LUIGI ARMANDO OLIVERO

 2 novembre 1909 ~ 31 luglio 1996

 di Giovanni Delfino

  delfino.giovanni@virgilio.it

 

 Giuseppe Macrì

Incisione di Giuseppe Macrì da Rondò dle masche, L'Alcyone Roma - 1971

 

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Rondò dle masche L'Alcyone, Roma, 1971 

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Articoli di Giovanni Delfino riguardanti Luigi Olivero pubblicati su giornali e riviste

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Traduzioni poetiche di Luigi Olivero in piemontese e in italiano

Genesi del poemetto Le reuse ant j'ole: sei sonetti di Pacòt e sei di Olivero

Commenti ad alcune poesie di Luigi Olivero a cura di Domenico Appendino 

Le poesie di Luigi Armando Olivero (Prima parte)

Le poesie di Luigi Armando Olivero (Seconda parte)

Le poesie di Luigi Armando Olivero (Terza parte)

Luigi Olivero Giornalista

Luigi Olivero e Federico Garcia Lorca

Luigi Olivero ed Ezra Pound

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Sergio Maria Gilardino - L'opera poetica di Luigi Armando Olivero 

Poesie di Luigi Olivero dedicate allo sport

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Biografia di Luigi Olivero: secondo scenario (Prima stagione poetica)

Biografia di Luigi Olivero: terzo e quarto scenario  (Verso la tempesta: diluvio universale ~ Viaggi)

Biografia di Luigi Olivero: quinto e sesto scenario (Attività frenetica ~ Roma: maturità d'un artista)

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Genesi del poemetto Le reuse ant j'ole

Sei sonetti di Pinin Pacòt e sei di Luigi Olivero

 

     Natale del 1931. È solo a Ventimiglia tra i fiori del locale mercato. Nostalgia, solitudine, ricordi… Gli viene spontaneo un sonetto dal titolo Mercà dle fior che dedica all’amico farmacista, Monssù Dino Piccaluga. 

Mercà dle fior  (Gennaio 1932) 

                                                   A Dino Piccaluga 

 S’l’anima sombra ‘l sofe d’na malìa                                     

coma ‘l sospir d’na boca an-namorà,                                          

l’han porta-je al poeta an agonia                                   

tante vos già lontane e dësmentià.                            

 

Vos cantarine ‘d boche parfumà                                

d’ij soris pì grassios dla poesia,                            

con na cadena ‘d reuse anghirlandà                                     

l’han anvlupalo ‘nt una sinfonia…                            

 

Maupassant, Maupassant!, la toa tortura                         

l’hai sentùla d’cò mi fasseme ‘l cheur                            

(e la mia ment l’era bin ciaira e pura!).                          

 

Na musica, ‘n sospir largh ëd boneur                                  

l’han sprofondà’l batel dla vela scura,                   

s’l’onda dël mar a l’han robame ‘l cheur. 

      Da questo episodio, e dal relativo sonetto, prende forse avvio, tra il dicembre del 1931 e il marzo del 1932,  con Pinin Pacòt, con cui ha ormai stretto amicizia,  una sorta di agone poetico, batajòla ‘d rime, con la composizione dei dodici sonetti, sei di Pacòt e sei di Olivero dal titolo generale Le reuse ant j’ole dedicate al Dott. Giocondo Dino Piccaluga,  ex capitan dël 3s Alpin ant la guèra 1915-’18, peui spëssiari a Vilastlon…ël  grand seigneur ëd col ësplendrient giardin ëd reuse (dont le pì ràire e voajante dedicà ai nòm dij sò soldà mòrt al front) andoa ch’a spompavo cole ole argin-e, rosse e pansarùe…

     Nel giro di cinque, sei settimane inizia una corrispondenza tra i due a base di cartoline postali, biglietti, lettere, in cui si scambiano i sonetti che mano a mano vanno a completare l’opera.

     Ancora nel 1979 Olivero riteneva che …costa improvisà batajòla ‘d rime abondantement grassëtte e fin-a assé teratologicament ithyphalliques… non fosse pubblicabile. Sul ‘l caval ‘d brôns del 21 maggio del 1932 da alle stampe il suo primo sonetto con il titolo J’ole ‘d Monssù Dino. 

J'ole 'd monssù Dino 

A Pinin Pacòt 

An drinta j'ole tracagnote e bele,

óra veuide e quacià come doe cosse,

j'era, un temp, cói salam dle cóne rosse

ch'a fan suvé 'l vinèt ant le vassele.

 

L'han sentù, para a lor, dontrè morfele

(la manina dacant le boche rosse)

confidesse d'amor le prime angosse,

ant ël pèilo, tra i tond e le scudele.

 

Busto, Pinin, che giù dal cel stèilà

tuti ij fidlin dla nòstra pena 'ncreusa

jë sleujo drinta an làcrime 'd rosà?

 

Ma no! 'Nt le neuit ch'a odoro 'd fengh tajà

l'hai vist-je mi dontrè bochine 'd reusa,

da para j'ole, a combinè ij pecà! 

      Nel suo articolo apparso sull’Armanch dij Brandè del 1979, dove traccia la storia del poemetto, pubblica  il primo sonetto di Pinin Pacòt e i suoi primo, con minime varianti rispetto alla versione de ‘l caval ‘d brôns, e ultimo. Olivero nell’articolo dichiara pure di essere l’autore del titolo del poemetto. Mi pare che Pacòt lo contraddica in una sua lettera appartenente al Fondo Olivero di Villastellone, purtroppo non datata, ma sicuramente contemporanea o di poco successiva al completamento dei sonetti dove afferma:

Ho copiato i sonettacci. Se lo intitolassimo “Le reuse ant j’ole”? Sarebbe una camicia abbastanza pudica, che non starebbe neanche male su tutte le porcherie che abbiamo consciamente perpetrato. E che il cielo ce le perdoni!

     I sonetti sono stati poi dattiloscritti da Olivero in sei copie, numerate da uno a sei, rilegate in fascicoletti di 26 pagine e distribuiti agli amici più intimi, compreso Alfredo Nicola, dalla cui copia poi Giuseppe Goria, nell’articolo Le reuse ant j’ole, pubblicato sul numero 9 del settembre 2005  di Piemontèis ancheuj, darà alle stampe tutta la raccolta che vedrà così finalmente la luce.

     I sonetti I, III, V, VII, IX e XI sono di Pinin Pacòt, il II, IV, VI, VIII, X e XII di Olivero. Ancora di Olivero il post scriptum al sonetto IV e il nota bene al V, entrambi di ulteriori due versi l’uno.

     Una copia particolare, con tutti i sonetti vergati a mano da Pacòt ed Olivero su carta Aurelius, rilegatura in pergamena e frontespizio artisticamente miniato dal pittore e acquerellista Agide Noelli, fu dedicata, ad personam, al Dottor Giocondo Dino Piccaluga con la data del marzo 1932. Copia purtroppo andata distrutta nel corso di un bombardamento aereo della seconda guerra mondiale su Vinovo, dove lo spëssiari si era ritirato a trascorrere i suoi ultimi anni.

         Tra le carte del Fondo Olivero di Villastellone, in alcune cartoline e lettere di Pinin Pacòt inviate da Torino a Luigi Olivero pubblicista Villastellone, una con indirizzo Al fiamengo e togo Luigi Olivero pubblicista Villastellone in data 15, 16 marzo e seguenti del 1932, sono presenti, dei sonetti di Pinin Pacòt, in versione autografa, due versioni del primo. due versioni del  settimo, il nono e l’undicesimo, nonché un’ultimo, senza  numero progressivo, che risulta essere il terzo. La trascrizione  integrale dei cinque sonetti, che in parte differiscono da quelli pubblicati da Goria, sia per la grafia che per il contenuto, seguono il sonetto definitivo pubblicato su Piemontèis ancheuj.

      Oltre che essere autore (falsamente con ogni probabilità) del titolo del poemetto, di cui ho già parlato, nel corso del suo articolo Olivero afferma che i sonetti che pubblica sono inediti; il suo primo però era già apparso su ‘l caval ‘d brôns. Afferma inoltre di aver restituito a Pacòt le cartoline originali dei sonetti, mentre le stesse, tranne uno, sono  presenti tra le carte di Olivero nel Fondo di Villastellone.

      Merita poi citare quanto Olivero dichiara quasi in conclusione del suo scritto, e cioè di aver confinato le sue poesie

pì ciciosëtte, vitaminiche e nackturaliste… ant l’infernòt d’un lìber antitolà Le patice. Lìber che probabilment a rësterà inédit përchè l’hai decidù ‘d feme, un di o l’àutr, fra capussin an sl’esempi dël manzonian mè amis Fra Cristoforo, dòp tante bataje: comprèise cole ch’a son da ‘nregimenté, second Luìs de Góngora y Argote, sota l’ansëgna ‘d sò vers famos an tuti i pajs de abla española e maraman an tut ël mond :a batallas de amor campo de pluma (ùltim ëd la Soledad primera).

  

Le reuse ant j'ole

 

Sonetto I di Pinin Pacòt 

     Ant l’òrt ëd monsù Dino un paira d’ole,        

aute 'n sl’ortaja e su le fior s-ciodùe,

parèj ëd doe fumele patanùe,

as drisso arionde, pansarùe e sole,

 

     a cheuje sot le stèile a gossa a gossa

ij pior ch’a sgriso l’aria dle neuit creuse,

per rendje a l’indoman an tante reuse

rijente e mate ant una festa rossa. 

 

      Mi ‘d vòlte i cheujo e veuido le mie pen-e

i pensé  fros ch’am toiro ant la sicòria

e tuti i pior ch’a s-cionfo e i peuss nen ten-e,

 

      ant coj ole, Vigin, tëgge e barosse,

për gòdme ant ël me seugn la viva glòria

ed cole reuse trionfante e rosse!                               

Prima versione  manoscritta, non datata,  su foglio, conservata nel Fondo Olivero di Villastellone

 

     Ant l’òrt ëd lë spessiari un paira d’ole,        

aute an sl’ortajae su le fior sciodùe,

parèj ëd doe fumele patanùe,

as drisso – robie pansarùe e sole,

 

         a cheuje sot le steile a gossa a gossa

i pior ch’a sgriso l’aria dle neuit creuse,

per rendie a l’indoman an tante reuse

rijente e mate 'nt una festa rossa.                              

 

         Ole rionde, ant la neuit macie besson’e,           

ch’i vë slonghe an sl’avlù dj’ombre …              

ant la dësbaucia  paciaflùa di fianch                      

 

     - speto che l’alba a ven’a a rije fòra,                   

per dëstaché la reusa cioca ‘d sangh                       

ch’as na meuir an profum an brass a l’òra.          

In nota Pacòt aggiunge: 

ultìm due versi anche:

………le reuse cioche……

………meuiro………… 

Seconda versione  manoscritta, datata 18 marzo 1932,  su cartolina postale, conservata nel Fondo Olivero di Villastellone

 

     Ant l’òrt ëdMonsù Dino un paira d’ole,        

aute an sl’ortajae su le fior sciodùe,

parèj ëd doe fumele patanùe,

as drisso – robie pansarùe e sole,

 

     a cheuje sot le steile a gossa a gossa

i pior ch’a sgriso l’aria dle neuit creuse,

per rendie a l’indoman an tante reuse

rijente e mate ant una festa rossa.

 

            Mi ‘d vòlte i cheuje e veuido le mie pen-e

i pensé  fros ch’am toiro ant la sicòria

e tuti i pior ch’a scionfo e i peuss nen ten-e,

 

     ant coj’ole, Vigin, rionde e barosse,

per gòdme ‘nt ël me seugn la viva glòria

ed cole reuse trionfante e rosse. 

Ecco infine la versione purgata  e rimaneggiata che Pacòt pubblicherà nel 1935 in Crosiere:

 

                                    Òrt                                                           

                                     A Dino Piccaluga                               

     Ant l’òrt, ch’a deurm e a seugna, un paira d’ole

aute an sl’ortaja e su le fior s-ciodùe,               

bëssone ‘d tèra cheuita pansarùe,                     

as drisso vive patanùe e sole                              

 

     a cheuje sot le stèile a gossa a gossa                            

i pior ch’a sgriso l’aria dle neuit creuse,               

per rendje a l’indoman an tante reuse         

rijente e mate ant una sesta rossa!                           

 

       E un brombo as piega sota ‘l peis ‘d na rapa,     

e na fior straca e scolorìa as dësfeuja,            

e un pom granà – madur ëd sol – së s-ciapa,        

 

      ant l’òrt, ch’a deurm e a seugna, sota ‘l rije          

ëd coj’ole carnose e gonfie ‘d veuja                  

ch’a së stiro ant la neuit, reusa e slanghìe.         

  

Sonetto II di Luigi Olivero 

          An drinta j'ole tracagnòte e bele,

ora veuide e quacià come doe cosse,

j'era, un temp, coj salam dle cone rosse

ch'a fan suvé 'l vinèt ant le vassele.

 

         L'han sentù, para a lor, dontré morfele

(la manin-a dacant le boche rosse)

confidesse d'amor le prime angosse,

ant ël pèilo, tra ij tond e le scudele.

 

         Veusto, Pinin, che giù dal cel stèilà

tuti ij fidlin dla nòstra pen-a ancreusa

jë sleujo drinta an làcrime 'd rosà?

 

         Ma nò! 'Nt la neuit ch'a odora 'd fengh tajà

l'hai vistje mi dontré bochin-e 'd reusa,

da para a j'ole, sospiré 'l pecà!

 

Sonetto III di Pinin Pacòt 

     Eh, lo sai, an col òrt fiorì ‘d pecà,                  

sota l’ansëgna’d col bon de ‘d Priap,             

pì d’un paira ‘d cojon l’é dventà fiap,                  

ciucià da quàich puslagi stagionà,                      

 

     e sot le stèile. smòrte e ancalorà,                      

a l’ombra dj’ole tëgge fàite a ciap,                          

l’eve fane e dësfane sensa antrap                           

tra ij pissèt dle brajëtte strafognà.                    

 

     E va ben! Cole reuse ch’i chërdìa                           

violente e rosse sla vërdura dl’òrt,                          

dèsfojoije ‘n sij sen dla poesìa;                   

 

     ma a coj’ole veuj nen ch’i-j faso tòrt:

ch’a sìo për noi la mas-cia alegorìa

d’un bel paira ‘d cojon massis e fòrt. 

Versione  manoscritta, non datata,  su foglio, conservata nel Fondo Olivero di Villastellone

  

     Eh, lo sai, an col òrt fiorì ‘d pecà,                  

sota l’ansëgna’d col bon De’ ‘d Priap,                 

pì d’un paira ‘d cojon l’é dventà fiap,                  

ciucià da quaich pusslagi stagionà,                      

 

     e sot le stèile smòrte e ancalorà,                      

a l’ombra ‘d j’ole tëgge faite a ciap,                          

l’eve fane e dèsfane sensa antrap                           

tra i pissèt dle brajëtte stagionà.                      

 

     E va ben! Cole reuse ch’i chërdìa                           

violente e rosse sla verdura dl’òrt,                          

dèsfojonije ‘n sij sen dla poesìa;                   

 

      ma a coj’ole veuj nen ch’ij fasso tòrt:

ch’a sìo per noi la mas-cia alegorìa

d’un bel paira ‘d cojon massiss e fòrt!                            

In calce, ancora tre versi di saluto di Pacòt a Olivero e Piccaluga: 

Monsù Dino e Vigin, per mè confòrt,                           

saba da seira i vnirai su a troveve;                       

antant: l’hai la gòi ëd saluteve.

 

Sonetto IV di Luigi Olivero 

         D'un bel pàira 'd cojon massis e fòrt,

tra le reuse ch'a-j fan da brodaria,

visco al sol la fiamenga alegorìa

j'ole tëgge baròche ch'a j'é 'nt l'òrt.

 

         Fin-a le tartarughe dla cuchija

l'han fissà con j'eujin giauniss e smòrt

coj'ole dël color ëd l'asil fòrt:

ambambolandse a 'n seugn ëd nostalgia.

 

         - A l'han sugnà d'un'isola lontan-a

dova l'amor a brusa al sol roent

e 'n bògo a l'é 'l Priàp d'ògni caban-a...

 

         Ant l'òrt ëd monsù Dino tu a sent

ël De 'd coj'ole a la fasson paisan-a:

ma còsa a stërmo a lo sà mach ël vent!

 

P.S. E se t'has bon lë stòmi e san ij dent,

        fate anàit, che la ciòca a dandalan-a!

 

Sonetto V di Pinin Pacòt

 

         E se la ciòca a son-a e a dandalan-a,

lasala ch'a biàuta coma a fan le cioie,

ch'a së sbilàucio për na veuja van-a,

ma che 'nt le braje a pendo sempre sole.

 

         Mi formo n'àutra alegorìa pagan-a,

pensand ai fianch grass e baròch ëd j'ole,

e la fòrsa 'd mè ghigno as dësdavan-a

ant una cioca 'd pupe, 'd panse e 'd gole.

 

         Parèj 'd coj'ole, che as quaciaro crin-e

an mes al vers paisan e compiasent,

son le fumele càude e ciolarin-e,

 

         che vërsandje l'aliam dël sentiment

a fan fiorì le reuse chërmesin-e

ch'as na meuiro an përfum an brass al vent.

 

N. B. Letor fabiòch, si 'n mes a j'é na sin-a,

set mat ch'a coro e 'n treno ch'as avzin-a...

 

Sonetto VI di Luigi Olivero 

         Jer sèira, anvece 'd parte luvrà sin-a,

t'avrìe dcò podù fé coma a la Gora

che, quand ch'a veulo andesne, as fermo un'ora

e 'l vapor at i-j lassa sla banchin-a.

 

         A l'òsto l'hai vardà a giughé la mora

aranda a na matòta ciolarin-a,

arionda e tëggia come n'ola crin-a:

che, pensandje, 'l batòcc as drissa ancora.

 

         Iside antica, dzora a mè taulin,

con la mofa 'n sle pupe e 'l muso 'd gata,

l'ha fame pensé a j'ole dël giardin;

 

         E, 'nt la neuit, l'hai scaudà l'idèja mata

che 'nt coj'ole a-i sia scrit ël nòsr destin:

ma 'l prinsipi e la fin son sensa data.

 

Sonetto VII di Pinin Pacòt 

     Sèt sonet, coma ‘n cel le galinele,                   

ch’a picòto le stèile ch’as dëstaco                        

arlongh la longa e ciàira stra ‘d San Giaco,                

ant le neuit ch’a së smon’o le fumele.              

 

     Sèt anej d’òr - forgià ‘nt ël feu, ch’as taco

coma ‘nt l’amor le boche grame e bele -,                 

d’angarlandé, con j’ole, le vassele                         

ch’a fan beuje la glòria ‘d pare Baco.

 

     Ma ‘nt costì di ch’a fà set, mè car Vigin,                

de profundis confesso ch’a l’é vèra,                   

ch’a-i sia scrit drinta j’ole nòst destin:

 

     nòst destin, ch’a l’é mach un pugn ëd tèra,

dova ch’a-i nass na fior për na matin,                

angrassà con ël sangh ëd nostra guèra. 

Prima versione  manoscritta,  datata 15 marzo 1932,  su cartolina illustrata con due versi sull'immagine ed un ante-scriptum, conservata nel Fondo Olivero di Villastellone 

(Fronte della cartolina) 

Daje n’andi, Vigin, che sensa pen’a,                           

i rivroma a ‘nterssene na dosen’a!                             

(Verso della cartolina) 

E daje ‘n sj’ole!                                             

 

     Sèt sonèt, coma ‘n cel le galinele                    

ch’a picòto le stèile ch’as dëstaco                        

arlongh la longa e ciaira stra ‘d San Giaco                 

ant le neuit ch’a së smon’o le fumele.              

 

     Sèt anej d’òr, forgià ‘nt ël feu - ch’as taco

coma ‘nt l’amor le boche grame e bele -,                 

d’angarlandé, con j’ole, le vassele                         

ch’a fan beuje la glòria ‘d pare Baco.         

 

     Ma ‘n costì ch’a fa sèt, mè car Vigin,          

de prufundis confesso ch’a l’é vera,                   

ch’a j’é scrit drinta j’ole nòst destin:                

 

     nòst destin, ch’a l’é pen-a un pugn ëd tèra,

dova ch’aj nass na fior per na matin,                

angrassà con ël sangh ëd nostra guèra!                  

Seconda versione  manoscritta,  datata 16 marzo 1932,  su cartolina postale conservata nel Fondo Olivero di Villastellone 

 Corrige!

(Le prime due strofe sono identiche alla prima versione, le due ultime non saranno poi utilizzate nella stesura definitiva)

 

     Sèt, come i rag dla steila mistralian’a,               

ch’a lus auta dal cel dla poesìa                    

d’zora ai sentè dla tradission nostran’a.          

 

     E anans! Che ‘l destin i’l l’oma an pugn!                 

Nòstra vita l’é ‘n camp al meis ëd giugn,                

da manzoné, Vigin, a colp ‘d faussìa!                       

  

Sonetto VIII di Luigi Olivero

 

         A l'é tocate feme 'l sèt da dne

ma stà 'n piòta ch'it marco la "primiera":

ten da ment che la man i l'hai legera

bon-a da susna e bon-a a l'écarté.

 

         Domje n'ande, ch'a s-ciòd la primavera

e la lun-a a l'é larga e 'l sol a j'é:

ògni fomna, ògni fior l'é da basé,

la natura a s'archinca da gërlera.

 

         E gërlera ch'a svanta bin le ciape,

Pàsiphae neuva, a dërné vint soldà,

con la pansa da veja e j'ole fiape,

 

         l'é giomai mia pòvr'ànima sventà.

Baco nostran la sgimba tra le rape

e chila a-j da, 'n sj'ole, a faudalà!

 

Sonetto IX di Pinin Pacòt

 

     Nosgnor! Se a tuti ji sens chila a-j la dà,             

slargand le gambe e svantajand la coa,                

tuta storzüa e tuta socrolà                                  

l’é bin na vaca d’ànima la toa!                    

 

      Pura, ‘nt n’ola dl’òrt ransi ‘d pecà,                        

mòla e garva sporzendse su la broa,                    

së spantia ‘nt na cascada profumà                      

na reusa neuva ch’a se spantia e a croa.                

 

     Ànima ch’i të sbate arversa – cagna! –             

tòrcia mata ‘d vergògna an convulsion,                 

quand che la ciòrgna ant ël calor at sagna,             

 

     a basta ch’a së slarga 'nt un canton                     

ëd l’òrt col profum doss e sensa nòm,                  

për andurmì la bestia andrinta l’òm. 

Versione  manoscritta,  senza data, su due fogli , conservati nel Fondo Olivero di Villastellone. Primo foglio la poesia con titolo, secondo foglio quattro versi come post scriptum) 

                La cagna ‘nt l’ola                         

     Nossgnor! Se a tuti i sens chila ai la dà,             

slargand le gambe e svantajand la coa,                

tuta storzüa e tuta socrolà                                  

l’é bin na vaca d’ànima la toa!                    

 

     Pura ‘nt n’ola dl’òrt ransi ‘d pecà,                        

mòla e garva sporsendse su la broa,                    

së spantia ‘nt na cascada përfumà                       

na reusa neuva ch’a se slarga e a croa.                

 

     Ànima ch’i të sbate arversa – cagna! –             

tòrcia mata ‘d vergògna an convulsion         

quand che la ciòrgna ant ël calor at sagna,             

 

      a basta ch’a së slarga ant un canton                          

ëd l’òrt col profum doss e sensa nòm                    

per andurmì la bestia an drinta l’òm!                  

 

Dal prim sonèt fina costì dla vaca                   

l’hai tuti i tò sonèt guernà da bin                      

ant la sacòcia snistra dla mia giaca.                    

Salut tuti e statme bin.                                    

                                       Pinin                                                            

 

Sonetto X di Luigi Olivero

 

         Cagna maunëtta 'd tuti ij sèt pecà

(sèt ij sonèt ëd j'ole dòp la sbòrgna),

la mòrva ch'a la infela e a la fà bòrgna,

potërlosa, scarosa a dent ciavà;

 

         o vaca ch'a bocija për la ciòrgna

sota 'l tòr ch'a la monta 'n mes al pra;

l'ànima fòrta a guarda nen s'a-j lòrgna

tra l'ortaja na reusa an-namorà!

 

         Chila a grigna a le nòte 'd Saint-Saëns,

chila a gòd - e a fà gòde d'cò 'l poeta -

dla dansa 'd Salomé dnans a la sieta,

 

         chila a cissa 'nt l'amor tut sò velen...

- Se 'nt mi l'é quacia, rantanà 'nt le miole,

j'é 'd di ch'a crija e ch'a veul rompe j'ole!

 

Sonetto XI di Pinin Pacòt 

     Sèt pecà ch’at ancërmo e ch’at anlupo               

ant ij sèt vej dla bissa Salomé,                       

e ch’a t’ambranco fòrt e ansema a pupo         

sota la cagna che ant nòstr cheur a j’é.         

 

     Set fiame! Baudelaire inteligensa                   

tajenta, përgna dle celeste sbòrgne                        

ëd Poe; Verlaine anbòss sota la violensa         

ëd Rimbaud, rangotand da mila ciòrgne.             

 

     Wilde, ant soa merda luminosa 'd sol,                     

Swimburne sbatù ‘nt la furia dël Marchèis,           

e Rubén cioch ëd vin e cioch ëd sol:                          

 

      sèt lenghe ‘d feu, pecà sensa përdon,              

ch’in lasse la carn cioca e l’oneur ofèis,                  

mi v’adòro pregandve an ginojon!         

Versione  manoscritta,  senza data, su due fogli intestati dell'Istituto di San Paolo in Torino, conservati nel Fondo Olivero di Villastellone. Primo foglio la poesia, secondo foglio tre versi come post scriptum) 

      Sèt pecà ch’a n’ancërmo e ch’a n’anlupo            

ant i sèt vei dla bissa Salomé,                       

e ch’a n’ambranco fòrt e ansema a pupo         

sota la cagna che ‘nt nòst cheur a j’é.         

 

     Sèt fiame! Baudelaire inteligensa                   

tajenta, përgna dle celeste sbòrgne                        

ëd Poe; Verlaine an bòss sot la violensa             

ëd Rimbaud, rangotand da mila ciòrgne.             

 

     Wilde, an soa pauta luminos e sol,                     

Swimburne perdù ‘nt la furia dël Marcheis,           

e Rubén cioch ëd vin e cioch ëd sol:                          

 

     sèt lenghe ‘d feu, pecà, sensa perdon,              

ch’in lasse la carn cioca e l’oneur ofeis,                  

mi j’adòro pregandve an ginojon!                           

 

         Vigin, pia ti ‘l ponpon!                                

forgiand l’ultim sonèt ëd la dozen’a                        

piega l’ultim anel ëd la caden’a.                      

                  Pinin

 

Sonetto XII di Luigi Olivero

 

         Dodes sonet, dodes cardlin s'na rama

ch'a biàuto 'ntorn al cheur dla primavera

e gasojand con l'ànima sincera

anfilo 'd perle al còl dla vita grama.

 

         Poesìa, con j'euj da serp oslera,

spòrz la testa da 'nt l'ola, a-j fissa, a-j ciama:

e a lor a-j toca abandoné la rama.

Dodes bocon ch'as fà la serp oslera.

 

         Ël cel l'é viòla. Për l'aria legera

j'é 'l sospir 'd na morosa (ò 'l fià 'd na mama?)

e 'l giardin a l'é 'n cheur uman ch'as spera.

 

         Dodes gëmme ch'a buto su la rama:

le trute a rio da 'nt la vasca 'd pera

e j'ole a spompo 'nt ël tramont ëd fiama!