduce, d’improvviso, l’elemento della contemporaneità (i tempi tristissimi attuali) e le ripercussioni sulla sua (altrimenti gaia) poesia, con l’allegoria finale del fauno che a piora ’d malinconìa, cioè dell’elemento arcadico profondamente condizionato dagli avvenimenti del tempo (e arcadico, per l’appunto, non è, visto che l’Arcadia era il distacco completo da ogni realtà politica o sociale).

Tutto ciò fornisce una prima chiave interpretativa, quale che sia il filtro o la modalità (fra i tanti e le tante via via adottati), per capire l’Olivero poeta allegorico: è sempre, in fondo, poeta della contemporaneità, poeta civile, poeta sensibilissimo alle vibrazioni e alle sollecitazioni ambientali, anche quando si traveste da fauno e utilizza allegorie che solo in superficie sono scisse dalla storia a lui dolorosamente contempo­ranea. È una poesia levigatissima, dal punto di vista formale, che si può leggere a due livelli, ma che contiene un messaggio di fondo fortissimo: Olivero osserva sé stesso e il mondo e ne esce con versi nostalgicamente mutili di quella spensieratezza che in altri tempi e in altre circostanze egli avrebbe.

Ciò richiama il tema ricorrente del poeta nato nell’età o nel secolo sbagliato (Ël don Chissiòt modern), che avrebbe composto versi in puro stile e spirito arcadico se non fosse per il fatto che si trova a vivere in tempi durissimi. Nulla di più lontano dal vero (e Olivero lo sa benissimo): è poeta che adora la sfida della contem­poraneità e che ha portato l’imperativo de Ij Brandé (poetare di cose universali) fin ben addentro al sociale, al politico, all’impegnativo destino di ogni grande cantore. La sua nostalgia fa da paravento al suo ardire, al suo coraggio, al suo oltranzoso senso di sfida: Mi në peus gnente se la vita grama / a sëmna la mia strà ’d tanti nemis: / mi ’m sovagno la ponta dij barbis / come Aramis jë sfido a ’ncrozié lama con lama.

A questi frementi, vivissimi sottintesi sopravvive e si muove, quasi indipendente, la sua voglia di amare, mai sopita, quale che fosse l’età alla quale componeva i suoi versi:

Ma ’l vòst licor

– ò pomin ross arzent

dël prim amor –

a jë sgiajiss ij dent

tant ch’a jë scor

sui lavrucio nossent. 

1926 

Dall’amoroso all’erotico il passo è breve, ma lo scarto di toni è netto: qui ci imbattiamo in un Olivero dai registri già più diretti, più outrés, incurante della cappa di verecondia che fino allora aveva gravato sulle muse regionali (pensiamo ad un Nicola prima e ad un Brero poi: quanti versi hanno sacrificato al loro innato pudore?) e in prossima sintonia con la poesia francese e spagnola che, in quegli stessi anni, trattava questo tema con toni più o meno altrettanto truculenti ed espliciti. L’elemento passionale gli offre l’estro per similitudini tra la più fortunate della sua poesia: 

Su da le rèis angavignà ’nt  la tèra,

su për le ven-e ’l desidere arbeuj

e la mia man at tasta prima e at cheuj

parèj d’un pom madur che a casca ’n tèra.

Boca su boca, sensa vëdd-se ant j’euj,

(ant ij cavèj n’odor ’d mentassa amèra),

randa a lë Stlon, ch’a ten la càuna a meuj,

ij nòstri nerv son grop ëd serp an guèra.

Bela e sarvaja, ant ël calor ’d mesdì,

tuta toa carn a l’é un foré dë spi:

zanzive ’d reuse rosse ant la rijada ...

Ij bej rimòrs a passo andrinta ’d mi

come un vòle ’d colomb sota n’arcada.

E un gal a bëcca ’l sol con na cantada.                       

(1927) 

Spesso l’erotico – come in D’Annunzio (ma con esiti del tutto diversi) si miscida al sacro in una religione sacro-sacrilega condivisa da parecchi poeti dell’epoca. Ne è prova la composizione L’òstia ’d sangh sël Mont Olimp, mentre invece il tema arcadico, con tanto di animali personificati, e più o meno sottesamente autobiografici, riemerge in Cantada dël tòr, così valida nell’originale piemontese, così precaria e difficile da rendere nella traduzione italiana, poco atta quest’ultima – come lingua – a rendere l’originalità della composizione in una tradizione poetica che non possiede per nulla tali tradizioni. Altrettanto dicasi per la Cantata dël boch.

L’analoga Cantada dël diauleri dij pé forcù introduce il lettore alla serie (ma sparsa un po’ dovunque, come tempi e ispirazione) di poesie dedicate a streghe, magalde, masche, diavoli ed elfi, che alla vena anacreontico-arcadica sostituiscono quella popolare piemontese che, di tali figure, si nutre in ogni sua faola o racconto popolare. Il poeta si rende conto di corteggiare con queste tematiche il lato fiabesco della sua gente, ma non si accontenta di farne una mera trascrizione. Anche qui introduce elementi altamente autobiografici cui il contenuto popolano funge solo da paravento e da sfondo: 

Quand che l’istà a së slarga an sla campagna

e l’odor dël mentàss as més-cia ant l’aria

con ël profum dl’erbètta limonaria,

            as désvija ’l diauleri ch’am compagna. 

Faje bërgere, Oriss, Le masche, Ël servan dosano in vari modi il mitico e il fiabesco, con venature autobiografiche più o meno celate tra le quinte della sua mirabile orchestrazione di questi temi demotici.

Accanto al tema amoroso e a quello erotico troviamo il rimpianto per gli amori in erba (Prim frisson, Canson a temp ëd corenta dël cit servan ëd j’amson, Amor masnà) in cui il tono pericolosamente patetico e apparentemente dozzinale viene riscattato da sapienti dosature della componente campestre (odori di fieni, corse di bimbi, visioni solatie). Tra queste poesie si distende la lunga teoria di egloghe, serenade, canson, cioè il repertorio metrico e di genere più classico che, da un lato, palesa il serio tirocinio poetico dell’autore (la sua totale dimestichezza con ogni metro e tipo di composizione), dall’altro rivela la sua capacità onnivora di assimilare ogni genere, trasformandolo in quell’amalgama di modi e toni che sono solo suoi. E ciò in maniera sempre originalissima: 

Legion d’àngej ëd fiama a passo an cel

su strà d’òr e prà ’d viòle a l’orizont

dël Paradis: ant l’ora dël tramont

            che na cros ëd diamant lus daré un vel. 

Il nudo femminile come oggetto levigato, forma pura in movimento o statica, è pure oggetto delle sue attenzioni che si oggettivano in arte poetica assumendo modalità che oscillano tra il neoclassico (Sota j’euj d’òr) e il terragno più spontaneo e più icastico (Le tre patice), anche se lo stile metaforico-mitologico soccombe alle incursioni del poeta voyeur (Sèira ant ël bòsch): 

Pen-a surtia

da un bagn d’eva ’d fontan-a,

na ran-a

a të spìa:

të spìo ’d cò mi.

 

Vëdte patìcia

veul dì vëde la lun-a

ch’a smìcia

            tra j’erbo fiorì. 

È soprattutto il poeta civile, però, quello che canta i martiri della guerra civile (An mòrt d’un partisan alpin, Crist paisan, Stabat Mater) con toni non dissimili dal Llanto por la muerte de Ignacio di Garcìa Lorca, che si fa avanti come interprete, testimone e partecipe della tragedia dei suoi tempi (era – tra l’altro – amico del poeta spagnolo la cui tragica fine lo rattristò moltissimo). Olivero non fa misteri della sua visione apocalittica, sconsolata, del dramma nazionale: la guerra civile lascerà tracce indelebili nelle coscienze dei suoi connazionali. Mitiga il senso di assurdità del tutto invocando il tema a lui più caro, quello della libertà: 

An slë sfond invernengh ëd la campagna

– bianca-azura-ondolà parèj d’un mar –

l’erbo e tò còrp son ferm ant na mistà.

 

Ma un fil ëd sangh, dai tò pé rèidi, a sagna

ant ij sorch frèid come scalin d’autàr

            scaudand la smens dël gran dla Libertà. 

La libertà è, con l’amore, la magia, l’amicizia e la natura, uno dei cinque motori della poetica di Olivero.

Anche per la libertà le accezioni abbondano attraverso la produzione poetica di Olivero. Vi è, prima di tutto, una libertà individuale, precondizione alla creatività e alla vita stessa:                       

Mi son sempre stàit lìber come ’l vent

dij mar inmens e dle montagne ardìe.

Su j’ale tèise dle speranse mie

l’hai traversà pais e continent. 

Libertà diventa poi un valore civico, succhiato con il latte della balia e inculcato con l’abbecedario nei primissimi anni di scuola. Insomma, libertà come valore civico fondante: 

Sui mè papé dë scolé

’d zora mè banch e su j’èrbo

drinta la sàbia e ’n sla fuòca

mi scriv tò nòm

 

su tuti ij feuj già lezù

su tuti ij feuj ancor bianch

pera sangh papé sënner

mi scriv tò nòm 

Libertà infine come componente esistenziale, come ragione e religione di vita, senza la quale ogni periodica rigenerazione risulterebbe impossibile: 

Irt! ... Podèj seurte da ’sta vàuda ’d nita

dont a fongo ambrassà gòj e dolor.

E podèj frandé al cel un crij d’amor:

 

 – Oh torna, Libertà,

a tëmpré toa spa-cros ant un reu ’d fior.

Seure ’d Jeanne d’Arc, lussìfera ’d Nosgnor! 

Già nelle poesie d’amore c’imbattiamo nel tema dell’evasione : da questo mondo, da questa realtà, dai luoghi dell’incontro con la persona amata verso paesaggi inondati di luce e privi di forza di gravità. In questi mondi sublunari appaiono figure mitiche, grottesche, farsesche, favolose, come L’Uomo-Ippopotamo ne L’Ùltima neuit ëd Hàmed, o il vecchio marchese del Jus Primae Noctis, o Ël trionf ëd Don Juan, o 

Lady Godiva, bionda principëssa

dla Stòria inglëisa, che ’t l’has dàit l’onor

për salvé da la taja dël tò Sgnor

ël tò pòpol con na scomëssa. 

L’acuto spirito di osservazione di Olivero produce versi originalissimi in coincidenza con gli oggetti e le circostanze più disparate. È il caso de La cantada dël balon mondial (composta in occasione del campionato mondiale di calcio Italia '90), dello sguardo che cade Su la stàtua d’un-a morosa sconossùa d’Henry VIII, di un cuscinetto punta-aghi a forma di cuore, di una giornata di vento, di una lode in onore del pane, delle lacrime delle viole, di una madia, della Legione Straniera, delle capigliature delle donne, di un raggio di sole, delle parti del discorso per una grammatichetta piemontese, dei colori, della pesca nell’isola di Capri, di un bassorilievo funerario, di un pesco in fiore, del sonno, del fuoco fatuo, del tufo, delle raganelle pasquali, di un paio di scarponi, delle lucciole, del pane di granturco, delle rondini, delle cicale, di una sedia sola in mezzo ad un prato, delle parole di guerra, del nulla.

Non sono mai composizioni leziose o pretestuose, cucite su modelli letterari, ma considerazioni che dall’oggetto preso di mira si estendono a considerazioni sull’amore, sulla vita, sulla natura, sulla solitudine, sulla morte: 

J’oslin ëd fiama che ant le neuit d’istà

a tërlo tra le cros dij siminteri,

se mai cantèisso, a canterìo ij misteri

d’j’amor sugnà dai mòrt ann-amorà. 

Per le propria poesia non si fa la minima illusione. Una delle più rivelanti composizioni è intitolata Gnente ed è tutto dire: 

Gravé ant paròle ’d piomb la poesìa

për ij viv e për coj ch’a nasseran?

Òh, fadëssa! Rabèsch fàit da mie man

son ven-e ’d feuje al vent ch’a-j pòrta via.

 

I lo sai pro: j’é ’d valentòm ch’a san

eterné ’d seugn batì ’d pera scurpìa.

Mi nò. Mi scrivo la mia poesìa

sla fiòca e për ël sol che a la seurb pian. 

Anche la composizione Paròle an sl’eva ribadisce questa rassegnazione al passare rapido e immemore della sua opera poetica: 

Tut lòn che scrivo mi, l’é scrit an sl’eva

e am na fa gnente s’a-i resterà gnente

dle mie paròle, triste ò soridente,

ch’a nijo sota a la mia man tròp greva. 

Il tema reiterato è che le sue parole saranno riassorbite dalla neve che si scioglie o dall’acqua che scorre, cioè nate dal nulla, al nulla ritorneranno.

Un lieve recupero della propria opera poetica l’abbiamo in Róndola, dove la propria presenza, lui vivo, passa inosservata, ma in prosieguo di tempo sarà capita e rivalutata: 

Quand che i sarai pì nen

s’arcorzeran che j’era.

 

Róndola ’d primavera,

flecia ant ël cel seren,

mi sarai sot na pera

ti ant na fior sël teren:

ma vëddroma pì nen

nì ’l mond nì ij sò velen …

 

Ànima mia, legera

róndola ’d primavera! 

Uno dei temi più ricorrenti è quello della morte. Non è soltanto in occasione della morte di grandi personaggi del mondo della poesia (la bellissima prosa per Dino Campana o l’accorata composizione del Nino Costa) che emerge il tema della morte, ma esso fa capolino anche in poesie mitologiche, popolari, amorose, occasionali, come nella poesia dei colori, o quella dedicata al sonno, o alle parole di guerra. È soprattutto quando parla di tempo e di umanità alla deriva nel tempo che il tema della fragilità e della mortalità fa capolino: 

Mocoma lenga, man e pé ai Rìcord

(sumiòt giàun) con dë spà da samourai.

Sverginoma singh vèrgin ëd Sakai

e, sgorgiàndie ant sinch tasse fin-a ai bòrd,

 

brindoma al Dragh dël Temp ch’a l’ha ’ngojà

stanta mijiard d’omnèt borenfi ’d bòria:

travondendse, con lor, tuta la stòria

’d des mila sécoj ’d regn dl’umanità.

 

L’umanità che delirand a otransa

séguita a meuire, a nasse e a vive an guèra,

antossiand l’Aria e ampoazonand la Tèra,

mare dle smens, già Dea dl’Abondansa.

 

Ma ij mè quat amis vnu dal Nirvana,

cimpà ’l saké, m’amprendo la soa siensa

’d batì tra Vita e Mòrt un pont: n’inmensa

arcada ’d fior con l’art ëd l’ikebana. 

L’esotismo ci rivela fino in che misura Olivero abbia trasformato in sogno poetico anche i Paesi che ha effettivamente visto. In lui tutto doveva trasformarsi in una dimensione onirica anche nel momento stesso in cui dall’Islanda al Magreb contemplava, lui presente, i volti del pianeta. Scrive innumerevoli poesie su Paesi esotici, allora visitati da pochissimi, come Cuba, Hawaii, Messico, Argentina, Fiòrdane, Madèira, Haiku, Rio Rojo, ma soprattutto il deserto, che risveglia in lui crisi mistico-religiose, marce senza fine, desiderio di oasi, paura di morte: 

S’na canissa, nu, dëstèis,

al ruin dël sol d’istà,

veuj rësté con j’euj slargà:

marabut ch’a prega Allah,

còrp e spìrit sensa pèis.

 

E s’a va la carovan-a

con le s-cirpe rosse al vent,

mi la guardo indiferent:

la saluto con la ment

tant ch’as perd travers la pian-a. 

È in questo contesto che Olivero dà vita ai suoi audacissimi tentativi di appropriarsi di parole esotiche e di farle entrare nel linguaggio poetico piemontese: 

Son n’antìlope al lass, ch’a stenz dë sbeuj

croland an sël sò cheur grev come ’l mond.

Am gropo e arfranzo j’òss, më splin-o j’euj,

’d serp ëd vent furibond.

 

Simoun, rè dij serpent dl’Àfrica nèira,

jë stan-a dai rantan, da le boscaje:

’d sìfoj ’d bambou sifland, a jë sbërgèira

ant bamboule sarvaje. 

 E poi ci sono le danzatrici con le danze di tutti i Paesi, le donne in carne e ossa mescolate con le donne-mito, come Joséphine Baker, Sherazade, Mabruka, la regina di Saba, ciascuna immersa in un suo ritmo, in un suo speciale, nenioso sfondo musicale.

Il tema religioso è però quello che vede esplodere in mille direzioni diverse l’incredibile personalità di Luigi Olivero: vi sono rosari, Madonne del deserto, angeli in croce, santi, presepi, dies irae, preghiere del sangue, talismani, orazioni, pater, ma soprattutto l’emergere di una religione tutta sua, quella della creatività, della fede poetica, della fiducia senza fine nella forza della parola. La sua vera religione è l’esistenzialismo della parola che costantemente riprende, plasma e ripropone il mistero della vita. Dirà di sé stesso: 

            L’hai piorà tròp da quand che son al mond.

            Òh! ... Piorà come un mas-cc a peul pioré:

            sensa làcrime e sensa stravanié,

            ma con ël cheur ch’a sagna ant ël profond. 

E rincarerà la dose vedendosi vagabondo agli incroci di tutte le strade: 

An sël mè cheur gorègn ëd vagabond

j’era la póver dlë strà ’d tut ël mond.

Amor m’ha batù ’l cheur con un tërfeuj

            e cola póver l’é volarne ant j’euj. 

Cerca di celiare sul proprio modo di essere con lunghe composizioni come la Sirventèisa dël Novod d’Olivier, ma la verità la si trova in altri versi, tra nostalgia e consuntivo doloroso: 

L’avìa na front  dovèrta come ’l feuj

d’un lìber ancor bianch doa che ’l destin

l’avrìa peui scribacià – con un piumin

            meujà ’d velen – tut lòn che sai ancheuj. 

E meglio che da qualsiasi altra parte nei versi ch’egli dedica al suo quarantesimo compleanno: 

Blòch ëd pera sarvaja, vita mia,

che l’hai scurpì con lë scopel d’assel

dël mè coragi batù dal martel

            dla volontà ’n cadanse d’armonìa. 

In uno dei suoi più bei canti alla Primavera s’intrecciano bellezza del creato, amore, morte, illusioni, presente, passato: 

Fin-a ’l git dla fontan-a, a tò passage,

a s’inchin-a con grassia ’d nans a ti

con në svantaj ëd perle e un bianch merlì

’d nébie che, al vent, a scumo an sël feujage.

 

Fin-a le feuje dël persié fiorì

at vòlo ancontra, tënnre, con n’airage

ëd parpajòle reuse, a fé romiage

’ntorn a toa testa bionda. E a canto ij nì.

 

E at canto ij nì una mùsica ’d bësbij

antërsija tra ij ragg dël sol e ij fij

dl’ària sbogià, ’nt ël pass, da la toa vesta.

 

Ò madonin-a con ël cheur an festa!

Ò Primavera dle canson d’amor

            che ’t pòrte, an sen, un cit mòrt. Mè dolor. 

È in poesie come Ël gorgh e Ven l’ora che si gioca l’esistenzialismo nudo di questo grande pensatore che molte, moltissime volte si è nascosto dietro a versi bellissimi, ma scritti come rifugio, come paravento. La sua vera poesia è quella in cui riflette, liricamente, melodiosamente, ma anche sconsolatamente, sul senso dell’esistere: 

E peui as meuir: e tut l’é stàit për finta.

Crij dl’ànima e dla carn ... amor ... bataje ...

Frisson ëd pèss fluvèt passà ’nt le maje

’d na rèj che gnente a l’é restaje andrinta.

 

Làcrime d’onda e un cit lusor dë scaje.

E ’l gorgh slusiss d’euj fiss che a-j nijo drinta

e a vira, a vira: e, an fond, as vèd la grinta

giàuna dla Mòrt ant n’arbeuj d’èrbe giaje.

 

La Mòrt ch’a speta e che ni rij ni piora

përchè a sà d’essi un’ombra sota j’ombre

’d j’eve dl’eternità che a sghijo sombre.

 

Ch’a sghijo garghe, larghe, come j’ore

dla neuja eterna ’d Nòna Mòrt: an fond

            al gorgh dij seugn e dij rifless dël mond. 

Sono quelle acque dell’eternità che scorrono oscure che piacciono di meno ai critici che mal si ravvisano davanti a parole di questa forza dette in un “dialetto”; è quel rimanere confusi su cosa dire e sul concedere spazi molto più ampi al poetare in lingue altre che quella nazionale che la figura di Olivero diventa estremamente problematica e, in fondo, scomoda. È quando in composizioni con versi di 17 sillabe, come Elegìa për un fil d’erba ci si imbatte in versi come L’òm l’é un nisi fil d’èrba ch’a seugna ’l seugn fòl d’essi un erbo, ma che a craselo basta una ramà ’d pieuva che non si sa più come incasellarlo, perché per dire chi era bisognerebbe ridefinire lo spazio e l’essenza della poesia dialettale e abbandonare canoni funzionanti già da decenni per tanta poesia regionale, ma – ahimè – non per questa. E non meno problematiche sono composizioni lepide, scherzose e pur tanto impegnative e serie come l’Epicedion per i suoi dodici gatti morti.

Invece bisogna avere il coraggio di visitare composizioni come De Profundis 

D’zora le eufòrbie e tra ij motass dl’ «hammada»

la neuit a bogia; as serca un reul ëd sabia,

squase a taston, come a schivé la rabia

dël teren e ij cotej ’d sa serenada.

 

Ma su la pnà dl’odor ëd carn uman-a

ij dent dle jene as mòlo ant una rijada

longa, insistenta, scantirà an sl’ «hammada»

aranda ai feu dëstiss dle carovan-e.

 

Contra ij montruch ëd pere e su le spin-e

dij fi sarvaj, tramez le fèils giaunisse

brusà dal sol, la neuit a piora stisse

            ’d disperassion su nòstre teste chin-e. 

e riformulare da qui, al di là di ogni considerazione di attualità o di eccellenza poetica, qual è stata la poetica di questo cantore ostinatamente dialettofono, vedere perché una tale latitudine di temi manca dalle tavolozze degli altri poeti dialettali, scavare oltre la lingua e giungere ad un giudizio che è l’essenza ultima di ogni critica letteraria: era poeta e, se sì, di quale portanza, di quale originalità, di quale eccellenza? 

È quanto cercheremo di stabilire nella prefazione ai due volumi delle sue poesie, riprendendo quanto qui già avviato, ma ben lungi dall’essere conclusivo davanti a tanta materia di canto e di autoconfessione. Che è poi anche un inno alla libertà: quella di essere sé stessi, nella propria vera lingua, senza il letto di Procuste di poetiche prefabbricate per sottrarsi alle quali si dice assai di meno del dovuto, per non cadere nel banale o per non tacere del tutto.

Olivero ha scelto la via opposta, ma condannarlo all’ostracismo critico solo perché non ha composto i propri versi in italiano è ingiusto e getta più luce su chi lo ignora che su di lui, ignorato.

Bisogna avere il coraggio di rifare i percorsi critici, chiamando in causa le poetiche nazionali e internazionali. E se il coraggio non basta, basterà la pazienza e l’amore di equità. 

Sergio Maria Gilardino

Dins la valaddo prouvençale de Sancto Lucìo de la Coumboscuro

Domenica, il 9 gennaio del 2011. 

N O T E 

1      Le date di pubblicazione delle quattro riviste sono le seguenti:

        Ël Tòr: Arvista lìbera dij Piemontèis, Quindicinale, Roma, 1945-1946. Numeri da 1 a 30 più un numero doppio, 31/32, il 15 dicembre 1948 – 1 gennaio 1949;

        Il Garibaldi: Arte Costume Storia Turismo delle Regioni d’Italia e del Mondo Latino, Quindicinale, Roma, 1952. Uscì per sei numeri dal 15 maggio;

        Poesia dialettale (Roma 1956-1961)

        La Fiera dialettale (Roma, 1970). 

2      Paiono esservi differenze tra le date di stesura e di pubblicazione. Lo studioso Giovanni Delfino ci fornisce, per le pubblicazioni, i seguenti dati:

        1941: Babilonia stellata, Ceschina Editore, Milano. Tre edizioni, più una quarta del 1943, notevolmente ampliata. Saggio sugli usi e costumi americani visti con occhio profondamente critico. La quarta edizione, ampliata con la collaborazione dell’amico Ezra Pound, presenta alcuni nuovi capitoli con feroci accuse alla politica economica americana sulla falsariga del pensiero di Pound. Traduzione tedesca: Babylon unter Davidsternen und Zuchthausstreifen (letteralmente Babilonia sotto stelle di Davide e strisce di galera) di Johann Von Leers, Runge, Berlino 1944.

        1945: Turchia senza harem, Donatello De Luigi, Roma. Saggio ancora molto attuale sugli usi e costumi della Turchia ai tempi della modernizzazione portata avanti da Kemal Ataturk. Traduzione inglese di Ivy Warren Turkey without Harems MacDonald & Co., Londra 1952. In Italia tirò 950.000 copie.

        1946: Adamo ed Eva in America. Alla vigilia del secondo diluvio universale, L’Atlantica Editrice, Roma. (Traduzione inglese di Ivy Warren: Adam and Eve in America, MacDonald & Co., Londra 1951. Traduzione tedesca di Otto Muller America total Plem Plem? (America totalmente sempliciotta, o ingenua, o pazza?) a puntate sulla rivista Herz Dame, Düsseldorf 1952). Saggio romanzato di vita americana. All’atto dell’edizione inglese in Italia aveva tirato già 635.000 copie. 

3      Olivero ha scritto di avere composto oltre 1000 poesie. Con lungo lavoro di ricerca Giovanni Delfino ne ha rintracciate 529. 

4      Sinfonìa d’una neuit d’Invern, Sinfonìa d’una neuit ëd Primavera, Sinfonìa d’una neuit d’Istà, Sinfonìa d’una neuit d’Otonn, di circa 100 versi l’una non sono tra le composizioni più lunghe. La sirventèisa dël nevod d’Olivé, la canzone alla Legione Straniera, le varie Cantade, sono assai più lunghe e superano in certi casi anche i 200 versi. 

5      Nel 1926 un suo libricino di poesie in italiano viene premiato in un concorso organizzato da L’Illustrazione Nazionale di Bologna. 

6      Per quanto riguarda la speciosa distinzione tra lingua e dialetto ci rifacciamo ad un nostro saggio anteriore in cui affermavamo:

        Lingua è quello che la storia ci ha consegnato.

        Tutte le lingue parlate dai popoli della terra per centinaia, a volte migliaia di anni, tutte le lingue che sono servite a tutte le necessità di quei popoli ben prima dell’arrivo di lingue forti, sono lingue. È il cumulo di parole e di campi semantici in ogni parola che fa una lingua. Ogni parola corrisponde ad un oggetto, ad un atto, ad una situazione creati e vissuti nella storia di quel popolo. Lingua quella degli algonchini come quella dei mercanti fiorentini, lingua quella dei walser come quella dei traders newyorkesi, lingua quella delle truppe e degli ufficiali piemontesi a Magenta e a Solferino come quella dei marines a Okinawa.

        Che poi molte di quelle lingue non siano diventate lingue ufficiali, o prestigiosi veicoli letterari, che siano rimaste emarginate e che – di conseguenza – siano oggigiorno solo più parlate in forma residuale, non vuole dire che non sono lingue. Se mai non sono più utilizzate come lingue totali, ma dietro a quelle poche parole che rimangono ci sono le diecine di migliaia di parole che ogni popolo nei secoli immancabilmente ha accumulato.

        È questo accumulo di parole nel corso dei secoli che conta. Quello è il tesoro di base. Tutte le lingue, ufficiali o no, sono partite da quel nucleo. Del tutto infondato pensare che ci siano nuclei storici più cospicui di altri: ogni popolo ha registrato la propria storia nella propria lingua. Se non ci fossero state certe esperienze, certe tecniche, certe difficoltà, certi percorsi, non ci sarebbero certe parole. Un popolo litoraneo, migrato verso territori di montagna, dopo una generazione diventa un popolo di montanari. Certe parole muoiono, certe parole nascono. I processi di neologia spontanea (come il modo eschimese di chiamare una mela o un’arancia) sono tra i più affascinanti. Ma anche le parole che spariscono lasciano sempre delle tracce, a volte in un modo di dire, altre in un avverbio e in un proverbio. La somma finale è la storia di quel popolo. Certo è che nessuno “nasce qualcosa”; tutti diventano “qualcosa”. Per questo le parole di ciascun popolo sono uniche, ma i pilastri su cui si regge la creazione dei campi semantici fisici e metafisici di ogni parlata sono equivalenti.

        Da questo punto di vista tutti i popoli e tutte le lingue sono uguali.

        [...]

        Una lingua locale, quando passa dalla bocca dei parlanti alla penna di un grande poeta, si arricchisce ipso facto attraverso complessi processi di diastratia, diacronia e diatopia, per cui una lingua scritta è sempre lingua e non più lingua locale, ma universale.

        L’universalità della lingua locale non dipende dal fatto che essa voglia valicare i confini della regione, ma dal fatto che veicola eccellenza poetica. Nel momento in cui una lingua diventa portatrice di grande poesia l’incombenza di capirla non è più di chi ha creato quella poesia, ma del critico-lettore.

        [Sergio M. Gilardino, La poesia della terra, inedito] 

7      Giuseppe Macrì, Gabriele Cena, Orfeo Tamburi, Giovanni Consolazione, Gregorio Prieto, Johan Castberg, Eugenio Dragutescu, Josè Escassi, Sergei Horn, Henri Matisse sono alcuni degli artisti che hanno illustrato le sue opere poetiche. Ve ne sono diecine d’altri sparsi nelle varie riviste. 

8      Sodalizio nato a Torino nel 1927 e fondato sul principio di poetare in lingua regionale ma non di soli argomenti regionali, insomma sul presupposto di sprovincializzare la poesia in piemontese. Produsse grandi maestri di eccezionale levatura artistica e letteraria sull’arco di ben tre generazioni. Il caposcuola fu Pinin Pacòt che redasse pure i principali articoli nella rivista Ij Brandé. 

9      1971 Icilio Petrone: «La lingua piemontese e la rivoluzione permanente della poesia di Luigi Olivero», Prefazione-intervista a Rondò dle masche L’Alcyone Roma: “Il dialetto piemontese è una lingua allo stesso modo che un pollaio è la Mole Antonelliana, un paracarro è la piramide di Cheope, un grappolo di ribes è l’Orsa Maggiore, un pizzico di piselli è una broche di smeraldi, un armadio da cucina è la porta maggiore della basilica di San Pietro, uno stuzzicadenti è la Colonna Traiana, un culbianco è un’aquila reale.” 

10     L’elegante volumetto Ij Faunèt contiene 69 poesie, una prefazione “Luigi Olivero ou de la céleste anarchie” di Alex Alexis (Pseudonimo di Luigi Alessio, poeta, scrittore, giornalista, editore da Caramagna Piemonte TO). Secondo lo studioso Giovanni Delfino, dalla cui biografia di Olivero sono tratte queste note, solo 17 poesie risultano pubblicate qui per la prima volta. Tutte le poesie hanno traduzione italiana di Clemente Fusero, traduzione francese del poeta corso Anton Francesco Filippini e della scrittrice belga Simone Blavier (la sola poesia Crocifission an reusa).

Giuseppe Macrì

Giuseppe Macrì ~ Caricature di Luigi Olivero

da Ij faunèt (1955)

 

Sergio Maria Gilardino

 Scelta di articoli, dal titolo generale Provenzale, pubblicati su La Stampa di Torino, edizione per la provincia di Cuneo, dal 2009 al 2012

   sgilardino@libero.it

 

La lingua dei giovani e il dialetto degli anziani 

28-04-2009, STAMPA, CUNEO, pag.64 

Quante parole ha una lingua? Dipende molto da come si contano: «squadra» può voler dire «insieme di individui che lavorano ad un fine comune» ovvero «attrezzo da disegnatore» ovvero ancora «egli/ella squadra» nel senso di «mette in un certo ordine» oppure «guarda con intensità». Per non parlare poi di «capitano» che, a seconda dell’accento tonico, può voler dire «capitano certe cose», cioè «succedono», oppure «capitano», nel senso di «ufficiale militare», oppure «capitanò», cioè «comandò». Poi ci sono le parole prefissate («deridere-sorridere-ridere») e suffissate («parlargli-parlarle-parlarti»), i verbi coniugati nei vari tempi e voci (con i passati remoti desueti ed irregolari) e l’incredibile numero di sigle, acronimi, parole composte (con o senza trattino), parole latine e greche tutt’ora in uso, gergo dei giovani, neologismi del momento. Per non parlare poi di lingue come l’inglese in cui una e la stessa parola può essere nome, verbo, aggettivo e avverbio, come «fast» che può voler dire «veloce» ma anche l’opposto («fast bound» = «legato stretto stretto» e quindi «non si muove affatto»), «quasi», «digiuno», «stretto», «affatto» o una parola come «set» che nell’Oxford English Dictionary conta per ben 60.000 parole, con 47 diversi lemmi. Ma se usiamo quel «common sense», e diciamo che «casa» è una parola e «cielo» un’altra, e ci accontentiamo di tanto, possiamo arrivare a dei numeri più attendibili per rispondere alla domanda iniziale. Il Grande Battaglia (il nostro Oxford per intenderci) ne elenca più di 400.000 e all’incirca altrettanti ne elencano Le Grand Larousse, il Grimm Worterbuch e lo Slovàr Rùsskovo Jazykà Pùshkina per il francese, tedesco e russo. E i giovani? La loro lingua quotidiana è poco influenzata dall’ «alto» (non si appropriano più del lessico letterario o scientifico) e ancor meno dall’«esterno» (non sanno il nome di alberi, piante, fiori, pesci, certi animali locali, granaglie, macchine, formazioni di nuvole, tipo di venti). La realtà è che di quelle 400.000 parole ne usano si e no 4.000 (anche per adattarsi al linguaggio dei telefonini e degli sms). Altro è il caso del «dialetto» degli anziani, che fornivano senza esitare il nome di tutti i prodotti agricoli, di tutti gli animali, piante, cespugli, fiori, frutti, tipi di legna, di tutti gli attrezzi, di tutte le operazioni di agricoltura, zootecnia. Nella compilazione del dizionario della lingua germanica dei Walser (intorno al Monte Rosa) gli anziani hanno fornito a memoria, senza l’ausilio di nessun testo, 40.000 parole. Sono dieci volte il numero delle parole utilizzate dai giovani che parlano prestigiose lingue letterarie come l’inglese, il francese, il tedesco, l’italiano, lo spagnolo o il russo. E quante ve ne sono nella prima (in ordine di tempo) lingua letteraria d’Europa, il provenzale? È quanto cercano di scoprire 15 vallate dove questa lingua è tutt’ora parlata (15 in Piemonte, di cui 10 nel Cuneese).

  

Cinquantamila anni fa iniziammo a parlare 

17-06-2009, STAMPA, CUNEO, pag.73 

Alcuni studiosi (paleoantropologi e paleolinguisti, cioè gente che studia i primordi della specie umana e le lingue più antiche della terra) dicono che abbiamo cominciato a balbutire, bofonchiare, grufolare «significativamente» qualcosa come 150.000 anni fa. Poi con la postura eretta, l’abbassamento della laringe e la curvatura a «L» dell’apparato fonetico «laringe-faringe-gola», abbiamo via via cominciato ad emettere suoni più complessi. Ma che è stato solo 50. 000 anni fa che abbiamo cominciato a parlare come parlano adesso quelli che col telefonino all’orecchio passano distrattamente sotto i portici andando chissà dove. Naturalmente non tutte le parti del discorso non nate allo stesso tempo. Forse prima è nato il nome delle cose (Adamo, richiesto dal Creatore, dice il nome di tutte le cose che gli sono portate davanti: il testo del Genesi non precisa purtroppo da dove abbia preso i fonemi per chiamare le cose in un modo piuttosto che in un altro. Eva, comunque, sembra voglia dire «acqua», ed è pertanto una dea della fertilità: e fin lì il nostro «padrin» l’ha azzeccata giusta). Poi sono venute le qualità: caldo, freddo, buono, cattivo. Poi la facoltà di esprimere azioni, e cioè i verbi. E infine la messa a punto, cioè gli avverbi, che sono finezze, chicche da parigini. E i pronomi, come «io», «tu», o i possessivi, come «mio», «tuo»? Sono da infilare in mezzo alle ultime due parti del discorso, in ordine di tempo e di importanza, ma lì gli antropologi stanno ancora bisticciando e noi li lasciamo bisticciare. Una cosa è certa: 50.000 anni fa sono arrivate le prime pitture rupestri, i primi attrezzi fatti con materiali d’importazione, le prime grandi migrazioni e indovinate un po’? I primi grandi scontri organizzati tra esseri umani, cioè le guerre. Sembra anzi che quelli che hanno per primi messo a punto l’arte di modulare la voce una trentina di volte al secondo hanno fatto fuori una razza di giganti (estintasi circa 30.000 anni fa), grandi il doppio di loro, che erano mingherlini, ma come dice un vecchio proverbio piemontese «grand e gròss, ciola mè ’n tòch ’d bòsch», e i giganti sono spariti, mentre i mingherlini chiacchierini sono rimasti. Che poi siamo noi, col telefonino sotto i portici. Morale della favola? Mentre gli studiosi di tante diverse discipline cercano di isolare, con esami del Dna, l’Eva mitocondriaca, cioè la madre di tutti i parlanti (sembra fosse vissuta 170.000 anni fa e che tutti gli abitanti attuali della terra discendano da questa comune madre), state bene attenti a mai chiamare «badòla» il vostro prossimo: potrebbe girarsi e come i nanerottoli di 50.000 anni fa che hanno fatto fuori i giganti della terra, eliminarvi con una delle 300.000 decisioni al minuto di cui è capace il cervello umano. Che peccato, però, che venga impiegato così di rado in tutta la sua mirabolante capacità e che, quando lo è, è soprattutto per guerre e truffe.  

Le lingue, segmenti di storia dell’umanità

 24-07-2009, STAMPA, CUNEO, pag.58 

Quelli che lavorano chiusi in cabine con cuffie e microfoni sono gli unici interpreti simultanei? No. Ci sono anche i multilingui, quelli che nascono e crescono in un ambiente in cui si parlano varie lingue, che mentalmente si chiedono ad ogni pie’ sospinto: «Adesso come direi questo nell’altra lingua?» oppure «Come direi quello che costui ha appena detto nella mia lingua?». Ci sono anche i bimbi di Coumboscuro, che quando il professore giunto dal Canada viene a fare la solita chiacchierata settimanale in inglese si piegano amorevolmente sull’orecchio dei più piccini e bisbigliano loro quello che lo straniero dice in lingua stramba (parlano francese, provenzale, italiano e piemontese: l’inglese è l’ultima aggiunta). Anche loro, come i bimbi di tanti piccoli Paesi al mondo, fanno – da bravi volontari – il mestiere di interpreti simultanei. Che è anche quello di portare comprensione tra gli uomini e creare un’alternativa preziosa che si chiama pace. È un ottimo esercizio, linguistico e morale, nel quale dovrebbero cimentarsi un po’ più spesso quelli che non capiscono il perché delle piccole lingue e che cercano di costruire la pace con le leggi, anziché con le parole che parlano al cuore. Per chi si chiedesse a che vale imparare una lingua ancestrale, una lingua parlata ormai solo più da poche centinaia di anziani e del tutto inadatta alla comunicazione extra-regionale, la spiegazione non è tanto semplice. Io spero solo che, se non sarà convincente per tutti, lo sia almeno per alcuni. Ogni lingua è un segmento di storia dell’umanità. Contiene parole uniche che rivelano il modo di vita di un popolo attraverso i secoli: quelle parole sono il fedele registro dei suoi gesti, delle sue conoscenze, dei suoi stanziamenti, delle lotte per la sopravvivenza, dell’amore per la vita. Imparare una lingua ancestrale significa appropriarsi della storia intima di quel popolo. Significa anche appropriarsi della storia intima di tutta l’umanità, indipendentemente dalle etnìe, prima che la massificazione la rendesse amorfa e anonima. Per chi, invece, impara una delle grandi lingue planetarie, il caso è opposto: comunica con centinaia di milioni di persone, ma dice più o meno le stesse cose che direbbe nella propria lingua. Un italiano che impara il tedesco o l’inglese o il russo si chiede per prima cosa: «Come si dice questo in ... ». In altre parole, «come traspongo la mia frase, la mia domanda, il mio modo di essere e di pensare» in quell’altra lingua. Non gli passa neppure per il capo che quelle domande, quelle motivazioni, quel modo di pensare potrebbero anche non avere un riscontro nell’altra lingua. O averne uno diverso. Lo prende invece per scontato: vuole solo essere un italiano capito da un tedesco, da un inglese, da un russo. Così come si chiede se troverà il caffè espresso o il cappuccino anche negli Usa, in Argentina o in Sudafrica ed è contrariato quando si accorge che ci sono, ma non come a casa. Non rinuncia a sé stesso, alla propria mentalità e cultura. Il suo scopo non è «capire», ma «farsi capire», non è la formazione, ma l’informazione.  

Le lingue ancestrali? Sono delle ‘‘boutiques’’ 

29-07-2009, STAMPA, CUNEO, pag.59 

Alla base di ogni scambio linguistico, dal tempo dei tempi, vi sono culture e beni. Se vengono meno le specificità culturali e l’urgenza di scambiare beni unici, viene meno l’idiomaticità della lingua. Occorrono meno parole, quando poi ne occorrono affatto. Pertanto, se i giovani usano sempre meno parole non è colpa solo delle scuole. È perché la società e, di riflesso, essi stessi, adottano una visione del mondo in cui la lingua è sempre meno necessaria: da qui il numero più ristretto e più rudimentale delle parole utilizzate. Rimane da vedere se la loro umanità può sopravvivere anche senza lingua, o se invece questa Weltanschauung, questa concezione del mondo, porterà a lingue dimezzate. Nel primo caso siamo davanti ad un fatto nuovo, nel secondo ad una regressione senza precedenti. Il qualunquismo delle culture e delle superlingue che le veicolano è comunque la caratteristica saliente dei nostri tempi. Ciò è talmente vero che i locutori di lingue internazionali sono pervasi dal terrore di non essere ai tempi con gli altri e prendono a prestito, scriteriatamente, mode, indumenti, aggeggi, atteggiamenti e, con questi, le parole straniere per denominarli. Prendono a prestito parole da tutti, a ritmi vertiginosi, poco o punto rispettosi degli equilibri lessicali delle proprie lingue. Le privano della loro innata capacità neologica, oltre che del loro equilibrio fonetico e lessicale. Raro è il caso di chi supera gli stadi iniziali e approfondisce una lingua straniera fino al punto da sviscerare per ogni parola gli etimi più reconditi e arricchire così sé stesso fino a diventare «altro» da quel che era prima, ovvero un italiano «molto più ricco» di quel che sarebbe rimasto con i soli apporti della lingua e della cultura italiana. Chi fa quei progressi studia una lingua internazionale come se fosse una lingua ancestrale. Le lingue internazionali e la mentalità di chi le studia sono come i supermercati nei quali siamo oramai abituati a fare la spesa. Che ci si trovi in Germania, in Francia, in Italia, in Spagna o in Grecia, in questi oceani del consumismo di veramente specifico o diverso c’è poco, pochissimo. Neppure le etichette cambiano. Le lingue sulle confezioni oramai sono quelle e le stesse: pasta, caffè decaffeinato, saponi, marmellate, deodoranti e jeans portano tutti gli stessi avvisi, tempi di cottura, istruzioni per l’uso, messe in guardia su usi e abusi, in una dozzina di idiomi EU e africani. Misure con le bandierine per ricordarti che sei in sovrappeso in tutte le lingue. Com’erano questi Paesi prima dell’era della globalizzazione? Quali erano i loro usi, prodotti tipici, tradizioni? Quali erano le loro parole uniche? Non è certo da un supermercato che lo apprenderemo. Le lingue ancestrali, come il Titzschu (ma potremmo metterci nel novero anche il provenzale, il Franco-provenzale e il Piemontese), non sono dei supermercati. Sono delle «boutiques» altamente specializzate, che offrono solo prodotti esclusivi, non reperibili altrove.  

Lingue che comunicano con l’anima del mondo

 12-08-2009, STAMPA, CUNEO, pag.59

 Chi ha una lingua ancestrale non verrà assimilato, non verrà acculturato, non verrà ammutolito. Non sarà sempre amato, ma a lungo andare sarà rispettato. Se tiene duro, sarà anche riconosciuto. In Italia è molto più scomodo qualcuno che parla compiutamente una lingua ancestrale che non chi parla una o più lingue estere. Le scuole di montagna, con le loro lingue ancestrali che non muoiono, costituiscono un problema. Quelle di città, con problemi di erosione linguistica senza precedenti, no. Le scuole di Stato hanno sempre una o più caselle disponibili per le lingue straniere, nessuna per quelle ancestrali. L’opinione pubblica ammira chi parla le prime, di rado approva chi parla le seconde. Molti si scusano di non parlare più il dialetto dei loro genitori, ma in cuor loro non ne sono poi tanto spiaciuti. Se lo fossero, già avrebbero percorso le tappe del recupero ancestrale. I critici lodano chi fa buona poesia in dialetto, ma rimpiangono che non l’abbia fatto in lingua. Le Università insegnano a comunicare con gli altri popoli, ma non con il proprio. Si direbbe quasi che abbiano paura della storia e imbarazzo del passato. Peccato, perché quel passato è ricchezza e quella storia è la chiave dell’avvenire. Le lingue ancestrali non servono dunque a comunicare con l’esterno, ma con l’interno, non con il mondo, ma con l’anima del mondo, non a dividere l’umanità, ma a penetrarne gli intimi segreti. Di solito si imparano prima le lingue della terra, poi quelle del cuore. Prima si rincorrono le grandi lingue del prestigio finanziario, sociale, politico, poi, se si ha ancora fiato, si perseguono le lingue dei segreti ancestrali. Beati i maratoneti dello spirito. Il provenzale è una lingua da maratoneti dello spirito. Ve ne sono altre 5.999. Quelli che la studiano hanno già fatto una scelta. Gli altri, se la faranno, sanno d’anticipo che la loro sarà altrettanto valida. Rimane solo da augurarci che così come per questa lingua si compila un grande dizionario storico-enciclopedico, così possano nascerne altrettanti, e di migliori, per ogni lingua periclitante: perché se ci fossero questi strumenti di studio per ogni lingua in via di sparizione si salverebbe la parte più preziosa dell’esperienza umana e si darebbe a tutti, anche a coloro venuti da tanto lontano alla festa di nozze, la possibilità di parteciparvi come convitati d’onore. L’alternativa, purtroppo, è il silenzio. Il silenzio nonostante le grandi lingue internazionali. Le grandi lingue che possono dire tutto a tutti e che invece dicono sempre di meno a sempre più pochi.  

Le cinque lingue parlate in Piemonte 

02-09-2009, STAMPA, CUNEO, pag.58 

Ma quante lingue parla questo nostro caro e bel Piemonte? Per dare una risposta a questa domanda bisognerebbe fare, d’anticipo, una precisazione: tutte quelle parlate che si sentono nei paesini di campagna o su per le vallate alpine, intorno al Monviso o al Monte Rosa, non sono «dialetti» dell’italiano. L’avevamo già detto in una nostra precedente chiacchierata: i dialetti sono forme più colloquiali di una stessa lingua. Quelli che invece sentiamo in giro per il Piemonte sono idiomi di tutt’altra origine che il toscano. Saranno, è vero, ridotti a livello di parlate impoverite, ma dialetti nel senso tecnico della parola non lo sono. Sono lingue, di antichissima origine, a volte sassone, a volte transalpina o, per il piemontese, doc come i suoi vini o il suo riso: nato e cresciuto sui colli o nelle basse della pianura. Ebbene, tra piemontese, francese, franco-provenzale, provenzale e tedesco-walser arriviamo a cinque lingue, il che – come numero almeno – ci pone in testa a qualsiasi altra regione d’Italia. Perché tanta varietà? Per rispondere bisogna considerare la geofisica di questa straordinaria regione: a volte, in macchina, si arriva dalla pianura più risaiola fino alle pendici rocciose delle Alpi dove, d’improvviso, ci si arrampica per scoscese strade di montagna per arrivare oltre i mille metri di quota in pochi chilometri. Le parti pianeggianti del Piemonte sono sempre state percorso obbligatorio tra mare e monti, tra bassa Padania e Francia, tra Savona-Genova e Savoia-Svizzera: territorio di crocevia, di incontro-scontro di popoli, razze, lingue, merci ed eserciti. Poi, nelle alte vallate tutt’attorno, quelle che non offrono né valico, né sbocco, il silenzio e l’isolamento: accanto al mondano, al trafficato, al conquistato o al perduto, spesso visibile e quasi palpabile dall’alto, ecco i luoghi remoti, appartati, immutati e immutabili. Lingue trobadoriche, carolinge, che in basso, nelle borgate d’ibridazione, danno e ricevono parole da lingue di più grande veicolazione. È poi fatta così anche la personalità dei piemontesi: imprenditori audaci e bogianen ad uno stesso tempo, capaci di erigere possenti industrie e rimanere poi ritrosamente chiusi in sè, cultori fino allo scrupolo della lingua nazionale, ma sempre in grado - al momento oppurtuno - di sfoggiare una frase in perfetto piemontese, o provenzale, o walser. Basta guardare a Vittorio Alfieri, che si fece correggere - parola per parola - l’edizione senese delle sue tragedie dall’abate padovano Melchiorre Cesarotti, arbiter elegantiarum di ogni finezza linguistica, per poi comporre nella più totale scioltezza due sonetti in piemontese, sfoggiando la grafia classica di Maurizio Pipino. Viviamo, noi piemontesi, questo contrasto tra isolamento e internazionalità, tra lingue del mondo e lingue dei vecchi, non solo nella nostra svariata concrezione sociale, ma in ciascuno di noi, nell’intimità della propria persona e della propria cultura. 

C’è voglia d’imparare la lingua dei propri avi 

16-09-2009, STAMPA, CUNEO, pag.66 

I piemontesi che ancora parlano una lingua nobile, come il sabaudo, il provenzale, il francese, il walser-deutsch, non lo fanno mai in pubblico, verecondi come donzelle al primo ballo a corte: né c’è modo di capire perché tanta ritrosia, quando si pensa che in quelle lingue si sono combattute battaglie di religione, di risorgimento, di industria, di grande poesia. E l’altro guaio, che viene a catena e a ridosso di questo, è che i figli sempre meno sembrano eloquire nelle lingue dei padri. Ma qualche segno di resipiscenza c’è. Qualche timido segnale di ripresa si fa sentire. Nelle scuole di montagna, là dove nei secoli passati è nato lo stato sabaudo e si è temprato il suo spirito di caparbia indipendenza, sempre più giovani si iscrivono ai corsi del difficile Titzschu, la lingua dei Walser, e in quelle provenzali, che mai hanno abbandonato la dolcissima lingua dei cugini rodaniani, sempre più bimbi e ragazzi imparano a scrivere versi e racconti in questa lingua che diede i natali alla letterarietà europea dopo la notte del medioevo. Nella Granda, che meglio e più popolarmente parla il piemontese di qualsiasi altra provincia, gli iscritti ai corsi di lingua piemontese crescono di anno in anno. Non sarà magari la variante locale di piemontese e i testi letterari usati per esemplarla saranno anche incipriati di antico torinese, ma è pur sempre lingua degli avi, dei nonni, e ora - il Cielo lo voglia - dei nipoti. Sarà come sarà, ma i piemontesi le cose le sanno fare solo in grande: dalle guerre d’indipendenza alle industrie che dettano legge su scala mondiale, le cose del cuore le esibiscono solo con ponderata riservatezza. Come i costumi folclorici, come le auto d’epoca, come la religiosità delle feste patronali che sfoggiano solo in occasioni solenni: bisogna prima conquistarne, lentamente, pazientemente, la fiducia per sentirli eloquire in una delle loro cinque lingue, quelle cinque lingue che li differenziano da tutte le altre popolazioni d’Italia e che, a esse sole, bastano a farli conversare, senza soverchia difficoltà, con i popoli dell’Europa occidentale. Che è come dire che sono già rivolti verso l’avvenire, se solo si decidessero a non scordarsi del passato. Ma vale poi la pena, con 5.900 lingue ancora parlate attorno al mondo, di affaticarsi tanto per rivitalizzare lingue morenti o addirittura risuscitarne una dopo secoli di silenzio? Le lingue, dopotutto, possono essere esportate (vedasi l’inglese in Canada, Usa, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica) e dove non ci sono più lingue aborigene si può impiantarne una nuova. Il problema con le lingue è che non sono strutture anonime e intercambiabili, ma sistemi molto complessi di simboli che incarnano la storia di un popolo. Difficile da questo punto di vista immaginarci le vicende di Roma antica conservate solo in cinese o quelle della Grecia classica trasmesse solo in tedesco. Il latino contiene il codice genetico di una civiltà che ha dato al mondo, tra l’altro, il diritto e il concetto di stato, mentre il greco antico possiede parole senza le quali l’intera civiltà occidentale avrebbe difficoltà a sussistere. 

Voglia di riappropriarsi della lingua degli avi 

23-09-2009, STAMPA, CUNEO, pag.73 

La ragione più profonda per riappropriarsi di una lingua è sentimentale. Decine di migliaia di figli, nipoti e pronipoti di immigranti italiani all’estero si rivolgono ogni anno ad università e a scuole private per imparare l’italiano, non perché ne abbiano bisogno per le loro professioni o per conversare con gli altri abitanti dei rispettivi Paesi, ma perché quella lingua è l’idioma dei loro avi, è la parlata di una Patria ideale molti dei quali non hanno mai visto (e forse non sono i più sfortunati). Patria ideale era anche quella che si erano creata gli umanisti italiani del Trecento e Quattrocento, all’interno di corti come quelle di Ferrara, Urbino e Firenze, completamente avulse dalla realtà del popolo e del mondo che le circondavano. Dalla caduta dell’Impero romano d’occidente (476) il latino era rimasto LINGUA curiale e scientifica e, ancorché non parlato se non in ristrette cerchie, era la LINGUA per eccellenza, quella in cui si imparava a leggere e a scrivere (la grammatica alla quale faceva cenno anche Dante). Mancava all’appuntamento il greco, che arrivò con gran dovizia di scritti e di maestri dopo la caduta di Costantinopoli (1453). E per un secolo Lorenzo Valla, Marsilio Ficino e Pico Della Mirandola sembrarono voler insegnare a Cicerone e a Socrate cosa voleva veramente dire sapere il latino e il greco. Ma l’Umanesimo e il Rinascimento passarono e con essi anche l’utopico disegno di far parlare, leggere e scrivere tutti nelle lingue dell’antichià, ritenute ineguagliabili e le sole atte a convogliare saggezza, filosofia, letteratura e sacre scritture. Tuttavia, a differenza delle migliaia di lingue che negli ultimi due millenni si sono estinte per sempre, senza lasciare traccia (come il celtico continentale, la lingua ancestrale dei piemontesi), il latino e il greco dimostrarono che una lingua dotata di grammatiche, dizionari e di copiosa letteratura non è mai veramente morta e può, in qualsiasi momento, ritornare in vita, con anzi maggior fulgore e prestigio di quanti ne avesse mai avuti nei giorni di effettiva vitalità. L’unico esempio al mondo di «risuscitazione» di una lingua morta migliaia di anni prima è costituito dall’ebraico. Per 1.300 anni, dalla conquista della terra promessa fino all’ultimo tentativo di Bar Kokhba di scuotere il gioco romano, l’ebraico (e, in parte, l’aramaico) era rimasta la lingua liturgica, legale, commerciale e popolare del popolo ebraico. Poi venne la distruzione del tempio e la diaspora e l’ebraico sopravvisse solo come lingua liturgica. Fu solo nell’Ottocento e poi, nel Novecento che si fece strada l’idea di farne anche una lingua parlata. Ancorché Eliezer Ben-Yehuda (1858-1922) sia considerato come il rivitalizzatore della lingua ebraica e il co-autore del dizionario dell’ebraico moderno, il processo di creazione della moderna lingua ebraica passò per vari stadi, tra cui la prima e la seconda Aliyah (scuola) e poi il periodo del mandato britannico sulla Palestina. Una lingua che pochissimi parlavano all’inizio del Novecento, divenne lingua ufficiale di uno stato moderno all’istituzione di Israele nel 1948. 

La lingua non s’impara senza amarne la civiltà 

24-03-2010, STAMPA, CUNEO, pag.72 

Quel mio primo inverno in Canada lo passai seguendo i corsi di letteratura europea dell’esule ungherese Georgy Wajda, quelli di letteratura amerindiana di un meticcio che si faceva chiamare Denzil Garrett e che portava il tamburello in classe (ma sapeva anche il greco classico, oltre alla lingua Cri), e quelli di letteratura del realismo europeo, impartiti da un bravissimo docente polacco, Eduard Mozejko. Io - per conto mio - mi dedicai soprattutto al norvegese di Inge e all’ucraino parlato in due o tre antiquari di cianfrusaglie e di libri usati, dove si faceva sempre capannello con i numerosi esuli di quel Paese. Croati, ungheresi, ucraini: la libertà era così lontana che manco si scorgeva la luce alla fine del tunnel. Scoprivo a poco a poco la storia di quell’estremo lembo di prateria che cedeva d’improvviso il passo all’imponente catena delle Rocciose. Wajda non insistette sull’ungherese, ma Mozejko avrebbe voluto che imparassi il polacco e Denzil il Cri. Invece, in altri lidi, in altro clima, avrei imparato il serbo-croato e, subito dopo, il cri. A Edmonton avevo appreso due o tre lezioni fondamentali sulle lingue e sull’umanità che le parlava. Le LINGUE, per impararle, bisogna essere innamorati di una civiltà. Senza quell’amore non si impara niente. Se non ami una società non fingertelo. Io ero per l’anima europea, che - di fronte a tutte quelle nazionalità rifugiate in Canada - mi si prospettava sempre di più come la civiltà del positivismo e della lenta, inesorabile marcia verso l’emancipazione dalla morsa delle religioni ufficiali e delle dittature rosse e nere. La seconda lezione è che le lingue non andavano imparate superficialmente. Servivano per capire, per conoscere, per condividere. Con esse si poteva far tutto, tranne che irriderle. Erano cibo sacro: se si cominciava a nutrirsene non bisognava lasciare su tavolo nemmeno le briciole. Per la prima volta mi rendevo conto che parlare l’inglese come qualcuno che era nato in un Paese anglosassone era un privilegio di enorme valore: tra quegli immigrati loro erano a piedi, io in carrozza, senza la possibilità di dare un passaggio a nessuno. Ci sarebbero arrivati, ma con i loro piedi. Una notte, verso la fine di quel lungo, spaventoso inverno (le temperature, per ben due volte, in due ondate diverse, erano precipitate a meno quaranta), sentii come un boato di cannoni di grossissimo calibro in lontananza. Col cuore in gola mi misi a sedere sul letto. I russi avevano attraversato il grande Nord e ci invadevano. Gli americani, dopo il loro ultimo tentativo di invadere il Canada, nel 1812, ci si riprovavano ora. Da sveglio non avrei mai pensato ad ipotesi così strampalate, ma nel dormiveglia il cuore mi batteva al ritmo delle detonazioni. Cannonate nella notte, da lontano, con il rombo che si trascinava per lunghi secondi su tutta la campagna, prima di spegnersi chissà dove. 

È la storia che fa le lingue non i legislatori o i tecnici 

21-04-2010, STAMPA, CUNEO, pag.72

 Per i linguisti e, soprattutto, per i rivitalisti che in tutto il mondo lottano per salvare una piccola parte delle migliaia di lingue che stanno estinguendosi (i due terzi delle lingue dell’umanità spariranno nel corso della prossima generazione), «lingua è il patrimonio verbale di un popolo che per secoli se ne è servito per esprimere ogni aspetto della propria vita». Non c’è scritto, nella definizione, che l’algonchino o il moicano sono dialetti dell’inglese. C’è scritto solo «un popolo che per secoli se ne è servito». È la Storia che fa una lingua. È il sudore, la fatica, la fame, la miseria, la lotta per la sopravvivenza, la sete di giustizia, il dialogo con Creatore e Creato, la speranza nella disperazione, che fanno delle parole di una lingua le depositarie dell’esperienza planetaria di un popolo. Ogni parola di quella lingua è unica, senza campi semantici identici in nessun altro idioma. La lingua è la storia di un popolo nascosta all’interno di ogni sua parola. Privandolo della sua lingua lo si priva della sua storia. Un popolo senza storia è un popolo senza identità: si disperde come polvere al vento. Si ubriaca, si droga, si picchia, si uccide, si autoelimina. Cibo e lavoro, quando ci sono, non bastano. Il fatto che uno Stato poi riconosca una lingua (come ha coraggiosamente fatto il Canada con il francese fin dai tempi di Pierre Elliott Trudeau) o no (come continuano a fare gli USA, dove ben cinque Stati hanno approvato leggi volte a proibire l’uso dello spagnolo in luoghi pubblici ed hanno ottenuto l’effetto opposto) non ha nulla a che vedere con lo status di lingua. Una parlata secolare è lingua anche quando uno stato non la riconosce, mentre una parlata artificiale, creata a tavolino da letterati, tecnici o linguisti (come l’italiano della Crusca, l’Esperanto dei semplificatori o l’intelligent English dei computer), non è lingua, anche se uno stato dovesse mai riconoscerla. Ribadiamolo: è la Storia che fa le lingue, non i legislatori, i tecnici o i letterati. La si può ufficializzare o nobilitare, mai creare dal nulla. lingua è popolo, popolo è lingua: quando si interferisce dall’alto si crea la discriminazione dialetto-lingua, si crea il rapporto disprezzo-diffidenza, si nega la storia, si nega il diritto ai popoli di continuare ad essere sé stessi. I piemontesi vantano il primo e il più antico documento letterario tra tutte le lingue della Romània, i 22 Sermoni Subalpini (codice: BN. D. VI. 10. 128r-188v). Sono di inestimabile valore non solo per i piemontesi, ma per tutto il mondo neolatino. Essi ci confermano che il piemontese ha mille anni di civiltà letteraria ed è decano di tutte le lingue neolatine. 

«La lingua del cuore si parla solo con pochi intimi»

 07-07-2010, STAMPA, CUNEO, pag.72 

In Italia c’è sempre stata un’altra lingua, imposta da lontano, da imparare sui libri, da sfoggiare nei temi scolastici, da utilizzare in scritti ed articoli incomprensibili ai più, mentre la lingua del cuore si parla solo con pochi intimi. O con Dio. Il fatto che in quest’ultima lingua si riesca a dire quello che non si riuscirebbe mai a dire nell’altra lo si deve tenere nascosto dentro: dichiararlo sarebbe come spogliarsi nudi in luogo pubblico. Io avanzerei la modestissima opinione che se una lingua è buona abbastanza per dialogare con Dio lo è più che a sufficienza per parlare con gli uomini. Perfino con quelli che si ritengono Dio, quelli che dicono agli altri che lingua possono o non possono parlare e cosa possono o non possono dire. E poiché in Italia questo bel vezzo di chiamare « lingua » quella sola che viene dall’alto, e «dialetto» tutto il resto (senza avere la minima nozione di cosa sia veramente una lingua, soprattutto quelle storiche e millenarie), passiamo subito al nodo della questione e stabiliamo se sia lecito o meno pregare in un «dialetto» (continuo ad usare questa parola con riluttanza e solo per amor di dialogo). Dopo l’esilio babilonese (539 a.C,), gli ebrei che fecero ritorno (40.000 circa, meno di un decimo di quelli deportati) non parlavano più l’ebraico. Parlavano invece la lingua dell’esilio, l’aramaico. L’aramaico era stato lingua dell’impero Achemenide, codificata e con tanto di letteratura, ma all’epoca di Gesù, in Galilea e in Giudea, era proprio solo un «dialetto»: una parlata di povera gente che non sapeva né leggere, né scrivere. Sappiamo che ve n’erano almeno sette varietà, ma che ciò nonostante Gesù il Galileo, che parlava proprio solo l’aramaico di Nazaret, riusciva a farsi capire dovunque predicava. L’ebraico non lo parlava più nessuno. Per saperlo bisognava saper leggere e scrivere, e per saper leggere e scrivere bisognava aver frequentato il Sinedrio. L’ebraico era la « lingua » sacerdotale, misteriosa e remota. Gesù di Nazaret, che in parabole e in dialetto ha insegnato il succo e la sostanza di tutta la Legge, non ha mai usato una sola parola di ebraico, che pure conosceva benissimo (citava a memoria la Thorà): ha invece sempre e solo usato un dialetto. Ciò dovrebbe allertarci in rapporto a due cose: primo, che la lingua del popolo è sempre la più importante, secondo, che si possono spiegare grandi verità anche facendo uso delle lingue più umili. Basta sapere le lingue più umili e saper dire cose grandi con parole semplici. Non è da tutti. Il greco in cui sono stati redatti i testi dei tre vangeli sinottici è demotico: è un linguaggio di povera gente. Se lo si confronta col greco di San Paolo o con quello dei sofisti, con cui San Paolo si misurava sull’agorà di Atene, è da mercatino delle pulci. Come registro diafasico va di pari passo con l’aramaico di Gesù di Nazaret. 

Le lingue (anche secondarie) vanno protette e incoraggiate 

20-10-2010, STAMPA, CUNEO, pag.70 

Siamo alle minacce, all’inasprimento dei già pessimi rapporti tra Roma e le Regioni (in un momento critico per Governo e Nazione sulla questione del regionalismo), all’esasperazione di quelli tra Roma e le terre di lingua tedesca e alla totale incapacità di considerare le differenze linguistiche come una delle prime ricchezze, non delle prime scocciature, dell’Italia. Nella provincia autonoma di Bolzano si traduce la più elevata quantità di documenti da e verso il tedesco e che se ogni regione d’Italia avesse eguali competenze linguistiche si potrebbero creare dall’oggi al domani migliaia di posti di lavoro profumatamente retribuiti. La cultura, veicolata dalle lingue, paga sempre. Il monolinguismo e l’isolamento costano invece molto cari: portano alla disoccupazione e alla povertà. Le lingue, anche nelle loro manifestazioni secondarie, come la pubblicità o la segnaletica, vanno protette e incoraggiate. Le nuove generazioni di scolari in Italia dovrebbero essere come i giovani del Tirolo, che parlano correntemente il tedesco e l’italiano, oltre a sapere molto meglio l’inglese che i loro coetanei monolingui nel resto d’Italia. Di certo non sono i tirolesi, i walser o i provenzali a far piazzare l’Italia all’ultimo posto in Europa per quel che riguarda le competenze linguistiche. In Quèbec, quando tolsero dai cartelli ottagonali la parola «Stop» per metterci «Arret», Ottawa, la capitale federale, andò su tutte le furie, vaticinando che si sarebbero triplicati gli incidenti stradali. Invece gli incidenti rimasero numericamente gli stessi, cioè quelli che l’imprudenza e l’imperizia invariabilmente causano: per quanto riguarda il Tirolo il problema non è il tedesco sui cartelli, ma l’atteggiamento di chi mal tollera che gli italiani parlino altre lingue, oltre all’italiano. E se gli altoatesini si rifiutano di parlarlo, come talvolta fanno, è perché Roma troppo spesso li ha costretti a farlo. Il silenzio è spesso l’unica alternativa civile di chi non si sente libero. Ma, a ben pensarci, è assai meno grave non parlare una lingua, pur sapendola perfettamente, che non parlarla perché proprio non la si sa. A spasso sulle Dolomiti, anche chi non sa il tedesco riesce pur sempre a capire da che parte andare quando, al posto di niente, c’è ora una freccia che indica la direzione e tra le varie parole incomprensibili c’è in grande il nome della località che si cerca. Che poi diverse località abbiano il nome in tedesco diverso da quello italiano non è la fine del mondo: basta imparare che, localmente, tanto per voler fare un esempio, Bressanone si chiama Brixen. 

‘‘Valorizziamo a tutti i costi tradizioni, lingue, usanze’’ 

09-11-2010, STAMPA, CUNEO, pag.64 

Roma non ha ancora interpretato a dovere l’art. 6 della Costituzione e continua a non fare nulla, o quasi, per metterlo in atto. La mentalità dei suoi leader politici nei confronti delle lingue del popolo è immutata dal 1861. Si continua a non voler utilizzare l’immenso patrimonio di lingue ancestrali del popolo italiano per farne un trampolino per il bilinguismo e il multiculturalismo. Non si è mai pensato di creare un Consiglio per valorizzare e gestire il ricco patrimonio di lingue che gli immigrati hanno portato con sè e, come se già non bastasse, ci si attarda ancora in atteggiamenti come quello esemplato da quest’ennesima minaccia nei confronti di una minoranza linguistica: «O italiano, o niente». In tutta franchezza, cosa pensate sarebbe successo se Raffaele Fitto, ministro per gli Affari Regionali, con la stessa perizia diplomatica e linguistica del suo lontanissimo predecessore Cavour (laureatosi a Londra, parlava un impeccabile inglese e maneggiava il francese come pochi parigini sapevano farlo), avesse preso su il telefono e avesse detto a Durnwalder, presidente della provincia di Bolzano: «Lieber Luis, oder sollte ich eher Herr Landeshauptmann sagen?, ich mochte Ihnen etwas sehr nett vorschlagen ... » (Caro Luis, o dovrei piuttosto dire Signor presidente? Avrei una meravigliosa proposta da farLe ...). Pensate che si sarebbe finiti a minacce e a ultimatum? È strano come continuiamo ad avere una classe dirigente che non parla le lingue d’Europa e crede di proteggere gli interessi d’Italia minacciando chi non parla l’italiano. Era a Bruxelles che bisognava difendere l’italiano, invece di buttarlo alle ortiche, come hanno fatto i responsabili italiani di recente. E se proprio vogliono difendere l’italiano in Italia, perché non la smettono di usare parole inglesi anche nelle diciture ufficiali dello Stato Italiano? È in patria che si rispetta il fatto fondante di questa nazione: siamo un popolo di molte culture e di molte lingue. Smettiamola di mettere uniformi addosso alla nostra gente, forzandola a marciare col passo dell’oca e tanto di saluto in Via dei Fori Imperiali. Valorizziamo a tutti i costi le nostre tradizioni, le nostre lingue, le nostre usanze, le differenze delle nostre genti. Sono il nostro bene più prezioso, la prima delle nostre ricchezze. Per il centocinquantesimo anniversario, l’anno prossimo, sui palchi delle celebrazioni, invece di metterci i politici, mettiamoci i bambini di tutta questa meravigliosa terra italiana, che nelle rispettive lingue dicano tutti la stessa cosa: «Siamo italiani e vogliamo rimanerlo nella libertà di continuare ad essere quel che siamo». I bambini che parlano, oltre all’italiano, il tedesco, o il piemontese, o il walser, o il provenzale, o il francese, non sono bambini meno italiani di quelli che parlano solo l’italiano. Sono italiani con una marcia in più. Il nostro Paese ha bisogno di una marcia in più, se vuole farcela a sopravvivere in questo brave, new world della globalizzazione. E se Roma proprio vuole intervenire, lo faccia pure, servendosi magari anche del latino: ma quello degli umanisti. 

Un popolo è finito quando lo si priva della sua lingua 

06-04-2011, STAMPA, CUNEO, pag.58 

È strano che si parli tanto di federalismo fiscale e per nulla di federalismo linguistico. Nell’Antico Testamento, nel libro di Esther (I, 22), è riportato un interessante episodio. IL re Assuero, che regnava su popoli di svariate lingue, inviò lettere dovunque per ordinare a tutti i suoi ufficiali di rispettare le lingue locali e IL diritto di parlarle, ancorché coloro che le parlavano fossero immigrati recenti. Il passo recita: «Ognuno deve essere padrone nel suo territorio di parlare la lingua della sua nazione». Giustamente uno dei più grandi commentatori della Bibbia, IL rabbino Èlie Munk, scrive: «Il Talmud attira la nostra attenzione sul fatto che è proprio grazie a queste disposizioni del re se Israele ha potuto conservare la sua identità continuando a parlare la sua lingua nazionale: senza questa misura sarebbe stato completamente annientato». Chi, oggigiorno, in Svizzera si sognerebbe di andare dai ladini a dir loro che Berna, la capitale, ha deciso che IL romancio (parlato dallo 0,5% della popolazione, cioè da circa 50. 000 persone) non è una lingua e che non possono utilizzarla per scopi ufficiali? E, allo stesso modo, chi andrebbe dai navajos in Arizona, o dagli algonchini in Quèbec, a dire loro che le loro parlate non sono lingue e che non possono usarle pubblicamente? Nessuno. Eppure i ladini, i navajos e gli algonchini non hanno composto capolavori letterari o conquistato nazioni. Come mai ai provenzali, che hanno gettato le fondamenta letterarie dell’Europa, e ai piemontesi, che hanno conquistato una nazione, qualcuno viene ora a sentenziare che la loro non è una lingua? Come mai si può dire la messa in ladino, in navajo e in algonchino, ma non in piemontese e non in provenzale? Ben avevano ragione i commentatori della Bibbia nell’osservare che un popolo privato della propria lingua è un popolo finito. In Piemonte non solo i piemontesi e i provenzali si vedono privati della propria lingua, ma - quel che è ben peggio - sono privati della coscienza dell’importanza di quella lingua. Molti provenzali e piemontesi hanno da generazioni smesso di parlare la lingua dei padri perché sono perfettamente convinti che il parlarla non serva a niente. I romani e i normanni rastrellavano un territorio appena conquistato mettendo a morte coloro che non avevano calli sulle mani, perché sapevano leggere e scrivere e, quindi, conservare l’identità del proprio popolo. Dovunque ci sono state le legioni romane il celtico è sparito. Ma nel Mediterraneo orientale, dove la lingua franca era il greco, IL latino non ha preso piede. I greci sono la prova che l’unica difesa contro chi vuole tagliare agli altri la lingua è di usarla molto meglio di loro. La lingua è la prima ricchezza di un popolo: se la si perde, è solo una questione di tempo prima che anche tutto il resto se ne vada alle ortiche. 

Le lingue ancestrali snobbate dalla cultura 

07-06-2011, STAMPA, CUNEO, pag.64 

In Italia ogni generazione deve reinventarsi l’italiano. Si direbbe che dopo l’esordio delle Tre Corone l’italiano era bell’e fatto. Ma se leggiamo Machiavelli (1469-1527), Guicciardini (1483-1540) o Vasari (1511-1574) intravediamo la sintassi latina occasionalmente sottesa al loro splendido «parlato» toscano. La questione si complica quando passiamo ad autori come il campano Giordano Bruno (1548-1600), il calabrese Tommaso Campanella (1568-1639) o il veneziano Paolo Sarpi (1552-1623). Insieme al toscano Galileo Galilei (1564-1642) costituiscono la punta di diamante del pensiero italiano post-rinascimentale. Ma mentre neppure Galileo si sottrae all’ipotassi, gli altri tre sono visibilmente alle prese con un problema linguistico spinoso: parlano una lingua regionale, hanno imparato a leggere e a scrivere in latino e si cimentano con l’italiano per farsi capire da un pubblico più vasto. Libri fondamentali come De l’infinito universo et mondi (1584), La città del sole (1602), Istoria del Concilio Tridentino (1619) e Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1624-30), sono di lettura così ardua che - nonostante il loro inestimabile valore per la scienza, la storia e la filosofia - vengono di rado proposti come prose esemplari in licei e università. Perché questa mancanza di linearità cartesiana? Ce lo dice il napoletano Giambattista Vico (1668-1744), l’autore de La scienza nuova (1744), che pensava in napoletano, costruiva la frase in latino e poi, a gran fatica, la scriveva in italiano. La realtà è che questi grandissimi luminari, anticipatori di tante scoperte e di tanti movimenti letterari e filosofici europei, si leggono molto più agevolmente in traduzione inglese, francese o tedesca, che non nell’originale: i traduttori non solo hanno dovuto reperire le parole, ma ricostruire - semplificandola - la sintassi. Quid novi sub sole? Moltissimi italiani ancor oggi hanno come LINGUA di sostrato, semidimenticata, ma pur sempre presente e attiva, un «dialetto», pensano poi la frase - ahimé - in un italiano molto complesso e si autotraducono in inglese, o in francese, per conferenze, per incontri o per pubblicazioni internazionali. Come riconoscere un italiano che scrive o che parla in lingua straniera? Non tanto dalla sua pronuncia, quanto dalla sua sintassi: là dove i francesi o gli inglesi usano cinque frasi con un punto alla fine di ciascuna, gli italiani ne fanno una sola, con quattro subordinate. Ciò è dovuto al fatto che non si riconoscono le lingue ancestrali come lingue di cultura e di composizione: se questo fosse il caso (come nella piccola scuola di Coumboscuro), gli italiani si abituerebbero alla spontaneità. Il passaggio ad altre lingue si farebbe da questa solida base. Il latino e l’italiano carducciano è bene studiarli come lingue illustri, ma è meglio lasciarle nel cassetto quando si parla al mondo. 

In un secolo cancellate 300 lingue ancestrali 

29-06-2011, STAMPA, CUNEO, pag.72 

In Italia il numero di bambini «stranieri», nati all’estero o qui, sta rapidamente aumentando. Dal 1° gennaio 2004, al 1° gennaio 2010 sono passati da 412.432 a 932.000 (l’8% della popolazione italiana). La cifra potrebbe raddoppiare contando i non iscritti. Percentuali molto più elevate si registrano in Belgio, Olanda, Germania, Francia e Regno Unito, ma bassissime in confronto a quelle nordamericane. In Canada la popolazione è raddoppiata tra il 1970 e il 2000: i «new Canadians/nouveaux Canadiens» sono la metà dei residenti. Dal punto di vista linguistico i Paesi di accoglienza si suddividono in due categorie: quelli che incoraggiano la conservazione delle lingue d’origine pur rendendo obbligatorio l’apprendimento della o delle lingue d’adozione (Canada) e quelli che scoraggiano l’uso extradomestico delle lingue d’origine ed esigono l’uso esclusivo della lingua d’adozione (Usa). Lasciando ad altri i calcoli economico-finanziari, la questione linguistica presenta singolarità. Nella minuscola frazione di Coumboscuro (40 abitanti) si trovano locutori per l’olandese, cinese, rumeno, russo, francese e inglese (oltre al provenzale e all’italiano). Se scendiamo a Caraglio con ogni probabilità le competenze si moltiplicano esponenzialmente, fino a diventare globali a Cuneo. Scrivo «con ogni probabilità» perché non possediamo un’anagrafe linguistica. Il Canada ogni due anni conduce un’indagine tra cui primeggiano i dati sulle lingue utilizzate in casa e al lavoro. Vi è anche un manuale per genitori di lingue diverse su come conservarle senza confondere i figli. Ciò perché quel Paese investe ogni anno centinaia di milioni in traduzioni, interpretazioni, manuali, assistenza sociale in lingue diverse, insegnamento, conservazione e rivitalizzazione linguistica: con sette volte il numero degli «stranieri» in Italia, rimane un Paese libero da terrorismo e agitazioni sociali. L’Italia potrebbe fare di queste nuove lingue uno dei bacini di competenza linguistica più ricchi al mondo: chi vuole impararle potrebbe farlo nel proprio quartiere, se ci fossero dati e atteggiamenti giusti. Centocinquant’anni fa avevamo 300 lingue ancestrali e le abbiamo quasi completamente sterminate, senza peraltro migliorare la maestria della lingua nazionale. Se la mentalità non cambia, il risultato potrebbe essere un tantino diverso: cinesi, rumeni, albanesi, indù, marocchini parleranno le loro lingue e la nostra, mentre gli italiani saranno del tutto esclusi dal dialogo commerciale, finanziario e culturale col resto del mondo. La ricchezza per farla e per conservarla, bisogna prima decidere in che cosa consiste: così come, a suo tempo, non abbiamo riconosciuto l’enorme valore delle lingue ancestrali, così non riconosceremo quello delle lingue planetarie, a casa nostra. E non c’è nulla di peggio di chi, vedendo la ricchezza, la calpesta, perché non sa neppure che cos’è. 

Mitica Escolo dòu Po nata cinquant’anni fa 

12-08-2011, STAMPA, CUNEO, pag.56 

Nel 1854 sette poeti (J. Roumaniho, F. Mistral, T. Aubanèu, J. Brunet, P. Giera, A. Matièu, A. Tavan) s’incontrano a Maillane, Provenza, e fondano Lou Felibrige, una scuola per rivalorizzare la lengo mespresado: nel 1904 uno di loro, con quella lingua disprezzata, ottiene il Nobel. Il suo poema Mireio e il monumentale dizionario Lou Tresor segnano la rinascita del provenzale dopo secoli di silenzio. Nel 1927, in piazza Castello, a Torino, all’allora Caffè Patria, un gruppo di poeti (tra cui P. Pacòt, V. Fiochèt, O. Gallina, A. Nicola) fonda La bela scòla dij Brandé, durata tre generazioni. Il piemontese non è salvo, ma nessuno può più dubitarne l’ideoneità poetica. Nel 1958 un linguista di Torino, C. Grassi, pubblica «Correnti e contrasti di lingua e cultura nelle valli cisalpine di parlata provenzale e franco-provenzale», rivelando che nella vallate torinesi e cuneesi si parla - con adattamenti locali - la lingua dei Felibre. 1955-56: due poeti di queste valli, L. Armando di Bardonecchia e S. Arneodo di Coumboscuro, scrivono poesie in piemontese, premiate al concorso Nino Costa. Fine anni Cinquanta: un giovanissimo professore, G. Buratti (Tavo Burat), setaccia in Lambretta le valli indicate da Grassi. Viene a Coumboscuro, incontra Arneodo e gli chiede perché non scrive in provenzale. Risposta: non sapeva che si potessero scrivere versi nell’umile gergo dei pastori. Burat si reca in Provenza per il centenario di Mireio. Al suo ritorno pubblica su Cuneo Provincia Granda: «Salviamo le parlate alpine» (agosto 1959). Burat, consacrato Felibre, giura sulla Santo Coupo di fondare una escolo prouvencalo in Piemonte. Tira in ballo Ij Brandé. Li presenta a T. Baudrìe, S. Arneodo e S. Ottonelli. A Crissolo (Cn), il 14 agosto 1961, in presenza dei tre poeti, del linguista U. Terracini, dei poeti valdostani R. Willien, P. Vietti, R. Vauthèrin, del capouliè dei Felibre di Provenza, C. Rostaing, del lessicografo T. Ponce, e di tanti altri, viene fondata La Escolo dòu Po. Quelli di Barcellonette e di Allos portano acqua dai loro fiumi per versarla nel Po. Peccato che a Crissolo il 14 luglio 2011 non ci saranno Renato Maurino e Sergio Arneodo, i soli fondatori ad essere ancora con noi, né i curatori del grande dizionario della lingua provenzale, né la maggior parte dei Felibre, né quelli de Ij Brandé. Maurino firma un amarissimo articolo («Quel 14 agosto 1961 a Crissolo», Ousitanio Vivo, 25 luglio 2011) in cui addita la Legge 482 come responsabile della commorienza delle parlate alpine. Che cosa festeggiano a Crissolo, visto che lo spirito di quella scuola, la sua grafia, i suoi poeti, i suoi fondatori non saranno lì? Di certo non il lascito di Burat, dei Felibre e dei Brandé. La poesia provenzale e il suo grande fondatore, Mistral, hanno sempre e solo avuto un nome per sè e per il proprio idioma: la dousso lengo de Prouvenco. Grazie al cielo, a Coumboscuro, quella lingua, quello spirito e quella Escolo dòu Po sono più vivi che mai. 

Quando l’Italia prestava parole agli altri Paesi 

27-01-2012, STAMPA, CUNEO, pag.64 

C’ è stato un tempo in cui non solo non prendevamo a prestito parole da altri Paesi, ma eravamo noi a fornirne agli altri. Mi vien da sorridere quando sento parole italiane reimportate come parole straniere. Prendiamo, ad esempio, la parola «inglese» sport (oramai utilizzata in tutte le lingue). Lì, con ben due consonanti finali, di italiano c’è ben poco. E invece no. Se compulsiamo un dizionario della lingua italiana vi troveremo la parola diporto, ricavata da diportarsi. Voleva dire «portarsi», cioè «andare, per svago, per divertimento, da un luogo all’altro». Poi diporto diventa sinonimo di svago, divertimento, piacere, da cui una imbarcazione da diporto, che non è una barca da pesca o una nave da carico, ma un’imbarcazione per andarsene piacevolmente a zonzo per il mare, per divertirsi e svagarsi. Un panfilo, insomma, anche se quest’ultima bella parola non è quasi più usata. Ritroviamo la parola diporto, nata in Italia verso il 1250, nell’anglo-francese disport, una delle diecine di migliaia di parole francesi che avevano attraversato la Manica. E, difatti, affiora nell’antico francese come desport. In entrambe quelle lingue vuole sempre dire passatempo, svago, piacere. Anche loro l’hanno ricavata da un verbo, desporter. La parola cambia leggermente e diventa disport in Inghilterra (1513) nel senso di gioco che comporta un esercizio fisico. Poi, per la solita abitudine anglosassone di sfrondare le parole del superfluo, cade la di iniziale e rimane solo sport. Il fatto che gli inglesi, ancor oggi, pronuncino chiaramente la «s» iniziale e la «t» finale è prova indubitabile che anche i francesi a quell’epoca le pronunciavano. Si, è vero, l’originale parola italiana diportarsi è passata per un notevole cambiamento ed è stato giusto re-importala nel senso di attività fisica per gioco. Ma cosa dire di centinaia di parole inglesi importate là dove esiste una parola italiana di significato identico? Come spiegare la smania di buttare via parole perfettamente equivalenti per sostituirle con parole straniere? C’è una sola spiegazione, che non è linguistica, ma socio-culturale: gli italiani non sono contenti della loro identità (e quindi della loro lingua) e cercano di crearsene un’altra, meno italiana, più americana. Vogliono essere diversi da quel che sono. Ma è difficile spiegarsi un tale atteggiamento, quando si pensa che attorno al mondo milioni di discendenti italiani o di qualsiasi altra nazionalità adorano la lingua del bel canto e i prodotti simbolo della civiltà italiana, come cucina e moda, automobili e design. Per non parlare di opera, cinematografia o letteratura. Nessuna sorpresa: gli italiani in Italia hanno avuto un buon addestramento: 150 anni per buttare via le lingue ancestrali. L’hanno fatto. Ora, una lingua in più o in meno, che differenza fa? La cosa più importante - l’identità - l’hanno già buttata alle ortiche da tempo. Il resto non è che un’inezia. 

Milioni di giovani italiani «parlocchiano» l’inglese 

21-02-2012, STAMPA, CUNEO, pag.71 

In questi giorni si parla molto di mobilità del lavoro e del fatto (vero o presunto che sia) che i giovani italiani non sono abbastanza flessibili: si staccano mal volentieri da casa e campanile. Forse è vero. Molti giovani africani per trovare lavoro abbandonano non solo il loro Paese, ma addirittura il loro continente. In Nordamerica spostarsi migliaia di chilometri, da una Provincia all’altra in Canada, o da uno Stato all’altro negli Usa è la regola. Addirittura i giovani americani ricercano questa soluzione quasi come un ideale. Ma Canada e Usa, oltre che Stati, sono anche un continente, largo piu’ di seimila chilometri. Di realtà lavorative ve ne sono moltissime. Da un punto di vista linguistico però la differenza rispetto all’Europa è abissale. Con l’eccezione del Quèbec francese, l’intero continente nordamericano parla inglese e anche i messicani si adattano già da anni a questa realtà. L’Europa invece «parlocchia» l’inglese, ma in realtà ciascuno a casa sua parla la propria lingua. Mezzo miliardo di nordamericani usa una sola lingua, mezzo miliardo di europei ne usa una quarantina, di cui 23 ufficiali. Mi pare perlomeno sorprendente che il Ministro - e molti altri politici con lei - pensi alla mobilità come ad un fenomeno interno e non (come invece dovrebbe essere) ad una dinamica per lo meno europea ma, in realtà, sempre più mondiale. Se le condizioni di austerità, di rigido fiscalismo, di tagli ai fondi a sostegno di cultura e di mille altre attività, di massiccia disoccupazione giovanile, di ristagno economico, di mancanza di sbocchi per le specialità in cui centinaia di migliaia di laureati e dottorati si sono specializzati, continuano a peggiorare, l’emigrazione (e non la mobilità) diventerà un fenomeno di massa, ma con una triste catena al piede: gli italiani non sanno le lingue straniere e le imparano superficialmente. Così come un secolo fa abbiamo mandato milioni di italiani allo sbaraglio su bastimenti che salpavano per le Americhe e per l’Australia, moltissimi dei quali non sapevano neppure scrivere il loro nome, così oggi mettiamo i giovani davanti al salto nel buio. Non stiamo qui parlando di quei giovani italiani che, superpreparati e perfettamente bi- o trilingui, vanno ad arricchire i ranghi dei ricercatori nei migliori atenei e nelle più avanzate aziende del mondo. Stiamo parlando di coloro che, molto più numerosi, tra uno o due decenni vedranno il rimanere in Italia come i loro antenati ad inizio Novecento vedevano il rimanere nel paesello d’origine: o crepare di fame o andarsene. Fino a che punto il ministro del Lavoro capisce che la mobilità giovanile è un fenomeno che va ben al di là dei confini nazionali e, se si, quando si decideranno i governanti a risolvere con misure adeguate il gravissimo e urgentissimo problema della competenza linguistica di milioni di giovani italiani?

 

 Sergio Maria Gilardino sgilardino@libero.it