LUIGI ARMANDO OLIVERO

2 novembre 1909 ~ 31 luglio 1996

di Giovanni Delfino

 delfino.giovanni@virgilio.it

Ij faunèt

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Rondò dle masche ~ L'Alcyone, Roma, 1971

Articoli di Giovanni Delfino riguardanti Luigi Olivero pubblicati su giornali e riviste 

Roma andalusa 

Traduzioni poetiche di Luigi Olivero in piemontese e in italiano 

Genesi del poemetto Le reuse ant j'ole: sei sonetti di Pacòt e sei di Olivero 

Commenti ad alcune poesie di Luigi Olivero a cura di Domenico Appendino  

Le poesie di Luigi Armando Olivero (Prima parte) 

Le poesie di Luigi Armando Olivero (Seconda parte) 

Le poesie di Luigi Armando Olivero (Terza parte) 

Luigi Olivero Giornalista 

Luigi Olivero e Federico Garcia Lorca 

Luigi Olivero ed Ezra Pound 

Olivero e D'Annunzio 

Sergio Maria Gilardino - L'opera poetica di Luigi Armando Olivero  

Poesie di Luigi Olivero dedicate allo sport 

Pomin  d'Amor (Prima raccolta inedita di poesie di Olivero) 

Polemiche 

Poesie dedicate al Natale  e ad altre ricorrenze (Pasqua, Carnevale...) 

Bio-bibliografia 

Aeropoema dl'élica piemontèisa 

Poesie inedite 

Poesie in italiano 

Poesie dedicate a Villastellone ed al Piemonte 

Episodi della vita di Luigi Olivero 

Scritti inediti  e non di Luigi Olivero 

Lettere ad Olivero 

Artisti che hanno collaborato con Luigi Olivero 

Biografia di Luigi Olivero: primo scenario (Gli inizi) 

Biografia di Luigi Olivero: secondo scenario (Prima stagione poetica) 

Biografia di Luigi Olivero: terzo e quarto scenario  (Verso la tempesta: diluvio universale ~ Viaggi) 

Biografia di Luigi Olivero: quinto e sesto scenario (Attività frenetica ~ Roma: maturità d'un artista) 

Biografia di Luigi Olivero: settimo ed ottavo scenario (Incontri, polemiche, viaggi, cantonate ~ Ultima stagione ~ Commiato) 

Appendici prima, seconda e terza 

Appendice quarta ed ottava 

Appendice quinta: gli scritti di Luigi Olivero su giornali e riviste 

Giudizi espressi in anni recenti su Luigi Olivero 

L'officina di Luigi Olivero 

Luigi Olivero legge la sua Ël bòch 

Documenti e curiosità 

Siti integrativi

 

La prefazione a Ij faunèt di Alex Alexis  

         Inizialmente mi ero proposto di non pubblicare la prefazione a Ij faunèt scritta da Alex Alexis per tre motivi.

         Innanzitutto perché scritta in francese. Poi in quanto l'autore, ai più, è sconosciuto. Infine perché la prefazione contiene una breve sintesi della storia della poesia piemontese che, oggi, risulta parzialmente piuttosto datata.

         Mi sono però ricreduto e ho deciso di proporla, in mia versione italiana, questa volta per due motivi.

Primo, in quanto l'autore meriterebbe di essere riscoperto, se non altro per essere stato il primo traduttore italiano nel 1933 del Voyage au bout de la nuit, Bagatelle pour un massacre e L’ècole des cadavres di Louis Ferdinand Celine.

          Secondo, in quanto la prefazione, oltre la godibile e breve storia della poesia piemontese, contiene un acuto ritratto del primo Olivero. Infatti questo testo apparve la prima volta sulla rivista parigina Le diable rouge N° 14 del gennaio 1945, venne poi ripreso pari pari sulla rivista Ël Tòr N° 9/10 del 22 dicembre del 1945 dove Olivero lo ripropose in francese, così come apparirà infine ne Ij faunèt. In questa ultima edizione però, probabilmente lo stesso Olivero, provvide ad aggiornare la parte riguardante la storia della poesia piemontese.

           Ecco, qui di seguito, una breve biografia di Alex Alexis seguita dalla mia traduzione alla prefazione. 

                                                                                  Alex Alexis

           Alex Alexis, alias Luigi Alessio  (Caramagna Piemonte, Cuneo, 8 maggio 1902  – 15 aprile 1962).

           Luigi Alessio, o Alex Alexis, ha scritto moltissimo vivendo sia in Francia che in Italia (Drammi, romanzi, poesie, saggi storici, traduzioni, commedie, corrispondenze giornalistiche, soggetti per film). Fonda nel 1923 a Torino la rivista Teatro dove da spazio ad autori emergenti e quindi due case editrici, Rinascimento a Torino e Les Editeurs Associès a Parigi.

          Con quest’ultima casa editrice inaugura un nuovo sistema di diffusione del libro, stampando ad altissima tiratura e vendendo le copie ad un prezzo molto basso, sia pur con un piccolo margine di guadagno, direttamente alle bancarelle parigine. Casa editrice che poi cede per paura di essere troppo assorbito dalla nuova attività e non aver più tempo per la composizione delle sue opere.

           Incontra molti momenti di difficoltà sia economica che di salute. Durante la guerra, per sbarcare il lunario, fa il finto corrispondente dal fronte, scrive sceneggiature e biografie.

          Al termine delle ostilità, su incarico dell’amico scrittore ed editore Gian Dauli, compila una biografia di Mussolini raffazzonandola da scritti altrui, opera che verrà poi data alle stampe sotto il nome di Gian Dauli.

          Ha pubblicato molto anche sotto pseudonimo, il più è rimasto inedito e l’Alessio ha continuato a lavorarvi di cesello quasi fino alla morte che, dopo un lungo periodo trascorso per curarsi  a Latte, presso Ventimiglia,  lo ha raggiunto nella sua Caramagna nel 1962.

           Fu il traduttore nel 1933 del Voyage au bout de la nuit, Bagatelle pour un massacre e L’ècole des cadavres di Louis Ferdinand Celine. Vivendo al confine tra due culture, non è citato, neppure di sfuggita, né tra gli indici bibliografici, né nelle storie letterarie anche se meriterebbe, forse, una maggiore considerazione.  (Note biografiche tratte da una lettera di Clemente Fusero del 30 novembre 1966 a Michel David. In Opera Aperta N° 8-9 Roma 1967)

Bibliografia:

La casa dei ricordi (dramma) Torino 1925,  L’incendio della foresta (dramma) Milano 1930,  In grigio e in nero (romanzo) Torino 1931,  Amours a Montparnasse (romanzo) Parigi 1936, Bismark Corbaccio Varese 1939,  Dizionario dell’argot Torino 1939,  Storia del lavoro Corbaccio Varese 1940, Pitagora Corbaccio Varese 1940,  Anime di esiliati (romanzo) Modernissima Milano 1946,  Traduzioni: Louis Ferdinand Celine Voyage au bout de la nuit, Bagatelles pour un massacre, L’école des cadavres 

Luigi Olivero, o della celeste anarchia

         Inizialmente una domanda: necessariamente il poeta deve esprimersi nella lingua ufficiale delle accademie, dei grammatici, delle scuole? Oppure ha diritto di cercare la sua espressione in un linguaggio non ufficiale, sia pure un dialetto, un patois, un gergo?

         Questione assai vecchia e un poco oziosa. La stessa realtà s'incarica di rispondere. Il volgare di Dante è una sfida al latino ufficiale, proprio come il provenzale di Mistral  o l'argot di Villon, di Bruant e di Rictus sono una sfida al francese ufficiale.

         D'altra parte, il fatto di esprimersi in una lingua non ufficiale, è una posa, una bizzarria, un tratto forzato d'originalità? No. Scrivendo in volgare, o argot o dialetto, l'autore non compie che un atto di onestà verso lui stesso. Si tratta di un bisogno istintivo, un grido di sincerità, un insieme intimo di musica, di lirismo e di sensibilità che non saprebbe trovare altra forma di espressione.

         Il solo rimprovero che potrebbe essergli mosso  non è d'ordine artistico, ma pratico: cioè ridurre a un numero più o meno ristretto di lettori la diffusione e la comprensione della sua opera. Di contro, si realizza lui stesso, parla il suo linguaggio, il vero, quello che ha appreso nella sua infanzia e che meglio corrisponde al suo temperamento. È la "sua" musica. Inutile e dannoso per lui, imporsene un'altra. È un fenomeno che si rinnova in tutte le epoche e presso tutti i popoli. Domani, in un mondo ipotetico con un'unica lingua, ci saranno sempre dei poeti per cantare le vecchie armonie regionali.

         La poesia, d'altronde, è un fatto genuino che richiede una genuina espressione. L'espressione letteraria è quasi sempre troppo artificiale; ad essa si oppongono le voci che trascina in sé stessa da sempre, il misterioso incantamento delle melodie innate, l'eco della Natura e di quell'immensa scuola che è la strada.

         È il punto dove i linguaggi non ufficiali, dialetti e gerghi, prevalgono nella creazione naif delle immagini poetiche.

         Ora, eccoci davanti al caso di Luigi Olivero. Nato il 2 novembre 1909 a Villa-Stellone, vicino a Torino, è giornalista ed autore  di parecchi libri scritti in una prosa italiana  perfetta, fluida, scintillante, libri il cui successo si è rinnovato nelle loro traduzioni inglesi e tedesche. Ma egli non è poeta che in piemontese.  L'opposizione nella prosa, tra riflesso e cerebralità, nella poesia, tra genuinità e sentimentalismo, si rivela in lui per questo sdoppiamento linguistico, per cui non potrà essere poeta che in piemontese. Ridotta all'italiano, la sua lirica sarebbe probabilmente muta.

                                                                                         *

         Un colpo d'occhio sul piemontese: è una lingua o un dialetto? È una questione discutibile. Il Piemontese, non importa a quale ambiente appartenga, ha sempre dimostrato un orgoglioso attaccamento  al suo linguaggio, che per lui è l'espressione della sua propria mentalità. Una mentalità sobria, chiara, nemica di tutte le retoriche, molto lontana da quell'esuberanza, io direi anche da quell'enfasi, che è propria della mentalità italiana, e molto differente. allo stesso tempo, da quei fuochi d'artificio che  caratterizzano la mentalità francese.

         «Se io fossi re, tutti i miei ambasciatori sarebbero piemontesi - proclama Stendhal nelle sue Pagine d'Italia - È il popolo più sagace dell'universo. Quanto di frivolo non lo ferma un istante; mettono sul campo il dito nella piaga. In questo, ben superiori ai francesi, che si divertono a cercare le facezie epigrammatiche».

         Qual'è dunque il linguaggio che corrisponde a questa mentalità?

         «Il linguaggio piemontese - ci dice Luigi Cibrario, erudito del diciannovesimo secolo - possiede un numero molto grande di termini originali. È vibrante, immaginativo, ricco di espressioni proverbiali. La sua pronuncia è sonora e netta... Il documento più antico che si conosca del dialetto piemontese è dell'anno 1321. E si può agevolmente rimarcare che tra quell'idioma e quello che si parla attualmente in Piemonte,non esiste maggior differenza che tra la lingua italiana del medioevo e l'italiano moderno».

         Aggiungerò che altri documenti storici esistono a provare che l'idioma piemontese era già parlato prima che si formasse il volgare italiano.

         Il fatto che raramente il piemontese è stato elevato al rango di lingua scritta, è dovuto essenzialmente alla vicinanza immediata - geografica e intellettuale - della Francia.  Nato dallo sgretolamento dell'impero carolingio, il Piemonte, dal 888 al 1000, prese subito una fisionomia feudale, conservando per nove secoli una indipendenza pressoché assoluta, appena interrotta, dal 1798 al 1814, dalla parentesi napoleonica, che non ha lasciato che poche tracce.

         Durante nove secoli d'autonomia, la lingua scritta ufficiale del Piemonte fu il francese. È ancora il francese che generalmente tiene banco tra le alte classi.

         Questo è durato fino a circa la metà del diciannovesimo secolo. ( Ricordiamo di passaggio il tentativo di Vittorio Emanuele II che tentò, nella sua giovinezza, d'imporre una riforma memorabile alla sua Corte: la sostituzione ufficiale del francese con il piemontese). Da questa unione con il francese, il piemontese si arricchì considerevolmente e si perfezionò, dal punto di vista letterario, fino a produrre delle opere scritte molto numerose, e sovente esse stesse rimarchevoli.

         Bisogna citare dei titoli e dei nomi? Ecco le "Lamentazioni" del XV secolo, le "Canzoni" del XVI, i "Toni" o composizioni satiriche anonime verso la fine del XVII. Ecco i poeti e gli scrittori del Panthéon letterario piemontese: Antonio Astesano, Giovan Giorgio Alione, Ignazio Isler (il monaco dai grandi bagliori di risa rabelesiani), Vittorio Amedeo Borrelli, (Ventura Cartiermetre), l'Abate Silvio Balbis, il medico di Corte Maurizio Pipino, Vittorio Alfieri (il grande tragico), Ignazio Edoardo Calvo (il vigoroso autore satirico giacobino), Carlo Casalis, G. I. Pansoya, Amedeo Peyron, Enrico Bussolino detto l'eremita di Cavoretto, G. M. Regis detto l'eremita canavesano, Norberto Rosa, Luigi Rocca, Angelo Brofferio (detto il Béranger piemontese), Stefano Mina, Cesare Scotto, Luigi Pietracqua, Padre Giuseppe Frioli, Federico Garelli, il dolce  chansonnier Giovanni Gastaldi, Alberto Arnulfi detto Fulberto Alarni, Eraldo Baretti (le cui opere teatrali sono state tradotte in otto lingue), Mario Leoni, Vittorio Bersezio (del quale la famosa pièce teatrale Le Miserie 'd Monsù Travèt ha creato il tipo indimenticabile del povero impiegato dello Stato, così bene che il nome travét è entrato nella lingua italiana corrente), Alberto Viriglio, Amilcare Solferini, Alfonso Ferrero, Oreste Fasolo, Saverio Fino, Camillo Variglia (Cirillo Valmagia), Leone Fino (Rico), Giovanni Amelotti, Bernardo Garneri (Brut e Bon). Tommaso Agostinetti (Tito Gantesi), Luigi Collino, Vincenzo Armando, Giovanni Gianotti, Luigi Maggi, Pinòt Casalegno, Giulio Segre, Onorato Castellino, Cesare Laudi (Dario Cesulani), Francesco Mittone (Alfredo Chin), Giacolin Sacerdote, Carlo Baretti ecc. L'idioma piemontese ha anche avuto i suoi sostenitori presso uomini di Stato quali Costantino Nigra, Cesare Balbo, Tomaso Villa, Delfino Orsi e molti altri; senza far cenno alle grammatiche, ai lessici o dizionari piemontesi del Pipino, Brovardi, Zalli, Attilio Levi, Alì Belfadel ecc.

         Caso Strano! Questo idioma che ha molto derivato dal francese, lingua straniera, ha poco assimilato dall'italiano, lingua nazionale, anche dopo il 1870, vale a dire dopo l'unità politica che il Piemonte impose, assorbendoli, agli altri piccoli stati della penisola.

         Quindi questo contrasto intimo tra gli scrittori italiani d'origine piemontese, che farà scrivere al poeta Guido Gozzano:

         «Oh, il mio dolce dialetto così vivo, fra tante cose morte, adorato più di qualunque parlare, più dell'italiano (adoratissimo italiano, estraneo alla mia intima sostanza di subalpino, appreso tardi con grande amore e con grande fatica, come una lingua non mia), il mio dolce parlare torinese, l'unico nel quale penso e l'unico che mi giunga al cuore suscitandovi schietto il riso e il pianto...».

          Contro il fascismo, nemico dichiarato di tutti i regionalismi, e, da ciò, di tutti i dialetti, i piemontesi reagirono coltivando con ammirevole ostinazione il loro patrimonio linguistico. Da questa reazione, è nata una letteratura moderna, tipicamente piemontese per forma e contenuto; una letteratura quasi clandestina fino a ieri, ma che oggi appare con tutta la sua forza e la sua bellezza, osando anche piazzarsi su un piano europeo.

         Parecchi poeti e scrittori piemontesi di quest'epoca sono stati rivelati dalla rivista Ël Tòr fondata a Roma, immediatamente dopo l'ultima guerra, da Luigi Olivero, che cerca di inserirli nel quadro della letteratura europea contemporanea. Altri periodici in piemontese sono riapparsi a Torino, dopo la guerra: 'l caval 'd brôns (commenti all'attualità della città) e Ij Brandé (gli alari) diretto da Pinin Pacòt che,- seguendo le idee del poeta Nino Costa, morto il 5 novembre 1945 - ha sensibilmente ridotto l'ideale di poesia pura che animava questo periodico, per lasciare spazio alla poesia popolare. La rivista Ël Tòr, al contrario, non ha mai rinunciato a quell'ideale che ha difeso con intransigenza e che le è valsa questa definizione da parte del grande filosofo Benedetto Croce: "La più bella e la più coraggiosa delle riviste folcloristiche d'Italia, una rivista a risonanza europea".

         Tra gli scrittori piemontesi che si sono meglio affermati ai nostri giorni, possiamo citare: F. Viale (Paggio Fernando, 1875-1955), Giovanni Drovetti, Elisa Vanoni-Castagneri, Mario Albano, Maria Ferrero, Armando Mottura, Barnaba Pecco, Giovanni Bono, Aldo Daverio, Alfredo Nicola (Alfredino), Carlottina Rocco, Attilio Spaldo, Neti Demaria, Arnaldo Soddanino,L'Abate Michele Fusero, Ugo Marino, Camillo Brero, Calisto Ghibaudo, Umberto Luigi Ronco, ecc.; i poeti del saporito patois di Mondovì: Carlo Coccio, Francesco e Carlo Comino; i valdostani, in sotto-dialetto un po' roccioso, ma così ricco: Eugenia Martinet, Giovanni Calchera, René Willien; i critici: Arrigo Cajumi, Gigi Michelotti, Ernesto Caballo, Remo Formica, Angiolo Biancotti, Italo Mario Angeloni...

         Una bella squadra!

         Il Piemonte d'oggi ha in Nino Autelli (1903-1945) e in Augusto Ferraris (Arrigo Frusta) i suoi possenti prosatori. Conta soprattutto alcuni poeti molto personali che hanno realizzato le loro opere con un brio e un'arte delle più letterarie: Nino Costa (1886-1945), che si raccorda direttamente alla tradizione popolare elevandola, per il suo spirito e la sua forma, a un livello fino ad ora raramente raggiunto nella letteratura dialettale; Pinin Pacòt che, rompendo i rapporti con la tradizione popolare, ha inaugurato una poesia d'uno stile ambiziosamente parnassiano e per conseguenza malinconico-intimista; Oreste Gallina, che crea una poesia naturalistica, campestre, rude; e infine Luigi Olivero che, per il suo spirito innovatore, deve essere piazzato alla sommità di questo triangolo. Non è senza ragione che il grande giornale americano The Italian Daily News, dedicandogli una pagina speciale ha scritto di lui: «La poesia di Luigi Olivero è viva. E la vita della sua poesia è duratura... Un leader, un Maestro, senza dubbio. Il più perfetto e puro nella letteratura piemontese».

                                                                                            *

         Ed eccoci al nostro autore.

         Luigi Olivero è un tipo del territorio. Un figlio della pianura piemontese. Eppure un bohémien.

         Poeta dalla sua adolescenza, non ha tardato a rivelare una personalità tutta sua, animata d'un nuovo soffio. La sua inimitabile ispirazione prende vita dalle sue origini dì esistenza nomade e avventurosa, e vola su orizzonti insoliti per la poesia non solo piemontese, ma di tutti i dialetti. Si potrebbe anche definire il suo contenuto poetico come anti-dialettale. Questa ispirazione così particolare, spesso estranea al clima piemontese, da senza dubbio un apporto molto originale - in colore e in brio - al paesaggio un po' freddo del Piemonte letterario. L'accentuazione polemica che fa qualche volta di questa qualità ha suscitato attorno alla sua opera discussioni e critiche molto interessanti. Ma l'energia del suo temperamento poetico gli è valso un successo sempre crescente presso il pubblico.

         Quello che si riscontra innanzitutto nella poesia di Olivero, è una purezza e una ricchezza di linguaggio pressoché unica negli annali della poesia piemontese. Noi siamo di fronte ad un signore della parola, che getta i suoi tesori, obliosamente trattenuti dalla sua musica interiore. Questi sono gli elementi nuovi che introduce nelle sue canzoni che favoriscono questo flusso; perché, con Luigi Olivero, il mare, i deserti, le arditezze dell'aviazione appaiono per la prima volta nella poesia subalpina. Altri elementi molto differenti si cavalcano: questo ricordo continuo a Villon, Rimbaud, Tristan Corbière e Garcìa Lorca; questo tono a volte ironico, elegiaco, religioso e truculento; questi ritorni misteriosi, in tutte le sue opere, dell'immagine del fauno...

         La poesia di Luigi Olivero è una poesia giovane, moderna, anche molto moderna, aperta a tutte le nuove vie, ma che non dimentica mai le profonde tradizioni della sua terra natale. Essa s'accompagna a una forma perfino rude e senza pregiudizi, e pertanto segretamente commossa.

         Uno scrittore, che è stato, durante trent'anni, il compagno di battaglie di Luigi Olivero, e che poi ha cessato d'esserlo, ha scritto di lui:

         «...Questo colloquio di Olivero con se stesso, questo canto vario e possente di una forte individualità, poetica ed umana, è di un timbro e di una tonalità così nuova e sofferta che trascende inconfondibilmente il coro modesto dei versificatori vernacoli e pone il poeta al di fuori e al di sopra di qualsiasi linea tradizionale o di scuola o di maniera... Ma forse, al di là della vernacola poesia conviviale dell'otto-novecento, possiamo riallacciarlo ad altri poeti nostri, pensando al forte sapore di certe canzoni isleriane o al giocondo riso delle farse allionesche. E questo per un certo tono audace e disinvolto di Olivero che ci permette di richiamare alla nostra memoria questi antichi poeti nostri quasi sconosciuti, come ci permetterebbe, d'altra parte, di pensare al canto stellare e vagabondo di un Rimbaud, il poeta dalle semelles de vent, o al divino riso di Zarathustra...».

         Naturalmente dei puritani non hanno mancato di criticare certi straripamenti di questo tono. Ma si può rispondere con Balzac:

         «Il biasimo d'immoralità, che non è mai mancato allo scrittore coraggioso, è d'altronde l'ultimo che resta da fare quando non si ha più nulla da dire a un poeta. Se voi siete veritieri nei vostri affreschi, se a forza di lavoro diurno e notturno giungete a scrivere la lingua la più difficile del mondo, allora vi si getta in faccia il termine di immorale».

         Biasimi ben inutili. Nei poemi di Luigi Olivero, c'è la vita vera che canta: esuberante e folle, luminosa e sensuale, sana e aggressiva, ricca di linfa e di passione. Certi poemi sono degli autentici quadri di Rubens.

         E poi, bruscamente, questo ampio grido virile da conquistatore s'attenua in vibrazioni sentimentali. Sono allora parole a mezza-voce, monologhi interiori, confessioni, ricordi.

         Il poeta si ritrova solo, si china sul suo passato, rivede le immagini sbiadite dal tempo e sussurra versi indimenticabili, che riassumono tutta la sua pena:

                                                        Tuta mia vita a l'é na lontanansa,

                                                        tuti ij mè seugn a luso an fond al mar,

                                                        e mi sarai për sempre 'l mainar

                                                        che a cor ël mond an sèrca dla Speransa:

                                                        dla Sibila dë vlù

                                                        ch'a vija an fond al mar dël Temp Perdù.

                                                                                  *

           Luigi Olivero - che i migliori letterati piemontesi considerano come il ragazzo terribile della nuova poesia subalpina - è ben il poeta che, nella sua celeste anarchia, canta per noi, sul suo vigoroso flauto regionale, la giovinezza, l'eterna giovinezza d'una popolazione rude e guerriera, che ha sempre saputo essere libera. C'è in effetti una atmosfera di libertà che si districa dalla sua poesia. Tutte le sfumature d'un temperamento complesso vibrano nei suoi versi, ma sempre su una nota libera, personale, originale. Da qui un'arte incomparabile. Perché se l'arte è originalità, quest'originalità non saprà tollerare alcun compromesso, alcuna imitazione. Ecco la pietra della commozione dei grandi artisti, quali che siano i loro mezzi d'espressione.

Paris le 1er Mai 1955                                                         Alex Alexis

 

 Ij faunèt

Ij faunèt

Ij faunèt

Ij faunèt

Ij faunèt

Ij faunèt

Ij faunèt

Ij faunèt

Ij faunèt

Ij faunèt

 

A un poeta paisan

              A Oreste Gallina

     Poeta, tòrcia a vent

ancoronà dë splùe,

an sle reuse s-ciodùe

dël giardin ëd la ment

visca tò amot bujent.

 

     Slarga 'nt l'ària ij frisson

frisotà d'armonìa

dël feu dla poesìa.

Fa crijé 'nt le canson

ël reu 'd toa ribelion.

 

      Fa splende antorn a tì

la gòi ch'a t'anseren-a.

Anvlupte ant na caden-a

antërsija dë spì

d'òr e 'd bluèt fiorì.

 

     Fa parèj dël cardlin

che, sborgnà, a canta 'ncora

anche se 'l cheur  ai piora

- ant la neuit 'd sò destin -

con làcrime 'd rubin.

 

     Àossa toa fiama al cel.

Fa bate le parpèile

ëd crista bleu dle stèile.

Vira, ant j'ariss d'amel

da lun-a, un ross bindel.

 

     E spàntia su la gent

ch'a rij dla toa folìa

la fiocà d'ironìa

dla toa sënner d'argent.

O viva tòrcia a vent!

               *

     Poeta, resta fier

an sla sima pi drita.

Ti 't ses ël feu dla vita.

T'ses l'ala dlë sparvier.

T'ses ël crij dël guerier.

Ij faunèt

 

Mè faunèt

     Un faunèt ancoronà

'd rape d'uva e dë viòle

a j'é 'nt l'ànima mia.

Ant la stagion fiorìa

'd giroflé e 'd parpajòle

mè faunèt bala 'nt ij prà.

 

      Na monfrinòta 'd boneur

bala e sùbia 'l faunèt

e ij fan còro le siale.

L'ha tut un bate d'ale

- cibibì, lòdne e farchèt -

ch'ai fërfoja drinta 'l cheur.

 

     - Përchè mai, ànima mia,

ant la bruta stagion

t'ses fiapa e derelìa? -

Sensa azur 'd poesìa

mè faunèt, ginojon,

a piora 'd malinconìa...

 

1944

 

Legion d'àngei ëd fiama...

       Legion d'àngei ëd fiama a passo an cel

su strà d'òr e prà 'd viòle a l'orizont

dël Paradis: ant l'ora dël tramont

che na cros ëd diamant lus daré un vel.

 

     Daré 'd col vel ëd perla, an sima al monta,

j'é 'd cò la nivolëtta d'un agnel

quacià 'd zora la cros. E un grand anel

ëd liri 'd seugn ten cros e agnel congiont.

 

     Ma perchè, 'nt cost moment, nompà 'd preghé

- 'd nans che la neuit pagan-a a slarga ij vir

d'j'ombre dle faje e dij sarvan bërgé -

 

     mè cheur faunèt respira ant mè respir?

Che 'd boche e 'd mimin ross j'é ant ij vërzé!

N'arpegg ëd vent... O Amor!... Ombre. Sospir.

 

1953

 Faje bërgere 

     Faje bërgere a filo ij ragg dle stèile

sui fus dle cocolin-e dij sapin

tant che ant l'ombra, moarà 'd rifless vërzin,

d'euj bluastrin a bato le parpèile.

 

     El  faunèt Arsibel, tut rissolin,

a sàuta an mes al bòsch: fripland e tèile

d'aragn e fërpe 'd mus-cc e ragg dë stèile,

pistrognand prà 'd borcëtte e d'ardiglin.

 

     Mago Papacarèa, Strìa Matafan

l'han fàit un malifisse da lontan

e as séulio barba e tërse con la man.

 

     Quand la pi bela 'd cole faje bele

chita 'd filé, e, 'l sërvel an ciampanele,

tira la coa al faunèt... Nà doe binele!

 

1953

 

A un passarìcc ferì

      Dal cel vèrd ëd la tòpia a l'é tombà,

pròpe 'd nans ai mè pé, në sfurniolòt.

L'ha pro sërcà d'arpiesse. Ma, 'nt ël bòt,

l'era stait con na piòta mangagnà.

 

     Ant la cun-a 'd mie man, pòr passaròt,

l'hai cheujìlo e scaudalo con mè fià.

Peuj l'hai ciadlaje sò piotin strompà

con un pò 'd fil e un rissolin dë scòt.

 

     L'hai sofiaje an s'eujìn. E, apress, l'hai daje

dontrè frise meujà 'd molèja 'd pan

che, an tramoland, l'ha picotame an man.

 

     L'hai aossàlo an s'un dil: doe cite tnaje

a së strenzijo a la mia pel... «Corage!».

L'ha sbatù j'ale. E, frrr!, l'ha arpià sò viage.

 

                                 *

     Vòla ant l'ària cilesta, pòr oslin,

tente al sol ch'a l'ha tanti cordin biond.
Son content d'essi stait, an tò cit mond,

una sémpia carëssa dël destin.

 

     Sinch dii a pócio at mando un mè basin.

Masnà, 'd cò mi son tombàè moribond

con na gambëtta rota... Vagabond,

scassà, son rabastame oltre ij confin.

 

     Nò. Mi l'hai mai avù n'ombra 'd boneur:

nen n'agiut, na carëssa, nen na man

l'ha dame aleta ò na fërvaja 'd pan.

 

     Son viv l'istess. Ma a l'é vnu dur, mè cheur,

a l'é vnu sord e grev come un martel:

ch'a bat ë-s-clin për ti, cit rè dël cel.

 

1953

 

Seugn - mignin

     Ant la gola 'd mè gat a canto ij grìi

ch'a fan còro lontan ant la neuit granda.

La béstia as quàcia su mè cheur, aranda

mie man: con sò museto tra ij mè dii.

 

     Ant l'ombra tëbbia profumà 'd lavanda

na bava 'd vent a sbogia 'd fii sutìi

e la cova  dël gat con ël gatii

ëd na feuja dla vis ch'a n'angarlanda.

 

     La neuit a l'é seren-a e andrinta a j'euj

ël gat e mi l'oma ij rifless dla lun-a...

Sugnand ansem, na seugn midema an cheuj.

 

     Pian, doe ciochëtte am coato le parpèile

parèj ëd quand che m'andurmìa 'nt la cun-a

con mè gatin e na pugnà dë stèile.

 

1954    

 

Crocifission an reusa

     Sèrti dí che son mat

i seurto da mè còrp.

Prima adase, ant un seugn,

come nébia da 'n sorch.

Peuj la mia vita a slampa

con d'angorgh ëd sangh càud

ant ël còrp d'una stàtua,

d'una fior, d'un ritrat,

d'un'arbrëtta ò 'd na bestia.

 

     Sens'ombra 'd malifissi,

sensa patì n'arsàut,

mi vivo 'd n'àutra vita

ciaira séulia nossenta

che 'nt mie ven-e a fermenta

con ëd lus e 'd mesombre

e 'd reuse mai goduve

dë spin-e mai sentuve.

E l'hai pi gnun ricòrd

ëd mè ier, pi gnun sens

ëd mè doman. Për mi

a esist mach pi 'l present

d'una sostansa neuva

ch'am fa rimiré 'l mond

e s-ciaré còse e gent

con euj divers ch'a luso

fòra 'd mia carn: e ant mi.

 

     O miraco! O natura!

Còs'é-la costa forsa

che, sensa mòrt, am fa

meuire e arnasse ant un nen

ant tante vite neuve?

Còs'é-la mai cost'onda

ch'a seurt e a torna ant mi

lassandme ant un miragi

'd silensi trasparent:

doa 'm cheuj ël sentiment

ëd maravìa vlutà

d'essi un cit pen-a nà

drinta na cun-a 'd vent

pien-a 'd duvèt d'argent

sota n'arch colorà?

 

     E perchè, sùbit dòp

-con ëd frisson sutìi

un armus-cc ëd bësbìi

e un tonf al cheur... e un crìi

ch'am visca ant ël profond

la prima splùa dël mond -

torno a sente mia carn

torno a savèime un òm:

un dij tanti pòvr'òm

anciodà 'n s'na cros d'ària

con brass e gambe... e un nom

d'ànima solitaria?

 

     Përchè? Përchè? Perchè?

 

     O miraco! O Natura!

O fontan-a 'd mistere!

O mia gòi, mia paura!

O Nosgnor... miserere...

 

1950

 Ij faunèt

Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 55

Le còrde d'òr

 

     Òm fàit ant l'ànima e 'nt ël còrp, Nosgnor,

dòp avèj surbì tuta, an ginojon,

l'eva an-mascà dla sors ëd j'ilusion,

l'hai bin pòch da ciamete or-e-piror.

 

     Na caban-a sërduva 'nt ël canton

d'un bòsch. Un giardinèt ëd pèrsi an fior.

Doi sen drit e un bochin për fé l'amor

quand am cissa l'anvija dël cravon.

 

     Pan e vin. Lait e bur. Vive content

s'un let ëd reuse e s'un orié 'd narsis

tra mùsiche d'osej, carësse 'd vent.

 

     E guardé pende al sol, con un soris,

da j'arch ëd j'erbo antorn a mè convent,

ampicà a 'd còrde d'òr ij mè nemis.

 

1949

 

Prim frisson

     Andoa ch'it sesto mai, Catarinin,

che 't l'has dësviame 'l prim frisson ëd veuja

ch'a preuva un gich novel, tra feuja e feuja,

quand ch'a s-ciòd a la lus ëd la matin?

 

     Andoa ch'it sesto mai, Catarinin?

Sèt ani. Doi pipì fòra dla greuja...

Na pieuva 'd reuse e d'òr cala mineuja

sul bòsch dij mè ricòrd. Sùbia un cardlin.

 

     Scorlo, s'it vive ancor, Catarinin.

J'ero përdusse, an mes a j'erbo, a cheuje

'd mofe për fé 'l presepio: e 'l cavagnin

 

     lo rezijo ancrosiand nòstri dilin...

Na tampa! Un tonf... Doi cheur ant un nì 'd feuje.

Na stèila e un mè frisson tra ij tò brassin.

 

1952

 

Lun-a - bal - sovnir

     Da 'n sla montagna, an front, la lun-a pien-a

m'anlùmina la trassa e a cogia j'ombre

dla balaùstra 'd colonëtte sombre

ant la stansa duvèrta a la seren-a.

 

     Sota, 'l brich a frisson-a, an tuta ven-a

'd soe vis, a l'ària frësca: e ij sò calanch

calo, ant lë scur, fin-a a lë stradon bianch

doa j'é 'n bal fiorì 'd lus. Odor d'verben-a.

 

     Amor ëd fie-farfale che là, 'n fond,

tra cole garlandin-e colorà,

s-coairo a viré come d'antorn al mond.

 

     Oh ij mè vint ani! Oh seugn dël temp passà

che antorn al cheur l'avìa 'n rissolin biond

s'un bal - sota la lun-a - an mes a 'n prà...

 

1953

 

Lambrìs

     Lambrìs d'argent luzijo arèiz dla ròca

stëbbia 'd lun-a 'ndoa 't j'ere stàita mia.

Ricòrdo che, al moment d'andessne via,

na toa man l'era orlà 'd perlin-e 'd fiòca.

 

     Son tornà l'indoman: ant cheur l'anvìa

'd sentì 'nt la rasa alpin-a ij tò sospir.

Ma, 'n broa dla ròca, l'hai artnù 'l respir

e ij mè euj son slargasse 'd maravìa.

 

     L'impront ëd la toa man l'era restà,

slinguand la fiòca. su la crèja scura

cheuita dal sol. Toa bela man, sizlà.

    

     E tra doi dii, arprèis quasi 'd paura,

na frèidolin-a reusa a l'era nà:

come l'ofèrta, an fior, dla toa carn. Pura.

 

1953

 

Na casòta 'd cristal

      Na casòta 'd cristal

s'un ciaplé montagnard

për bagneme lë sguard

ant le nébie dla val.

 

      Un can bianch da bërgé,

una doja 'd bon vin,

ij mè lìber davsin

e un such ross tra ij brandé.

 

     Al calor ëd col feu,

spartì adase mè pan

benedì da le man

ëd mia sgnora 'd j'euj bleu...

 

     Dòp avèj girà 'l mond,

provà fam e boneur,

l'hai cost seugn ant ël cheur

amprovà 'd vagabond.

 

1945

 

Ròca - luva - destin

     Ant l'erba arsùita, cogià randa a ti,

am pias guardete, ròca grotuluva

antërtajà 'nt ël cel come na luva

nèira, a l'avaìt sul mont, ant l'ambrunì.

 

     It fisse la valada patanuva

ch'a s'andeurm ant un let càud ëd piasì.

Tò muso a suzna 'l vent, e, ant j'euj scurpì,

doe luzentele d'òr visco na spluva.

 

     Ròca sarvaja! Su lë spron alpin

sporzù 'nt ël veuid, stasèira soma soj;

soj a l'avaìt, ginoj contra ginoj.

 

     Còsa të spete a sgrinfé nòst destin?

L'ombra ch'an gropa ai fii 'd nòstre radis

l'é an broa dël veuid... Pi an là, j'é 'l Paradis.

 

1953

 

Sangh an sle fior

     L'hai fate un bochetin ëd fior alpin-e

che 'l bon Abà Chanoux l'avrìa laudà.    °

Ma a l'é rëstame un dil ansangonà

scarzand na fèils fronzija 'd ventajìn-e.

 

     N'anel ëd sangh, dal sol ambrilantà,

'd làcrime 'd feu sbrinciava le fiorin-e:

come ant j'euj 'd vendumiòire birichin-e

sprìcio 'd rubin da j'asinej plucà.

 

     Sarà staita na spin-a 'd gelosìa

për la ventura dròla 'd cole fior

che an toa carn l'ha viscà 'd reuse 'd folìa?

 

     Tas... Con në splin sarvaj 'd sèrp an calor,

t'l'has fongà ij dent antorn a mia ferìa.

Oh, nòst deliri, amor!   Sangh an sle fior.

 

1953 

° Pierre Chanoux (Champorcher AO 1828 - La Thuile AO 1909) abate, alpinista e botanico. Creò al Piccolo San Bernardo un giardino botanico che da lui prese il nome di Chanousia.

 

Orìss

     Staneuit ij castagné sfùrigo 'd masche

ch'a fan beuje na bonza 'd sangh ëd prèive,

peuj ant na testa 'd mòrt a taco a bèive

e a dëstërlo 'd mich-mach e 'd tarabasche.

 

     A 'n crèp ëd tron, a në sfalage 'd frasche,

a 'n zigomar ëd lòzna, da n'arbron

anvlupà 'd fiame ai seurt ël gran cravon

Lussìfer Trimegìst: rè dle putasche.

 

     As seta 'd zora un reu 'd sèt cardinaj,

a mangia d'òstie con la sòma d'aj,

a pissa 'd branda an feu 'nt na copa santa.

 

      Peuj dà, për comunion, feuje d'urtije

ai cuj dle masche ch'a spëtëzzo 'd rije...

Peuj, pro. Bòsch, prà: plà. Cros. Alba amaranta.

 

1953

 

Ij rat a canto

                                                             ...la seule occupation d'un homme qui

                                                             se respecte est à mes yeux de regarder

                                          l'azur en mourant de faim.

                                                                                                           Mallarmé

     Ij rat a canto. Gnun ai sent. Ma 'l cant

a l'é 'l sospir nostàlgich d'un violin,

annià 'n fond a la vasca d'un giardin,

con fii ëd ragg ëd lun-a frissonant.

 

     La mùsica 'd bësbìi d'un rissolin

scarabotà da 'd mosche d'òr. N'incant

ëd làcrime dë stèile s'un diamant

ch'a tramola ant le nòte d'un zinzin.

 

     Oh, 'nt le neuit silensiose, che 'd ricam

ëd ragnà vërde! Che 'd rifless dë vlù

a sbogio j'ombre ant coi eujìn d'aram!

 

     E ant n'alba frësca, da un solé spërdù

guardé l'azur an tant ch'as meuir ëd fam

con na canson che gnun l'ha mai sentù! 

1947

 

Ël galòro

     Come ant la giòstra dël Guerin Meschin °

l'hai viste ant una fiesta catalan-a,

guerier maravijos, con la sovran-a

lansa 'd tò bèch, crasé un gal sarasin.

 

     Con la glòria 'd toa crësta a la sultan-a

e j'euj ch'at bruso come doi rubin,

it vëdo torna a sopaté j'orcin

lunà 'd coral, Allah dl'èira paisan-a.

 

     E am pias la fòrsa corma dle toe miole.

Am pias ël sangh che da toe ven-e a scor

a la galura 'd j'euv ëd le toe pole.

 

     Mè cheur a brinda 'd gòi con ij color

dl'arch-an-cel ëd la cova che 't socròle,

ò bel galòro, ant ij trïonf d'amor.

 

1949 

° Guerin Meschino, opera letteraria in otto libri scritta circa nel 1410 dal trovatore toscano Andrea da Barberino, tra favola e romanzo cavalleresco. Pubblicata la prima volta nel 1473.

 Ij faunèt

Disegno di Orfeo Tamburi ~ pag. 77

 

Cantada dla Provincia Granda

 

Quand che a l’alba am dësvija ’l gal paisan

cantand da na cassin-a an mes dla val,

am ven l’anvìa dë s-ciopaté le man.

 

Ël cel l’é anluminà come un missal.

A l’é ancor gnanca ciàir. Ma da la comba

svapora già na fiosca lus d’opal.

 

Peui, ant un nen, ël vel dla neuit a tomba.

Le stèile a nìo ’nt un mar ch’a l’ha ij color

cangiant dël tornacòl ëd na colomba.

 

A l’é ’l moment che crijerìa d’amor

sfrandand con ël galòro un ritornel

an glòria ’d boche e d’euj ch’a rìo ’nt le fior.

 

Ma, come ’l sol batesa ’l di novel,

ij pajé biond a smijo ’d cese d’òr ...

Che ’d crocifiss ëd róndole ant ël cel!

 

Sbalucà dai rifless giàun d’un tesòr,

s-ciàiro un farchèt con ale ’d feu ch’a va,

con mè cheur ant ël bech, ant un sercc d’òr.

 

Mè cheur an sla campagna sconfinà!

E j’erbo a lo saluto a sò passage

con man ëd feuje vërde svantajà.

 

Slansandme apress a chiel për fé sò viage,

sento ant la pera në scalin d’autàr

e ant l’ànima a më splend ël paisage.

                        *

 Òh benedet al mond ij seugn bizar

dla poesìa che ’d vent a m’angarlanda

fasend na fiama rossa ’d mè folar!

 

An vòl ambrasso la Provincia Granda

e tutti ij sò pais, le soe sità

doa ròche e catedraj së strenzo aranda.

 

Soe veje tor son stèile fulminà

ch’a guèrno an sen, nen mach ij ragg dla Stòria

’d j’àquile ’d Roma e ’l sangh dle soe sgrinfà,

 

ma ij blason che an sël reu dl’ùltima glòria

l’han fondù j’arme ant ël martel d’assel

che ’d na spà, piegà ad arch, l’ha fàit na msòira:

 

na fiëtta che s’un fianch bala un rondel

e ant ël pugn nèir ëd tèra dël paisan

a versa ’d cope ’d fior corme d’amel.

 

Quand ëd Prima a comensa a cuspié ’l gran,

quand ch’a j’é ij fen dl’Istà, quand che la rapa

dl’uva – a l’Otonn – a spricia ’d sangh uman,

 

ël campagnin chinandse su la sapa

s’inchin-a con ël cheur d’nans a Nosgnor

present ant l’ostensòre d’ògni mapa.

 

E, antant, a benediss con ël sudor

ij sorch drit ch’ai daran la maravìa

dël pan e ’l vin për le soe gòj d’amor.

 

L’òm ëd campagna a l’é ’l rè dla famija

e sò cheur as fa largh parèj dël mond

dòp ëd j’arcòlt, a la stagion furnija ...

                           * 

Provincia Granda, che dai brich ariond

dle toe Langhe it destende a la pianura

sota ij brass dle montagne e ’l cel profond,

 

tente a la tèra e a l’òm ëd la natura!

Bat an s’j’ancuso, fa arbombé ij to maj,

fòrgia ’d ciadeuvre e fatne una parura:

 

ma ricòrdte che l’òr ch’at pijran mai

a l’é ant jë spi ’d toe amson e che ij rubin

son an toe vis, sle crëste dij tò gaj.

 

Ti, mare ’d mas-cc, paisan e bricolin,

ancoron-a ij tò fieuj con ij diamant

avisch ant j’euj dle spose e dij gognin.

 

Fa che sò avnì sia un bel caval balsant

con la stèila d’Italia su la front

ch’ai berlus ant lë sfòrs dël sàut grimpant.

 

S’j’ùltim tre vir dla stròfa, a l’orizont,

ël farchèt ëd mè vers lassa a l’azar

calé mè cheur sël tò. ’ntant che, al tramont,

 

a cola ’l Pò lontan l’ànima al mar.

Monserà dël Borgh San Dalmass, 1954

 

 

 

Ij faunèt

Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 87

Cantada dle mare montagne

A j’é ’d giornà che le montagne a canto.

Sia che ’l vent a bruìssa tra ij sapej,

sia che l’aria a bësbìa ’d bësbij d’osej,

ëd ventaj musicaj a smìa ch’a svanto.

 

Son ëd misure larghe come ’l vòle

d’un’àquila real ’d zora ij giassé;

son ij frisson d’na boca da basé:

a inglèt, tra ij làver, në s-cianchèt ëd fròle.

 

Son còro ’d ciòche ’d vache montagnin-e

ch’a son-o ij carilion dle sèire alpin-e;

e, a l’alba, as fan d’obade birichin-e,

an cirlimirlifërte, prà e boschin-e.

 

E le neuit? Quand che tuti, bestie e fior,

seugno con feuje d’ombra an sle parpèile,

dij ëd cristal carësso ij ragg dle stèile:

e ’l cel l’é tut na sinfonìa d’amor ...

 

A l’é che le montagne a l’han un cheur

ch’a bat parèj dël cheur dle creature.

J’ale dle gòj, le grinfe dle sventure,

lo visco ’d sol, lo fan sagné ’d maleur.

 

Chi l’ha dit ch’a l’é mach un cheur ëd pera

dur a l’amor e sord a l’armonìa?

La montagna a l’ha ’l cheur doss d’un’avija

ch’a dindan-a an s’na fior a primavera.

 

E, d’istà, l’é pì ross dl’euj dël farchèt.

E d’otonn, l’é un maron quacià ’nt sò pnis.

E, d’invern, a l’é un liri ’d paradis

drinta un mar ondolà ’d fiòche ’d giajèt.

 

Mi, solitare, sempre mai ch’it senta,

cheur dle montagne, aranda a mè cit cheur,

scoto filtré ant mè sangh n’onda ’d boneur

e la mia vista as fa ciàira e nossenta.

 

Ciàira e nossenta come quand che j’era

un cherubin danà, sbatù ’nt cost mond

a prediché ’l Vangel dij vagabond:

s-ciairand, sle sime, ’d bianch autar ëd pera.

 

Coi autar dl’Aventura antornià ’d lanse

che ’l fiolin sensa amor e sensa ca

andasija sërcand për tute strà

con gole ’d luv an cò ’d soe lontananse.

 

Orizont sensa fin dij sò mirage!

Gulie ’d moschee d’òr e ’d palme al vent.

Caviere d’ambra, tra ij rifless d’argent

d’un’élica, an sle sabie dij sò viage.

 

Vòstr oceàn ëd nìvole ai dasìa,

montagne, un’ala nèira a sò mantel;

gorgh ëd tempesta e vele d’arch-an-cel

al galeon corsar ’d soa fantasìa.

 

E vòstre vos ai cadansavo ij pass

e a-j disijo la gòj d’andé cantand:

d’andé cantand e ’d ritorné an piorand,

con sò fagòt dë strass, tra ij vòstri brass.

 

Che ’d basin d’eve frësche, ij vòst confòrt!

Che ’d cussin d’erbe ’d menta, ij vòst përdon!

Tant ch’andèissa ò tornèissa, una canson

ëd sàiva ’d pin për meisiné ij sò tòrt.

 

Fin-a ant ij vòst rimpròcc j’era la vos

(dl’assul ch’arbomba ant una rol ferìa)

’d na mare drùa che sò cit gram lo crìa:

ma as ten la front, quase a fé ’l sign dla cros.

 

E, anginojà dapé ’d vòstre rochere,

chiel as sentìa vnì l’ànima pì bela

d’una stissa ’d rosà ant na gensianela,

e, an sen, fërfojé un nì ’d piume legere ...

 

Adess l’é un òm che, antorn, guarda le tombe

dle soe fòle ilusion mòrte e sotrà.

La lingera ’d na vòlta a l’ha soa ca.

Ma, tombe ò ca, për mòrt ò viv, son tombe.

 

Mach voi, montagne, ij regne ant la memòria.

E, mincatant, j’argale ij vostri autar

ëd pera, ij vòstri bòsch, ij vòstri mar

ëd giassa. Ij torne ’d nans con vòst reu ’d gloria.

 

E ij bute ancor l’anvìa drinta le ven-e

’d posé la testa, pian, sij vòst ginoj:

parèj dij cit ëd gnun ch’as sento soj

e a pasio ant un seugn verd tute soe pen-e ...

                              *

Òh montagne, òh montagne ’d mè Pais,

che ’d mùsiche ’d ricòrd im cante mai!

Sia che tra ij dent vë scuma la rabiosa,

sia ch’i sospire n’ariëtta amorosa:

parèj ëd mare chin-e sël travaj

voi cante ij mè sangiut e ij mè soris.

Mare ’d mia gent, montagne ’d mè Pais.

Monserrato di Borgo San Dalmazzo, 1953

 Ij faunèt

Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 97

Stranòt dij virassoi bërgé

La muanda a s-ciuplìss...

      La muanda a s-ciuplìss ëd virassoi

e, an fond, ël sol anlaga la valada:

sle nòstre boche arson-a na cantada

ch'a bat contra le ròche e a torna a noi.

 

     Tuta paròla a l'é na smens crocanta

ëd virassoi che 'l vent a sgrun-a: e a canta.

 

     Tuta canson a lus come un tesòr

s'j'euj nèir dij virassoi con ij sign d'òr.

 

Gambe 'd camossa...

     Gambe 'd camossa e piume d'aquilëtta

(al vent le frange brun-e dla caviera),

àngel alpin con le fatësse 'd pera,

it l'has tirame un crìi e un gich d'ambrëtta.

 

     Sla sima conquistà con l'ùltim sàut

ël sol a l'era un virassoi  riond, àut.

 

     E tra le lanse d'òr ëd soa curis

ti 't durbije 'l cancel dël Paradis.

 

Ant ël cavagnin d'òr...

      Ant ël cavagnin d'òr dij tò cavej

giustà a tërsin dë spì 'ntorn a la testa,

caland dai brich, it l'has na cita festa

'd margarite, 'd papàver e 'd brusèj.

 

     E ant l'òrt frèsch ricamà 'd tò corsèt vèrd,

tra doi pom zèrb, na parpajòla as pèrd.

 

     As pèrd e a lus (come na perla 'd brin-a

ò na làcrima mia?) na stèila alpin-a.

 

Dorà 'd pèil folatin...

     Dorà 'd pèil folatin la fàcia rùbia

un bërgeròt a canta, stà 'n s'na ròca,

una canson ch'a dis d'na bàita 'd fiòca

strivià dal vent dla neuit ch'a passa e a sùbia.

 

      A sùbia come 'l sìfol d'un pastor

che, ant sò pajon, a ciama un seugn d'amor...

 

     E 'l bërgeròt a fissa 'l lagh profond

doa s-ciaira doi euj viòla e n'ariss biond.

 Ij faunèt

   Disegno di Gabriele Cena ~ pag. 103

                                    Në sludi a l'é passà...

     Në sludi a l'é passà sota l'arcada

e a l'ha viscà 'd lus giàuna un Crist an cros.

Ant la neuit sombra l'hai sentù na  vos

ch'a l'ha arbombà dal mont a la valada.

 

     Son strenzume davsin al tabernacòl,

ai pé dël Crist pendù, sota 'l pinàcol.

 

     E ant ël silensi nèir l'hai sentù pian

toa man che, a cros, guidava la mia man.

 

Ò Wally 'd cavèj biond...

     Ò Wally 'd cavèj biond d'arpa lontan-a

che ant la tormenta 't ses passame aranda:

ànima profumà 'd fior ëd lavanda,

le carn ëd liri, euj ciair d'eva 'd fontan-a.

 

     E con un dil ëd giassa, ant ël mirage,

't l'has fame sègn ëd seguité mè viage:

 

     vèrs a l'ùltima balma, l'ùltim pòrt,

doa l'amor pur a splend ant j'euj dij mòrt.

1953

 Ël boch   (Cantada dël bòch)

 

L'hai ël cheur dossignù coma 'n bëscheuit

e veuj ë-smonlo a la toa fam bërgera,

ò bionda paciaflüa cassinera

d'j'euj gris ch'as meujo ant la rosà dla neuit.

 

Fòra, al seren, ant l'eira corma 'd feuje

giaune e 'd cavèj ëd melia dësfojà,

veuj dësblete j'ariss e la consà

e su toa gola pasturé mie veuje.

 

Ant ël còro di grìi e al pior dël cioch

veuj che 't fasse arsinon con ël mè cheur,

ò bela fiassa tëggia 'd mè boneur!

Peui veuj piete a cornà parèj d'un boch.

 

Veuj che tombo e 's raviòto sota 'l cel

ch'a fà da bardachin a nòstre nòsse

rudie, paisan-e: tra doe angurie gròsse

përgne 'd ciairdlun-a coma 'l nòstr servel.

 

Veuj che 'l bium ë-sbogià da 'n sl'aliamé

e m'intra an mes ai sign e drinta j'euj

për podèi s-ciaire, sensa gnun ambreuj,

le stèile che l'hai nen savù conté.

 

Veuj specé mie fatësse sla toa pel

dl'istess color dla lun-a: un pòch fanà

e da 'd cite lentije pontinà:

toa pel ch'a taca e a lus coma l'amel.

 

E la mia barba con la barba bionda

dla melia, tuta arissa e a fìi sutìi,

veuj ch'as mës-cia e a furmiola a fé 'l gatij

longh i tò fianch ëd cicia reusa arionda.

 

Veuj fete rije 'd na rijada pien-a

che dal gariòt at canta fin-a ai ren

e për le ciape at filtra ant ël teren

ch'a deurm, sugnand l'amson, a la seren-a.

 

Mi l'hai mai vist na neuit di'istà parija!

Adess ël cioch e i grìi chito 'l bacan

e 'nt lë stabe le bestie a rumio pian.

Vast ël silensi sla natura a vija.

 

Or j'é pi gnun-e vos ch'a ciamo ò a pioro.

L'aria as fronsiss bagnà d'anvije dosse

ant ël tranfié dle nòstre boche rosse

mordùe a sangh dai nòstri dent ch'a foro.

 

E 'l sangh di nòstri làver a l'é un feu

ch'a sfiama su - da le radis lontan-e

d'j'erbo, dla tèra - e a va 'nt le ven-e uman-e

dla nòstra carn ch'as tòrz coma 'nt un reu.

 

Tërpignand con j'arsaut dru dël cravon

veuj sambleme a tò còrp, mòl ëd sudor,

e spërmte, ant na s-cissà viva 'd dolor,

tut ël velen dla mia generassion.

                        

Bela fiasson-a tëggia e sarvajùa,

pìjte mia gòi d'amor për tò linseul,

la mia front për cussin- Ma fame un fieul

ch'a sapia 'd tèra. 'd rame. 'd vita crùa,

 

dla sàiva ch'a të scor drinta le ven-e,

dla fòrsa aserba di tò mùscoi fòrt:

testa viròira sensa pensé stòrt,

stòme corsàr ch'a ruta su le pen-e.

 

Bela paisan-a con i sen puntù,

fame brusé d'amor sla tèra cauda

che tut ël dì l'é tnusse 'l sol an fauda!

Sgrafign-me, su le feuje, patanù.

 

Ma dame 'l fieul, dame la creatura

ampastà con mè sangh da le toe man

e peui arcàuss-me con i pé lontan

e peui lassme - sfinì! - sl'erba ch'a mura... 

                           ~

Son mach un malparlant ai tò eui gris,

ò rubia paisanòta da marié.

Ma am ven na veuja 'd rije da dërné

se 't ven-e 'd brasa al feu d'un mè soris...

 

1929

Ij faunèt

Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 113

Cantada dël diauleri dij pé forcù

 

Quand che l’istà a së slarga an sla campagna

e l’odor dël mentass as mës-cia ant l’aria

con ël profum dl’erbëtta limonaria,

as dësvija ’l diauleri ch’am compagna.

 

Ël diauleri, ch’a deurm neuv mèis a l’an

sota mia vestimenta sitadin-a,

arissa ’l pèil, a ponta fòrt la schin-a

squarsand la seda dël rispet uman.

 

E a sàuta galarù ’nt l’erba novela

con mila stiribàcole e sgambèt,

a s-cionfa ’d rije ant l’ombra d’un boschèt

mordend a sangh la fruta moscatela.

 

As tonfa drinta l’eva dle pëschere

sbaciassandse tra ij sàles e ij sambù,

ai fa le svergne a n’arsigneul përdù,

a dësnicia un levròt tirandje ’d pere ...

 

E s’a vëd na matòta an vesta reusa

ch’a fa marenda a l’ombra d’un busson,

mè diauleri as sent pià da un gran frisson

e a-j sàuta a còl dré ’d na caussagna ancreusa.

 

Ël can a bàula. Antorn, vache e bocin

a scapo sbrinciand l’erba ’d làit galup

e la Bela e la Bestia – ant un anvlup

ëd pèil e ’d rissolin – mës-cio ij basin. 

                            *

Òh bon diauleri con ij pé forcù

che dòp set vòlte che ’t l’has fàit l’amor

te strojasse an sla riva d’un neivor

mastiand un broncc ëd ciuciamaro cru:

 

e ’t crije e ’t cante al bon odor dla vita

ch’ai ven su da la tèra ambrass al sol

e të spece – tra ij branch fòrt d’una rol –

ant ël cel grand toa bela ànima cita!

 

Òh bon diauleri che ’t dësvije ant mi

rissand ël pèil e sopatand la schin-a

tut ann, a magg, quand che l’istà a s’avsin-a

e ij gran a muro e j’erbo a son fiorì;

 

ti ’t ses la part pì rudia e pì nossenta

dla ciàira e svicia gioventura mia

e veuj che ’t la manten-e degordija

e veuj che ’t l’ancoron-e d’erba ’d menta:

 

fin che an sle piante ai subierà n’osel,

fin che ant ël cheur am canta un ritornel! 

1934

Ij faunèt

Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 119

Ij faunèt

 Disegno di Giuseppe Macrì ~ 121

 

                        Tèra paisan-a                                                

     Veuj scassé la sivìtola dle pen-e                                   

ch’a l’ha fàit la soa nià drinta mè cheur                       

e a l’ha ‘nluchìme l’ànima ‘d maleur.              

Veuj che mè sangh a scora ant le toe ven-e                       

   

     e che ij mè pols a cheujo tò boneur,                                     

tèra paisan-a! An sle toe pupe pien-e,          

s’j’erbe novele an but për le moren-e,                       

veuj ch’a s’angrìngio le radis d’mè cheur.             

  

     Ant la mia ment veuj ch’a së specia ‘l cel,                  

come a së specia ant j’euj d’una masnà,                 

con tuti ij sèt color ëd l’arch-an-cel.                        

  

     Cogià arvèrs ant un sorch pen-a scarsà,               

veuj essi come un dent d’n’èrpe d’assel            

ant la tèra ch’a fuma al sol d’istà. 

1928 

                        Egloga mínima                        

                                  Ille ego qui quondam…  

     Bej gran, dorà dal sol, che maravìa                        

‘d na fàula ij conte al vent ëd la colin-a?         

La fàula svìcia ‘d na salamandrin-a                

ch’a scapava al mè amor ch’a la vorìa.             

 

     Trames jë spì, con ba rijada s-clin-a         

chila as voltava e l’eui ai bërlusìa:                        

ma un fil d’gramon, bëschì da soa cavìa,    

ai tira na trapëtta birichin-a.                                  

 

     Mi fas un sàut e la mia man la toca…         

Quand son sentume vni come un frisson             

su për ij ren e ai nerv un tramolon.                      

 

     L’hai tnula fòrt. Ma, boca contra boca,           

pòvri spì d’òr, soma cascave ‘d zora.                         

Peuj… ij papàver ross a rijo ancora!  

1927        

                             Cantaran-e                                     

     Cantaran-e dla neuit, vsin-e, lontan-e, 

le ran-e a canto sota ’l cel steilà 

e ij grij a vrin-o, a fé la bela vià, 

le nòte sclin-e dle canson paisan-e.

  

     Lumin ch’as perdo për le bussonà 

(parpèile cite, stofie ’d còse van-e),

e cel e tèra a fan j’an-namorà 

tant ch’a ciusion-o ’d lor le tre fontan-e. 

 

     Fontan-e arionde, tute bordà ’d pere, 

che v’atarde ant la neuit a ciaramlé 

coma tre paisanòte comarere, 

 

     cheteve ché la lun-a av veul parlé …  

Un bate d’ala, un pass, doe man legere: 

na stèila ch’a robata ’n sël senté. 

1927 

                   Vendùmia dë stèile 

                                          CHOPIN: Nocturne op. 9, n. 2 

      Canta con tut l’argent ëd la toa gola 

candia – ch’a sà la gòj ëd la mia man; 

canta, che la canson a vòla sola, 

coma un’ala ’d cardlin, lontan lontan.

  

     e se la neuit a cala e s’as fa sola 

l’ànima ’nt ël silensi dij rïan, 

canta, che la toa vos a la consola

e ’l cheur – ch’a scota – a sangiutiss pì pian.

  

     Dal cel a pendo ij rapolin dle stèile 

madure a la vendumia ’d nòstr amor 

e l’ombra, antorn, l’é un frissoné ’d parpèile … 

 

     L’ùltima nòta a s-ciòd come na fior: 

mentre le pen-e a deurmo sot le stèile 

e ij seugn con le speranse a fan l’amor. 

1927  

                                                                      Paisagi sota la fiòca

  

                       Tristizia                                                                        

     I pin an miniatura                                                                

sislà ‘nt un cel ëd giassa                                               

scajo ‘d neir la bordura                                                 

da Sant’Ana a la piassa.                                                

 

     Parpajòle ferije                                                          

- file drite, antërsìe -                                                           

ale càndie, fior càndie,                                      

fiòco le litanie.                                                 

 

     E ‘l silensi bianch-reusa                                              

(la grand’ala dësteisa!)                                            

cova l’ànima ofeisa                                                    

për ch’a s’ciòda la reusa.                                      

  

     Ma i nassrà na baldanza                                                

ògni rupia ‘ndurmìa                                                         

ch’a massrà la speransa                                               

euj-ëd-nita da strìa.                                                     

 

     Se ‘l cussin a l’è candi,                                                 

s’a dindano le pene,                                                    

ël savuj ëd le vene                                                      

scor adase, a pié l’andi.                                            

 

     …Mi veuj fé na corona                                               

con le giòie pì fine                                                       

për cissela dë spine                                                     

l’ora freida ch’a sona.    

 

                      Confiteor 

 

     Nen pioré, veuj, nen meuire. 

Gnune nòte doleuire 

veuj ch'arsono 'nt le vene 

che ti, amor, t'ëm fass piene.

  

     Veuj tenté n'armonìa 

faita 'd nòte lontane 

con j'andure paisane 

vërde-giaje 'd malìa.

  

     Veuj pasié la tristëssa 

con ël mòrs e la brila, 

con na gòi pì sutila 

d'una bianca carëssa. 

 

     E se 'l cheur a rantela 

sota l'ansa 'd'na sfita 

veuj ch'a brusa la vita 

ant ël reu dl'ora bela. 

 

     Veuj che un crìj ëd vitòria 

rompa l'aria dla seira: 

foatand l'ala neira 

con la fiama dla glòria.

  

     E l'amor veuj ch'a canta! 

E la gòi veuj ch'a crìja! 

Veuj che l'ànima a sia 

una spà 'nt l'aqua santa!  

Vila Stlon 1929

 

                   L'erba galìa 

     Minca un pass che fasìa 

un lumin as viscava 

sle pianà che lassava 

sul prà d’erba galìa 

che, ant la neuit, a s-ciuplìa.

  

     S-ciuplìa d’euj ëd galèt 

sle pianà d’un faunèt.  

               Ël demone ‘d mesdì                                                                

     Su da le reis angavignà ‘nt la tèra,                            

su da le vene ‘l desidere arbeuj                                   

e la mia man at tasta prima e at cheuj                

parèj dël pom madur ch’a casca ‘n tèra..              

 

     Boca su boca, sensa vëd-.se ant j’euj                                   

(ant i cavèj n’odor d’erbassa amèra)                       

 randa a lë Stlon, che ten la cauna a meuj,     

i nòstri nerv son grop ëd serp an guèra.              

 

     Bela e sarvaja, ant ël calor d’mesdì,                                   

tuta toa carn a l’è ‘n foré dë spì:                              

zanzive rosse al sangh ëd la rijada…                                  

  

     I bei rimòrs a passo andrinta ‘d mi                            

coma ‘n vòle  ‘d colomb sota n’arcada.                     

E un gal a canta për la gran solada.  

Vila Stlon 1927                            

 

                        La serp                                                                  

     L’hai vistla da masnà, la serp oslera,              

coacià a l’avàit contra le rèis d’na pianta.                                                                                           

Sle rame an fior un bel re cit a canta                           

e ‘l cant jë stissa an sl’onda ‘d na bialera.            

  

     Ma j’è na testa con j’euj verd ch’a svanta                    

su la cadansa dla canson legera:                         

e tra j’erbe sarvaje dla bruera                                       

la bissa a sghija pian randa a la pianta.               

 

     Tut a l’è pase ant l’ora dël mesdì.                           

Ma ‘nt ël calor ch’a cësis quasi e a sfiama                      

un sube tramolant a smia ch’a ciama:             

  

     e ‘l re cit a cor giù da rama an rama,                            

a sàuta ‘nt ël gramon tut degordì…                                 

Peui: doe piume e un po’ ‘d sangh tacà a në spi. 

1930 

 

               Vèrs d'una neuit d'istà  

     Maint poème est la cage où chante 

un vers captif. 

Emmanuel Lochac,  Monostiches 

Le monostiche, ainsi conçu et réalisé, 

est bien un poème en vers. 

Georges Lafourcade 

Sota ’l chinché steilà dla neuit profonda. 

Su lë specc dë smerald ëd la pëschera. 

La lun-a a frisa ij sò cavèj dorà. 

Ij fij a canto coma un còro ’d grij. 

Ij fij ëd seda scantirà dël vent. 

Frissoné d’eve sui cussin ëd nita. 

Tute le perle dla rosà tra j’erbe. 

Fior, fior ch’a dindan-o, orcin dël seugn. 

Ël mus-cc a pend, giù da le scòrse ’d j’erbo. 

Vos cantarin-e ’d boche përfumà. 

Sl’ànima sombra ’l sofe ’d na malìa.

E un miraco ai mè euj, pian, as dëssela. 

Le toe man bianche tèise vers ël cel. 

(Colombe ch’a-j dan j’ale al desidere). 

Ij tò pass cadansà ’d zora ij mè pols. 

Ij tò euj: doe ciochëtte a la seren-a. 

(Ant le ciochëtte: ’d luminin ch’a frijo). 

Ma toe parpèile a bruso coma ’d làver! 

Toa boca su la mia: në slussi an cel. 

Ij tò dentin contra le mie zanzive. 

Noi respiroma ’l respir dle radis. 

Sentoma bate un cheur ant ògni feuja. 

La toa carn reusa a s-ciòd da la toa vesta.

Silensi ’d neuit d’istà, profum ch’antesta. 

A-i cola an s’j’erbo na dosseur d’amel.

Ël tò còrp ch’a së smon a un bagn ëd lun-a! 

Le nòsse dël pecà con toa passion. 

Le faussìe dij mè ren sijo ’l piasì …

  

     Le toe forme scurpìe – ’d marm – su la tèra. 

 

     … Ij tò sospir d’angel uman cascà. 

Baulé dë schergne d’un cagnass ramengh. 

Sui mojiss ëd cristal, arfiajì ’d lësche. 

Un babe gnògno ch’as buta a subié. 

Saruss ëd l’erba a la nebia d’argent. 

Tre ran-e martin-e a taco a sauté. 

E ij grij arpijo a fé sò virulitt. 

Ma, adess, l’écloga as cangia an elegìa. 

Òh stèile, euj largh su le folìe uman-e! 

Vòstri euj sensa pietà cisso ’l rimòrs. 

Làcrime: fije dl’ànima e dël cheur. 

Àngel che ’t piore e t’ëm mostre a pioré. 

Ij tò sangiut martelo su mè cheur.

Mè cheur arbomba, sol, come na tomba … 

Pòvr’ànima sbardlà a na mia carëssa. 

Mìstica reusa ant un gerb ëd tristëssa! 

 

     Neuit, neuit d’istà, corma ’d velen e ’d blëssa! 

1936 

 

                Le trè patìcie  

     Tre fiëtte a pijo ’l bagn ant na fontan-a. 

Un-a a rij, un-a a canta 

e l’àutra – chin-a an sl’eva – 

a bat con le doe man, 

con bel ghëddo paisan, 

ël temp ëd la canson sle cheusse arionde

e aj pendo ’d zora ij sen le tërse bionde.

  

     N’avija 

e na farfala 

a vòlo an sla fontan-a. 

 

     Na ran-a 

a sghija 

a pansa mòla e – ploch – a sàuta via.

  

     Na feuja ’d sàles dëstacà dal vent 

a së sbalàucia tacà ’n fil d’argent, 

fin ch’a së s-cianca ’l fil e chila a vira 

ant l’aria tëbbia 

e a cala

’n sla spala 

dla fiëttin-a ch’a rij: 

                                      a rij 

                                                 a rij 

                                                              a rij 

përchè un pëssin babòcc l’é anfilasse tra ij dij 

dël sò pé drit, e, a fòrsa dël gatij, 

la fa ’nsupé ant le nite

mandandla a cul a meuj e a gambe drite. 

  

     ... Sla riva as chin-o tërdes margherite

sbrincià da na slampà ’d tërdes ëstisse 

bleuve 

an sle testin-e giàune e bianche arisse: 

e as ten-o tute tërdes 

a tërdes ragg ëd sol, 

për nen droché, chërdend ch’as buta a pieuve … 

(1935)

 

                    Tramont 

     Ël sol a l’é un pugn ross con un ventaj 

dë stëcche d’òr duvèrt an sla montagna. 

L’aria as fronziss ëd verd. Ël cel a sagna 

sël fil ëd sàber d’un giassé ’d cristaj. 

 

                Message                                              

     Tant che j’era cogià                                                         

tra spì ‘d gran e papavèr                                                

na farfala vlutà                                                   

l’é volame an s’ij làver.                                             

  

     A l’è andasse e tornà                                                       

con na festa ‘d gatìi.                                                    

Fior e bàuce andorà                                                  

as passavo ‘d bësbìi.                                                   

 

     Mi sentìa ij frisson                                                        

- è-lo ‘d mòrt, è-lo ‘d veuja? -                                     

d’una reusa an boton                                                    

che, a ‘n sospir, as dësfeuja.                                         

  

     A l’è stait un basin                                                     

d’ale rosse.  Na fiama.                                             

N’ànima? ‘N rissolin?                                                 

O ’n message ‘d mia Mama?                                       

1951

Ij faunèt 

Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 153

                          Un nì

L’ha vist d’eve corìe e ’d bòsch an fior, 

bel vagabond con në s-cianchèt ëd menta 

trames ai làver, për la strà lusenta 

sle pianà dle lingere e dij tocor. 

 

L’é gionzusse a le fèje dij pastor. 

L’ha durmì ’nt ij ciabòt tra la tormenta 

e a l’é nutrisse con un pò ’d polenta 

meujà ’nt ël gius dij làver ross dl’amor. 

 

J’amor dël vagabond a j’ero san: 

còtia l’andura su doi fianch paisan, 

le tërse bionde come dë spi ’d gran.

  

Sò cel, soa gòj, cangiavo tuti ij di. 

Ma a l’é fërmasse – strach – ant l’ambrunì 

e a l’ha piorà ’n sle busche d’òr d’un nì. 

1936

  

               Tòrce a vent 

                                   Yo tengo el fuego en mis manos. 

                                   Federico García Lorca  

Fiame, rosse caviere 

che spatare ant ël vent 

le farfale d’argent 

ëd le spluve legere. 

Fiame, rosse bandiere.

  

L’hai sërcà ’d carësseve 

pen-a vistve, da cit: 

che ’m cissave un invit, 

n’anvìa fòla ’d baseve. 

Spricc ëd sangh ch’iv soleve. 

 

Mese lun-e ’d faussije 

anfiorà, come ’d làver, 

de spi ’d gran e ’d papàver 

sota un vòle d’avije. 

Lenghe ’d fàun cioch ëd rije.

  

Crëste vive ’d galòro 

come giòie ’d sufrin; 

doje përgne dël vin 

dle vos càude dij còro. 

Feuje ’d vis ch’a s’andòro. 

 

Foèt giàun ch’a s-ciuplisso 

dësneudà come ’d serp: 

tra la fum ëd jë sterp 

euj ëd brasa ch’at fisso. 

Cove ’d tigri ch’as drisso. 

 

Cheur avisch d’alegrìa 

ant la neuit frissonant 

con rifless ëd diamant 

cangià ’n feu për magìa. 

Cornà ’d tòr ëd Sevija. 

 

Fianch foà ’d bailadora  

ch’a së stòrzo ’d piasì 

sbrincià ’d sangh benedì

dël Crist nu con j’òss fòra. 

S-cirpe ’d mùsica mòra. 

 

Bussonà ’d reuse mate 

dij tramont ëd cel vèrt 

che l’hai vist sij desert 

con ël ghibli a combate. 

Simitare scarlate. 

 

Reu ’d colòne torzùe 

’d mausolei egissian 

s’j’orisont ëd safran 

tajà ’d palme spërdùe. 

Trombe ’d sabia e dë splùe. 

 

Ale ’d màchine ’d guèra 

tra garlande ’d color, 

canson drùe ’d motor 

ch’a rimbombo an sla tera. 

Tèra ’d sënner amèra. 

 

Scaje ’d pèss tra le fèrle 

dij boschèt ëd coral 

sota ij mar stërnì ’d sal 

e ’d cuchìe orlà ’d perle. 

Euj d’olive ant le gèrle. 

 

Fiame! Stèile marin-e 

fëstonà ’d zora ij sen 

d’Aventura ch’a ven 

coroneme dë spin-e. 

Òh, ij mè seugn, mie ruvin-e! 

 

Ma sël nèir paisagi 

dla mia vita ’d torment 

àosso un pugn prepotent 

con na tòrcia ’d coragi. 

E un sorch, ross, l’é mè viagi ... 

       *  

Tòrce a vent, crij ëd fiama 

ant la neuit sensa fin: 

compagné mè destin 

vers la lus doa lo ciama 

ël silensi ’d mia Mama. 

Roma, 7 dzèmber 1947

  Ij faunèt

          Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 163

                               La poer 

An sël mè cheur gorègn ëd vagabond 

j’era la póver dlë strà ’d tut ël mond. 

Amor m’ha batù ’l cheur con un tërfeuj 

e cola póver l’é volarne ant j’euj. 

 

                   Mè rosaire nèir 

                                     Amors de terra londhana,

                                     per vos totz lo cors me dol!

                                     Jaufré Rudel 

Òh Mama, lassa che vada 

a dësvijé l’aventura 

an tant che l’aria a l’é pura 

’d zora la bianca cascada.

  

Caval a j’onde armoniose, 

contra la barca dle pen-e, 

a scherseran le siren-e 

cantand soe veuje da spose.

  

Fior ’d velenose fragranse 

navigheran su la sponda, 

s’anlïeran d’zora l’onda 

’d feuje crosià come ’d lanse. 

 

Batend ij rem a fior d’eva, 

con fòrsa neuva e goliarda, 

la volontà pì sbëfiarda 

su ’l mè destin farà leva. 

 

Vëdrai le cese ’d verdura 

chinà ’n s’j’autar dle rochere 

e ij monument ëd le pere 

scurpì ’nt ël sen dla natura. 

 

Scoterai l’eco dla guèra 

sle canson triste e lontan-e: 

rosare dle carovan-e 

për ij desert ëd la tèra. 

 

Tocrai la tèra ch’a fuma 

come na piaga duverta, 

angringià ’d serp ma deserta 

da rabia uman-a ch’a scuma. 

 

Sarai amis ëd le piante 

ch’am daran j’ombre sorele: 

come le nòstre, pì bele, 

ch’a j’é ’nt j’amson frissonante. 

 

Giunzend le man a scudela 

beivrai ël sol ch’a t’ancioca 

– pugnalerà la mia boca 

la sèj ch’a rusia e a dësbela. 

 

E vëdrai l’òm ch’a në schiva, 

la pel color ëd la sèira: 

fognandje l’ànima nèira 

vëdrai na lus forse viva! 

 

Mè sangh, pì tërbol dla nita, 

ciamrà ’d cò chiel la bataja 

– la prima! – aussand la zagaja 

a le sorgiss ëd la vita. 

 

Sarai ël rè dle crosiere: 

l’arch e la flecia a scarsela, 

’d zora un gamel sensa sela 

via! sle pianà dël mistere. 

 

Cassrai la bestia ch’a crìa, 

con ël cotel mojà ’d tòsse, 

festegerai le mie nòsse 

scarsand l’antica ferìa. 

 

L’avrai ëd fomne ’nt la gabia 

con le colan-e ’d cuchìe 

con le caviere ancutìe 

për rabasteje ’nt la sabia. 

 

Adorerai na figura 

sislà con l’ìntima pen-a 

dël pòvr’artié ch’a s’antren-a 

a rusié ’l cheur dla natura. 

 

E le vos ràuce dij pare 

m’aramberan l’esistensa, 

longh a j’andor dla cossiensa 

’d zora n’acòrde ’d chitare. 

 

Neuit. Proverai na cantada 

sle vos ch’a gelo le spin-e 

a ’n luminé mie ruvin-e 

con un’inmensa rijada. 

 

Guardand l’arionda dëstèisa,

tra le ragnà ’d mila stèile, 

sarand pian pian le parpèile 

rivëdrai l’ànima ofèisa: 

  

– Òh Civiltà! Veja Euròpa, 

come na jena të spusse! ... 

M’andurmirai sensa crusse 

a còl d’un seugn ch’a galòpa. 

 

Ël feu viscà con la pera 

savrà scassé ij disingani 

ch’a l’han guastaje ij vint ani 

a costa pòvra lingera ... 

                   * 

Òh, lassa che vada, Mama! 

L’hai fovatà la paura. 

Quand che la tòrcia a l’é pura 

ël vent jë slarga la fiama! 

Alger, 1931

  

                    Làuda dël marabut 

S’na canissa, nu, dëstèis, 

al ruin dël sol d’istà, 

veuj rësté con j’euj slargà: 

marabut ch’a prega Allah,

 còrp e spìrit sensa pèis.

  

E s’a va la carovan-a 

con le s-cirpe rosse al vent, 

mi la guardo indiferent: 

la saluto con la ment 

tant ch’as perd travers la pian-a.

  

Frev ëd guère e ’d lontananse, 

desideri d’aventura, 

ilusion ëd fomna pura, 

l’hai përduje an gioventura: 

son mach pì dle ricordanse. 

 

Ël ricòrd a l’é na fior 

corma ’d vin lusent e seule 

che ti ’t bèive quand ch’it veule 

e ’l tò sangh a dventa eule:

 eule ’d palma a tò dolor. 

 

Ch’a travaja ò ch’a marcanda 

l’òm dël souk ò dla tribù,

l’òm dla lege ò col dl’abù, 

pr’avèj fomne, sòme, scù 

o un palass a Samarcanda ... 

 

La richëssa a conta gnente, 

ma ’l Coran a conta tut. 

Ël travaj a fa vnì brut, 

pensé tròp fà rësté mut.

 Mej sté cogià longh: e sente. 

 

Sente ij pass dla gent ch’a va 

– con dë spin-e ant ël sërvel, 

d’òdio an sen për l’infedel 

e na man ’d zora ’l cotel – 

për le viëtte dla Kasbah. 

 

L’infedel ëd la pel bianca 

scàuda ant cheur seugn ëd conquista 

ma l’ha un’ànima assè trista 

e la mòrt lo ten ëd vista, 

come noi, e, un di, lo ranca. 

 

L’é destin meuire e marsé 

sota tèra ò tra j’erbass, 

past ëd verm ò ’d cornajass, 

sota ’l cel ò fra quatr ass. 

Tant a val deurme e sugné! 

 

Preghé Allah, grand e potent, 

për ch’an fasa meuire bin: 

sensa gòj, sensa sagrin.

Fin che ’l sol a va al declin 

e na stèila as visca al vent.

  

Con ëd sabia an sle parpèile 

nèir e bianch son tuti bej; 

rich ëd poj e rich d’anej,

ant la seugn, a son fratej! 

 

E mi rijo al rìe dle stèile. 

Tebourba (Tunisia), 25 dzèmber 1932

  

                 A windy Day

                                            A picture by E.F.G. Guérard (1821-1866) at

                                            Walker's Galleries, New Bond Street, London 

Na giornà ’d vent a l’é na maravìa 

ch’am ripòrta la ment vers a l’età 

dle young ladies biondin-e an falbalà 

ch’as tiflavo ’d bel deuit e ’d poesìa. 

An sël vitin ëd vespa bin sancrà 

ël bras d’un gentleman a së strenzìa, 

con ij nerv frissonant, për ten-je a fren 

le tortolin-e svice ’d doi bej sen 

ch’a spompavo ant ël vent për volé via.

  

Ij suportin ëd paja dij capej 

as dësversavo ad ògni colp ëd vent, 

a volavo ant j’ariss ij doi bindej 

mal anlijà sota ’l facin rijent. 

E le veste – òh le veste! – a l’era mej 

quacesse: për che j’euj impertinent 

a pudèisso nen vëde le cavije 

e tante d’àutre còse bin turnije 

ch’ai piaso ai giovo e a fan soride ij vej! 

 

Al rondò ’d Piccadilly ambandierà, 

na rela ’d birichin pèiver e sal 

së stermava da para d’un fanal 

con la flecia tra ij dij tèisa, bandà: 

spetand che un sofe largh ëd maestral 

aussèissa ij rigadin dla nobiltà, 

për sfrandeje un bel òss ross ëd ceresa

ant le ciape carnose ’d na Marchesa

con le vestin-e a rova svantajà. 

 

Veste larghe dë vlù bordà ’d pissèt 

aussà dal vent – come na man dë spos: 

d’un ëspos impassient e malgrassios

ch’a veul toché ’l cicin ’d zora ij caussèt!

 S-cirpe ’d seda listà ’d color giojos

ch’a dëscurbìo, su ’n cheur, un cit bochet: 

un bochet ëd violëtte profumà 

ch’a volavo an sla tuba ambalsamà 

d’un honourable sir surtì dal ghet! 

 

Londra antica, busiosa e moscardin-a, 

che t’ij mostrave al Contin ëd Cavour 

la siensa dla polìtica ’d jë sgnor!

 La polìtica inglèisa busiardin-a 

ël Cont a la vëdìa ’nt Lady an fior

dal portament superb d’una regin-a. 

Ma quand ch’a jë vnisija un colp ëd vent 

dai paìs pì davsin dël Continent

 – ahidé! – che sgiaj a tnisse la vestin-a: 

 

për che gnun ai vëdèissa an sle brajëtte 

ij sign ëd le manasse dij corsar 

che, tornand dai paìs dë ’d là dai mar, 

ai fasijo ’d carësse bin maunëtte! 

 ... E ’l nòst Contin – paisan particolar – 

as rangiava j’ociaj ëd le stanghëtte, 

adociava col gest e a concludìa 

che për intré ’nt le grassie ’d cola fija 

l’era mei nen parlé dle soe brajëtte ... 

 

L’òm furb ai ciama mai a na morosa 

vaire mas-cc, prima ’d chiel, a l’ha ambrassà; 

ai fa nen ël process al sò passà 

s’a l’ha avù n’esistensa ... facessiosa. 

Ai passa ansima al nùmer dij pecà 

e as gòd la soa carn reusa prosperosa. 

Come ’l vent, ëd cò chiel ai tira via 

la pleuja ricamà dla lingerìa 

susnand la polpa còtia e delissiosa! 

 

Giornà ’d vent, che t’ëm pòrte a ricordé 

le tradission polìtiche dla Stòria 

dël mè Piemont gentil coronà ’d glòria 

che tante còse a l’ha savù s-ciairé! 

Sensa mai anciochesse con la bòria 

– ma con un pò ’d furbissia e ’d savèj fé – 

ël birichin Piemont dël prim Eutsent 

quanti òss ëd ceresa – ant ij di ’d vent – 

a la young lady a l’ha savù tiré! 

 

Windy day – largh, arios – an sla sità 

dle miss bionde parèj dla canamìa, 

ti t’ëm traspòrte con la fantasìa 

a n’época tròp bela e dësmentià: 

ancheuj che un vent ëd guèra a pòrta via 

s-cirpe, bindej, pissèt e falbalà!

Pròpe ancheuj che ant ij cheur la poesìa 

l’é mach pì na fior sëcca. Ancheuj, ch’a nija 

andrinta un mar ëd sangh l’umanità. 

Londra, mars 1940

 

 Ij faunèt

          Disegno d IGiuseppe Macrì ~ pag. 187

                          “Gitana”

 

                             Gitana, que tu serás                            

                             como la farsa monea

                             que de mano en mano va

                             y ninguno se la quea.

                                       Zambra popular

¡Gitana, te quiero, 

gitana andaluza! 

Su l’argent dij tò euj 

(ant la neuit tormentosa

 randa ’l feu milonguero) 

a frisson-o ij mè euj. 

 

¡Gitana, te quiero! 

 

Son ’d cò mi dla toa rassa 

sensa pas, sensa ca. 

Për un mont e na pian-a 

son un sìngher ch’a va: 

na ligera ch’a passa 

vestì ’d seugn e ’d frustan-a. 

 

¡Gitana, te quiero!

  

Lassme stende le man 

su la giòla ’d tò feu. 

Lassme sté ’nt la neuit sombra 

ant ël ciair dël tò reu 

ch’a dëstend la mia ombra 

tra col mòrt e toe man ...

  

¡Gitana, te quiero! 

 

Ti ’t ses sola e ti ’t piore 

ginojon su la tèra 

randa un mòrt ch’a l’ha fate 

e rendute la guèra. 

Për dontrè teste mate 

nòstri cheur son dësmore ... 

 

¡Gitana, te quiero!

  

Pijme al pòst dël tò mòrt 

che të strenze sul cheur:

mi sarai tò cambrada 

ti ’t saras la mia seur. 

Për la strà dla valada 

marceroma pì fòrt ... 

 

¡Gitana, te quiero!

  

 ... e lassroma andaré 

tuti ij viv, tuti ij mòrt 

ëd cost mond ëd canaje 

ch’a-j regalo a la Mòrt 

nòstri cheur për midaje 

e nòstri òss për candlé ...

  

¡Gitana, te quiero!

  

... e ’s n’androma lontan 

për le strà pì lontan-e; 

troveroma ij fratej 

ëd le gran carovan-e; 

sentiroma dai vej 

che ventura an diran ...

  

¡Gitana, te quiero!

  

Ma an diran na ventura 

fàita ’d pas silensiosa 

càuda ’d sol e d’amor! 

Òh mia brun-a morosa,

mia compagna ’d dolor 

d’una neuit tormentosa, 

d’una neuit trista e scura, 

ancontrà su la tèra 

meujà ’d sangh da la guèra 

                              randa un bòsch 

                              randa un mòrt 

                              randa un feu milonguero

  

¡Gitana, te quiero! 

Lérida, mars 1938

 

                    “Goyesca” 

Am piaso le fumele ’d sang bujent                               

ch’a balo ’d sarabande a la torera  

con un ghëddo da Càrmen sigarera 

e na reusa ch’aj sagna an mes ai dent.

  

E sui làver a l’han na piega amera 

e ’nt j’euj l’han ij rifless giàun e tajent 

dlë stilèt d’òr con j’inissiaj d’argent 

ch’a stërmo tra la cheussa e la zartiera.

  

Le fumele ch’a balo su le piasse 

tra në sventaj dë s-cirpe colorà 

e un trabaté ’d tamborn guernì ’d midaje 

 

E ’l sol dë Spagna a ’nvisca le muraje 

anfiamand ij pogieuj ross fioragià 

d’ariss tirabasin e ’d piante grasse 

Sevija, 1937

  

                          A un pàira dë scarpon "Made in England" 

Vòst coràm a l’é stàit bandà ’n sla schin-a 

drun tòr chërsù ’nt ij pasch d’Andalusìa, 

mòrt con sij còrn tuti ij rosé ’d Sevija, 

na spà ’n sla front e al còl na bandierin-a. 

 

Sëccà dal sol, onzù ’nt na faitarìa, 

l’han rotolalo an sl’orlo ’d na banchin-a 

e un bastiment con vele argentà ’d brin-a 

sl’onda dël mar a l’ha portassilo via.

  

Da na copeusa ’d Londra seve nà, 

ò fieuj dël tòr che, minca un pass në sgari,

corije ’l mond për mi vint ani fa.

  

E adess iv treuvo an fond a un vej armari.

Ancora dru, scarpon, dòp tanta strà! 

Mentre mè cheur a l’é rusià dai giari. 

22 avril 1955

 

                          Fontan-e 'd Villa Borghese 

Òh faunèt ch’i vë spòrze an sle fontan-e 

a sbrincé le nereidi patanùe: 

le nereidi dle cove ’d pèss torzùe 

e con ij sen ch’a spompo ’d veuje uman-e.

  

Òh bej sarvan che, an s’j’erbe molanciùe, 

v’argrigne për vaité ij sàut ëd le ran-e: 

e son-e, ant vòstra fluta, arie pagan-e 

gonfiand ëd gòj le panse bëdrassùe. 

 

Òh triton verd che ’mbranche con le man 

ij fianch ëd le siren-e euj-ëd-giusmin 

për anfileje al còl perle ’d basin. 

 

Òh maravìa ’d cost mè seugn pagan: 

podèj cangeme ant un bel cit latin 

e cavalché ’n sla gheuba d’un delfin! 

Roma, 1945   

                                             Balada për ël gran giubileo dël prensi dla fam

Ò canson dël fieul scassà da sò pare ma che a l'ha trovà l'istess për ël mond sò boneur 

Quand che mè pare a l’ha 

mandame via da ca, 

j’era giovo e malave, 

j’era sensa un quatrin: 

l’avìa mach ij lumin 

dij mè euj për pioré. 

E, tut-un, son partì 

lassandje ’l mè bondì,

sensa ciameje un dné 

nì volteme andaré. 

 

Quand che mè pare a l’ha 

mandame via da ca.

  

Quand che mè pare a l’ha 

mandame via da ca, 

portava doe ferije 

ant na gamba: e mè sangh 

samboirava ij sorch bianch 

dla fiòca sij mè pass. 

Epura, a dent ciavà, 

son rabastame an là: 

bindandme con dë strass 

e rëmnand con ij brass. 

 

Quand che mè pare a l’ha 

mandame via da ca. 

 

Com Nosgnor l’ha vorsù, 

son nen mòrt. L’hai vivù 

sle pianà dl’Aventura: 

ranchësand vagabond 

tra ij bòsch ëd cros dël mond. 

Travajand për mangé 

son vnu prensi dla fam: 

sensa diventé gram 

e sensa mai robé. 

Consolandme a canté. 

 

Quand che mè pare a l’ha 

mandame via da ca. 

 

Quand che mè pare a l’ha 

mandame via da ca, 

òh, mia mare a piorava: 

ma a l’ha lassame andé. 

Forse a savìa ch’a j’é 

na stèila an tut maleur … 

E, an sle mie strà ’d dolor, 

l’hai peui trovà na fior 

con ël nòm dël boneur 

ch’a l’ha steilame ’l cheur.

  

Quand che mè pare a l’ha 

mandame via da ca. 

 

Quand che mè pare a l’ha 

mandame via da ca, 

chërdìa mai pì ’d troveme 

sla tèra un àutr abrì. 

Ma – dòp avèj sufrì 

da sentme soné ij bòt 

dl’angonìa ’nt ël sërvel – 

com l’é piasuje al Cel 

ancheuj l’hai mè ciabòt 

pien ëd seugn sanculòt. 

 

Combin che ’l pare a l’ha 

scassame, un di, da ca.  

 

ENVOI 

 

Pare-paronto che 

veule pì bin ai dné 

che al frut ëd vòstre ven-e, 

vive con vòst rimòrs: 

mòrde, s-ciumand, ël mòrs 

ëd vòstra crudeltà. 

Adess mi l’hai l’amor, 

un ni tra vigne e fior. 

Voi, sensa ca e danà … 

Vàilo a dì, canson. Va! 

1953

 

                                                                                    Sicilia

 

Vin. Sangh. Feu.

Mar ëd perla antorn a un reu.

Reuse. Amor.

Fior color cel. Cel color dle fior.

  

                          Ël vej dle sabie 

                                               Y yo soy el que me voy. 

                                                                        Góngora 

E mi son col ch’as na va 

vers la mòrt, ògni giornà. 

 

O vej bianch con j’euj profond, 

Temp, ti sol it reste al mond. 

’T reste, etèrn, con tò strument 

– siass ëd véder trasparent – 

a siassé la sabia ’d j’ore 

che ant la Vita ’t lasse score. 

Vita ’d sabia. Statua d’ore. 

Pen-a fàita, ’t la sotore. 

‘T na fas n’àutra an dontré ore. 

Pen-a fàita, ’t la sotore … 

‘T la rifas. E ’t rije e ’t piore. 

Pen-a fàita ’t la sotore …

Temp, vej bianch, che a siassé j’ore, 

për passé ’l temp, it dësmore 

con ël cheur d’una masnà 

sël sabion dl’eternità … 

 

E mi son col ch’as na va 

vers la mòrt, ògni giornà.

1951 

 

                  Ritratin ëd la gòj 

Na madonin-a piturà dal diàu, 

pien-a ’d grassia inossenta e d’argent viv, 

con un sercèt ëd lusentele an testa 

e na coron-a ’d reuse tra le man.  

 

                    Stèilin-e 'd fiòca 

Stèilin-e ’d fiòca che ’m rubate an s’j’euj 

mostrandme ’l paisagi bërlusent 

dël Paradis: e ’v cange ant un moment 

ant làcrime gelà ... Stèilin-e an s’j’euj! 

  

                 Lë stronel

A pieuv al sol. E mi son cogià ’n tèra 

patanù come un ròch flinà dal vent. 

Da la mia pel sbrincià ’d gosse d’argent 

a sfiama n’odor tëbbe d’erba amèra. 

 

Na fiorin-a ’d genestra am pend tra ij dent 

e a smìa piantà ’nt una chërpura ’d tèra. 

Tra ij pèil dlë stòme am lus na cita guèra 

’d mosche e ’d farfale avische ’d ragg bujent. 

 

Scurpì ’nt la pera scura dla montagna, 

scoto gnanca pì ’l tranfi ’d mè respir: 

ël mar, da val, më smon sò largh sospir. 

 

Con ëd frangëtte d’òr, la pieuva am bagna. 

Rùid. Grev. Un ròch. Ma j’euj a guardo ’l cel: 

e ’l cheur am bat al vòl bleu ’d në stronel. 

Uscio, 1948

 

 Ij faunèt

 

Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 215

                          Cantaglòria 'd San Fransesch dël desert

Òh San Fransesch, amis

ëd j’ore triste mie,

che ai làver ëd soris

t’ëm pòrte – amel d’avije −

e t’ëm dësvìe ’nt j’orije

un ciricì d’osej.

E ai dij it l’has d’anej

ëd fior d’avemarìe

e, stèile ’d sangh, ferije

sle palme benedìe.

 

Fa gòj lavesse j’euj

an tò lìber duvèrt

ch’a l’ha na sors, tra ij feuj,

d’eve profumà ’d verd.

 

Fa gòj, d’antans-antan,

tonfé la facia, pian,

ant la conca ’d toe man.

Toe man ansangonà

dai ciò dla Santa Cros

ch’a stisso na rosà

’d sangh ëd reuse odoros

an sla mia carn piagà

dai luv nèir dij pecà.

E ti, su mi chinà

come ’d zora un lepros,

it meizin-e, pietos,

mè cheur d’onta cuvèrt.

San Fransesch dël Desert!

 

San Fransèsch dël Desert,

tornanda da lontan

d’anté che l’aria a beuj,

as dà ’l miraco uman

che arnassa un cit paisan

con n’anima ’d tërfeuj

e un cheur pomin d’amor

e un plage ’d persi an fior,

na testa rissolin-a

d’erbëtta cresporin-a ...

se torno, sensa orgheuj,

bagné ij lumin ëd j’euj

ant j’onde dij tò feuj:

venà dl’azur ch’a l’han

le ven-e dle toe man.

 Ij faunèt

Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 220

Toe man

fàite ’d des ëspì ’d gran

lijà da ’d frisson doss

a doi papàver ross.

 

Toe man.

Piume ’d ragg d’òr luisan.

 

Toe man.

Ale sagnante an cros.

 

Toe man

carcà ’n slë stòme, pian

– ant ël bel gest cristian

dl’Ave! maravijos –,

con ij doi pols consèrt.

Come un missal duvèrt.

 

San Fransesch dël Desert!

1952

                                Invocassion a Notre-Dame de Paris

                                                      «Au pied du Crucifix souvenez-vous des morts de la guerre.»

 

Paròle scrite su l’inginojator piassà dë ’d nans al gran Crocifiss ch’a j’era ant la sconda navà a drita dël portal d’intrada dla Catedral ëd Notre-Dame de Paris. Ël Crocifiss a l’era contornà da na fra ch’a resija quatr candelié ’d diversi brass. Daré dij candelié, da na banda e da l’àutra, sinch bandiere li­stà a deul.

Costa invocassion a l’é stàita inmaginà a Paris, ant ël 1940, pòchi di prima dël cròl militar ëd la Fransa e dl’intrada an guèra dl’Italia.

 

Notre-Dame dë Paris, sla toa faciada

ij sant ëd pera a levo ’l pastoral

mentre ij frà, ginojon, reso ’l missal

e un son d’òrgo a compagna na cantada.

 

La cantada dij sécoj dla toa Stòria

òh Fransa ’d Carlo Quint e ij rè cristian;

Fransa dël Còrs che con soe stesse man

s’ancoronava imperator an glòria

 

e tra le arcade gòtiche ai passava

un’ala ’d sacrilege aquilonar

che chiel l’ha dovù sente an mes al mar

quand che ’n sla soa ruvin-a a sospirava.

 

Òh Notre-Dame, rochera benedìa

doa ’d tanti sécoj son rompusse j’onde

scumand la rabia, ’l deul, le gòj profonde

tant che ògni pera e n’é restà scurpìa.

 

Òh Notre-Dame ëd l’Esmeralda ’d seugn,

ëd Quasimodo gheub e mangagnà

che le toe ciòche ’d brons a l’ha sonà

piorand sò amor ch’a galopava leugn.

 

Òh Notre-Dame che të më strenze ’l cheur

con tute le toe strije e ij tò diauleri,

le sivìtole ’d pera e ij tò misteri

ch’a fisso la sità sombra ’d maleur:

 

ch’a fisso, ant costa neuit nìvola ’d guèra,

ij croass dël dolor e dla ruvin-a

avsinesse ant un vòl ross ëd rapin-a

su Paris ch’a sangiuta front a tèra.

 

Òh Notre-Dame, nav corma ’d poesìa

che ant ij bej di dla pas, sla sità granda,

të ’lvave an cel, parèj d’una garlanda,

gulie e colombe al son dl’Ave Maria:

 

e le rive dla Seine, davsin a ti,

t’ofrijo a primavera j’orm an fior,

le bele fiëtte e le canson d’amor

ch’at profumavo l’aria d’ògni di ... 

* 

Òh s’a fa mal rivëde ant l’aria scura

ëd costa neuit ëd guèra sensa lun-a

la bionda pecatris an vesta brun-a,

Paris la bela, strangolà ’d paura!

 

Paris che, ancoronà ’d reuse e ’d basin,

a dansava dë ’d neuit la soa folìa

ma ai primi artoch soav dl’Ave Marìa

s’anginojava ’d zora ij tò scalin;

 

e ti, Mare pietosa, it përdonave

le soe svincëtte mate ’d gioventù

përchè ’t savije che ’l sò cheur dë vlu

l’era nen gram: e ti ’t la carëssave

 

e t’ij mostrave, ant la matin nebiosa,

la dura stra ch’an fa merité ’l pan

e Paris as signava con la man

e a corija al travaj brava e seriosa.

 

* 

Òh vita! Giòla fìèivola, ala bleuva,

che ’t chin-e sota a le ventà dël visse

ma t’arpije con fòrsa e ’t rifiorisse,

sle sënner grise, splendrienta e neuva!

 

Òh, ’l vòl d’àngej ch’ai seurt da cola fiama!

Da la tempesta frosa dël pecà

së spantia an cel n’asur ëd santità.

La putana d’ancheuj, doman l’é mama.

 

Doman sla neuit ëd l’ànima pì ancreusa

a së slarga na pieuva ’d pentiment

e j’euj ëd l’alba a vëdran luse al vent

la làmpada votiva d’una reusa ...

 

Òmini fier che ten-e ’l nòst destin

sarà ’nt ël pugn come na spa tajenta,

dnans ëd dovrela a dé la mòrt violenta

fevne una Cros për recité ’l vòst bin.

 

Për l’amor ëd col Òm giust ch’a l’é mòrt

anciodà su la Cros tra ij doi ladron,

vërsé ’n sla vita l’eule dël përdon,

fé splende costa fiama, òmini fòrt.

 

E ricordeve che la Vita uman-a

a l’é fija dla Grassia e dël Pecà,

ma che su chila a vija la Bontà:

la Bontà ’d tuti j’òmini sovran-a.

 

Nòstra sovran-a an nòm dla Grassia eterna

ch’a splend ant j’euj dla Mare ’d Gesù Crist.

Vòstra sovran-a che dai consèj trist

dël demòne dël Mal venta ch’av guerna.

 

Venta ch’av guerna da j’oror dla guèra,

da la fòrsa dël Mal armà ’d canon:

strument ëd rabia, ’d mòrt, ëd distrussion,

ch’a squarso ’l sen ansangonà dla tèra ... 

* 

Òh Notre-Dame, òh Notre-Dame fransèisa,

Notre-Dame dël mè cheur ëd vagabond,

salva la Fransa, salva tut ël mond

da costa trista guèra ’d malintèisa.

 

Nòstra Sgnora ’d Paris, për tuti ij pior

dle mare an ginojon dnans a la frà

dël Crocifiss ëd tanti mòrt soldà,

fa chité costa guèra ’d disonor.

 

Ti Mare, ti pietosa, ti ferija

ant ël cheur sangonant da set ëspà,

mandje un ragg luminos ëd toa bontà

al cheur dla bestia uman-a anvelenija.

 

Manda l’àngel dla pas sl’umanità.

Notre-Dame de Paris, stèila ’d pietà!

Paris, giugn 1940

Ij faunèt

Disegno di Orfeo Tamburi ~ pag. 233

                        Làuda dël mar

Òh Mar,

bel sivalié

antich

cala dai brich

ëd Ronsisval

come Orland a caval!

 

Splendrient d’un’eterna gioventura,

cuvert da n’armadura

bërlusenta e temprà,

të spron-e a sangh

tò caval bianch

ch’a svanta la coa,

ch’a sopata la còma,

ch’argrigna ij dent

ant una corsa mata:

campand le scume ’d sò furor al vent

come ant na bela giòstra dël Tërzent!

Ij sò fianch, ëd tenës-cia scantirà,

as dëstendo sël mond

(anfiteatro ariond)

come doi arch bandà.

E ti, bel sivalié

faità

a la dosseur dla pas

e a la rabia dla guèra,

’t lo férme ’d colp con në strincon violent

’d nans a la Tèra:

dë ’d nans a toa morosa

ch’a të speta, grassiosa,

cogià ’d zora ’l tapis dle sabie d’òr

ch’a jë scàudo ’l bel còrp come un tesòr.

La Tèra

morëtta càuda, slanghìa,

che, tuta dësvestìa,

a speta che t’ij fase fantasìa

frenandje ’l tò caval

davsin

(con le doe madreperle ’d j’onge

e l’òr dij doi ciapin

ch’a luso ’d mila splùe

’d zora soe spale nùe)

rampand ant l’aria con un sàut frontal

sota lë stendard ross dël sol trionfal.

La Tèra càuda, òh Mar,

ch’a frisa tuta ’d gòj sota l’asar

dël còrp inmens, arcà,

dël tò bel caval bianch

ch’a pudrija pistela:

mentre, anvece, ti ’t cale giù da ’n sela

për core a ’mbrassela:

e ’t coge aranda a carësseje ij fianch!

 

Òh Mar,

bel sivalié

antich

cala dai brich

ëd Ronsisval

come Orland a caval!

1939

 

                        Cita làuda dël pan

Amprend a spartì ’l pan con le toe man.

Toclo mai con la lama d’un cotel.

Ël pan l’é sant, l’é benedet dal Cel.

Romplo adasiòt coma ch’a fa ’l paisan.

E scotlo a schërziné. L’ha ’l ritornel

’d në spi bëschì da l’ala d’un osel.

 

               Làuda dle catedraj

                                                   A la memória 'd Nino Costa

Catedraj ëd mia vita ’d vagabond

doa l’hai pregà sensa paròle uman-e

ma con tute le pen-e mie cristian-e

ch’am sangiutavo drinta ’l cheur profond.

 

Monument dël dolor dl’umanità

batì con j’òss ëd marm ëd le rochere

che guerne ant vòstre ven-e, përzonere,

le làcrime dij sécoj tramontà.

 

Cùpole asure come j’euj dla Glòria

che fisse ’l cel con l’ànima dla tèra ...

Ant na tërbola neuit d’alarma ’d guèra,

mie catedraj che ’m torne a la memòria!

 

Catedral ëd Turin, doa che, masnà,

con j’ale ’d j’angelèt bianch ëd l’autar

l’hai volà ’n tèra Santa, ’d là dël mar,

con elm e lansa, Cavajer Crosià.

 

Catedral ëd Westminster, àuta e scura,

ùmida ’d nebia, ò ròca maestosa,

doa son sentume un’ombra ant l’ombra frosa

ch’a fiairava un odor ëd sepoltura.

 

Catedral angiojà ’d Reims an ruvin-a

(ël gal d’assel forà ’d bala nemisa)

con Jeanne d’Arc ch’a pianta ’nt l’aria grisa,

vers ël mar ëd j’inglèis, soa spa divin-a.

 

Notre-Dame ëd Paris, seur dolorosa,

che ’t l’has viscame ’d poesìa ’l cheur:

mè cheur fiorì dle spin-e dël maleur

ch’a spërm al vent na làcrima sagnosa.

 

Santa Sofìa d’Istànbul, milenaria

erca scurpìa ’nt ël marm ëd Costantin,

doa l’hai sugnà la Cros dël Fieul Divin

coaté la spa dël Turch sospèisa ’nt l’aria.

 

Catedral ëd Sevija, òh maravija

d’una vision che ant j’euj fiss am passava:

Juan Tenorio, vej, gheub, ch’a pregava

con la colan-a ’d perle d’una fija.

 

Catedral ëd San Pietro an Vatican,

ànima inmensa dl’univers inmens,

doa Michel Àngel, su la fum dl’incens,

l’ha solevà ’nt l’asur nòst mond uman.

 

Catedral ëd San March, perla marin-a.

Santa Maria ’d Firense, liri ’d seugn.

Ò miraco d’Orvieto che, da leugn,

të m’ampinisse d’òr l’ànima alpin-a!

 

Catedraj, catedraj ëd la mia vita,

dla mia vela asardà pòrt ëd fortun-a,

doa son intrà chinand la testa brun-a,

portand sui làver na paròla cita:

 

bësbiand un’Ave! bianca, sensa vos,

come ’l sospir dël cit ch’a nass al mond

e a sent già ’d vive drinta un mar profond,

ant ij gorgh dël mistere tormentos.

 

Catedraj, come ’l mond batije a sfera,

che strenze ant un ambrass un e divers

tute le fòrse prime dl’univers:

e l’aria e l’aqua e ’l feu sclin e la pera.

 

Ma la pera a l’é ’d crèja benedìa.

Ma ’l feu l’é d’una fìama ch’a n’ancanta.

Ma l’aqua vòstra a l’é d’un’onda santa.

Ma l’aria a l’é cilesta ’d poesìa.

 

E tut arviv ant un deliri ’d glòria.

Ël sol ch’a filtra da le vedrià

a-j dà ’d parpèile d’òr ai Sant chinà

su jë scartare d’òr dla Sacra Stòria.

 

La paròla, colomba dël Vangel,

e cala giù dal pùlpit, a bat j’ale

tra le colòne ’d vòstre arcade uguale,

a scàuda ’l cheur ëd l’òm e a vola an cel.

 

E la mùsica dl’òrgo a cheurb dë stèile

ël paradis ancreus dla vòlta granda

tant che l’autar s’anvlupa ant na garlanda

ëd reuse rosse an fior su le candèile.

 

E ’l còro dij rimòrs dlë creature

arbat come un martel sui ciò dla Cros,

arbomba come un gran cheur misterios

ch’a veul liberé ’l Crist da la torture ...

 

Òh fontan-e d’anciarm e ’d maravija.

Òh cuchije arsonante d’armonìa.

Òh ciòche ’d perla sislà ’d poesìa.

Òh combe. Òh trombe. Òh reu ’d lus infinija!

 

Ànime arionde ’d pera, ànime vive,

catedraj, cope ’d sangh dël Crist uman,

che la guèra av rispeta; che le man

dle nòstre mare a sapio benedive;

 

ch’a reso tuti j’òmini dla tèra

con soe spale quadrà vòstre muraje

– anche s’a strenzo con soe man sarvaje,

anflà ’d pàuta e ’d delit, j’arme dla guèra;

 

che sui ravagi ansangonà dla mòrt,

ant le tormente ’d feu su le frontiere,

le vòstre ciòche a-j pòrto ’l miserere

ai cheur ch’a ciamo al vent l’ùltim confòrt;

 

che peusse rësté an pé drite e sicure

– quand anche antorn a fussa già crolà

l’ùltima sosta dl’ùltima sità –

për benedì le nòstre seporture.

 

               Catedraj!

 

Catedraj ëd mè cit cheur vagabond

che spalanche le pòrte ’d brons sul mond.

Roma, dzèmber 1941

Ij faunèt

Disegno di Giovanni Consolazione ~ pag. 251

                «Dies iræ»

Costa a l’é la quarta dle sèt part ch’a compon-o una “Messa paisan-a cantà da la Mare d’un por soldà mòrt guèra”. La Mare a l’é anginojà an s’na ròca scura dë ’d nans a un Ossare ’d montagna ch’a guèrna j’òss ëd sò fieul: e a jë smìa ’d vëde un prèive bianch che, su col autàr ëd pera desert, a disa la Messa da mòrt che chila a canta an sangiutand.

Quand che su da costa tèra

coatà ’d ròch, d’erbassa amèra,

s’aosseran ij mòrt dla guèra;

 

quand che tute le Toe trombe

desvijran j’òss da le tombe

sle montagne, pian-e, combe;

 

quand che ’l tron ciamrà a giudissi

nòstre colpe e nòstri vissi

giù ’nt ël creus d’un precipissi;

 

’d zora cola, vai inmensa

it lesras la Toa sentensa,

ò Nosgnor d’ogni cossiensa.

 

Ti ’t védras, Nosgnor, antlora,

un paisan biond ch’a lavora

’d camp che al sol a sfiamo ancora.

 

Sò bel camp che l’hai guernaje

për ël gran ëd le batiaje

dl’angelèt che ’t l’has nen daje.

 

Mè por fieul (sòrt dolorosa!)

’d nans ëd sèrne la soa sposa

l’é mòrt su ’sta ròca frosa.

 

Sovagnà l’ha soa campagna

da paisan ch’a guma e a sagna

e soa mica as In guadagna.

 

Al travaj, mia creatura

l’ha fàit seulia ógni giuntura

dij sò òss e la pel dura.

 

Da masnà pasturand fèje,

da grandin a spòrze e a mèje:

mai storna da ’d brute idèje.

 

Òm, sò pugn scurpì in sla slòira

mai slanghisse ’d na mariòira

tra ij dilin d’ bòja pëssiòira.

 

Drit – parèj dij sorch ch’arava

doa la smens peui vantolava –

l’ha marcia da masnà brava.

 

Sempre! E un di l’han piamlo an guèra.

A më smija ancor nen vera

ch’a sla mòrt su costa tèra.

 

Òh Nosgnor, quand che t’èn ciame

 ant la vai circonda ’d fiame,

salva ’l fieul che ’t l’has donarne.

 

Da le strop dlë fèje mate

sèrn la fèja ch’a l’ha date

sò lait bianch, soe lan-e fate.

 

E col’ombra, ch’a lavora

dare ij beu parèj d’antlora,

ciamla a Ti ’nt col’ùltim’ora.

 

Sla soa front l’anima mia

fa, col di, Nosgnor, ch’a sia

na farfala benedìa.

 

N’òstia bianca, n’òstia cita,

për guide la Toa man drita

vers la fior ëd la mia vita.

 

’d nans a costa seportura

scota ’l crij dla mia tortura:

«Salva, ò Crist, mia creatura!».

 

Hic ergo parce Deus:

Pie Jesu Dòmine.

Dona eis requiem. Amen.

1947

 Ij faunèt

Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 259

                    La preghiera dël sangh

                                             Ex putredine vita

Ò Nosgnor dij mè vej, biond-sorident,

che ’t l’has guernane da masnà ’nt la cun-a

quand che strenzija già ij pugn inossent –

ant ij mè pior – anvers a la fortun-a.

 

Nosgnor che, avsin a la caviera brun-a

chin-a ’d mia mama, it j’ere lì present:

tant che ant la neuit, tuta anlagà ’d ciairdlun-a,

vos d’àngej am portavo ij buf dël vent.

 

Nosgnor; la neuit d’antorn a mi l’é scura

adess, e j’angelet son sensa vos,

sensa confòrt l’é ’l mal ross ch’am tortura.

 

Guarda: na mama a slarga j’euj pietos

d’zora ’l miraco d’una creatura

ch’as preuva torna a fesse ’l Sign dla Cros. 

  * 

Ch’as preuva torna a bësbié pian Tò Nòm,

Nosgnor, come a coi temp ch’a s’andurmija

con le man giunte sl’orassion furnija:

l’orassion dësmentià ’nt ël cheur ëd l’òm.

 

E, coma da n’angorgh d’eva corija,

ai ven-o a gala tante cite fior

candie parèj dël pan dl’Eucaristìa:

le paròle ’d Toa làuda ant sò dolor.

 

Ò Nosgnor, ò Nosgnor, chin-te, s’it peule,

randa a la mama, come ai temp passà,

a pasié l’òm coma ch’it l’has pasià

 

ël cit che antlora it carëssave seule ...

Ël cit che peui da grand l’ha bëstemiate

e ant la tomba dël cheur l’ha soterate. 

  * 

Da la piaga fongà ’nt la carn ancreusa

mè sangh at ciama, càud d’adorassion,

forsand le ven-e; e ’nvers a Ti a së smon

tant che la piaga as deurb come na reusa.

 

As deurb. E a seurt – ël sangh ëd mia passion –

coma da mila cheur an-namorà

dal cotel ëd la vita sacagnà:

mè sangh ch’a l’ha provà tuti ij frisson ...

 

As visca tra le binde, come un feu

ch’a versa la soa fiama e ’l sò calor

e ch’a m’anvlupa ’l còrp tut ant un reu.

 

Un reu ch’a splend ant la mia neuit, Nosgnor,

mentre ch’it torne ant una lus d’Amor

randa a mia mama e avzin a mè dolor. 

  * 

 ... Lassme pì nen – fin-a a la mòrt – Nosgnor!

1937

Ij faunèt

Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 265

                      Mistà d'òr

An sla mia testa a j’é

tre àngej a caval

fratej dij sivalié

gravà drinta ’l missal

ëd la fàula ’d Natal.

 

Ij sivalié ch’a van

su tre cavalin mòr

vers ël Cit ré cristian

a porte ij sò tesòr

ëd mira, incens e òr.

 

E la neuit sël desert

a profuma ’d giusmin,

ël cel a l’é cuvèrt

d’euj viòla ’d cherubin.

E lontan j’é ’n lumin.

 

Un lumin fait a cheur

che s-ciairo fìn-a mi

che l’hai avù ’l maleur

d’vorèilo fé sparì

dal seugn dij mè bej di.

 

Staneuit l’hai doi pais.

Un ëd sabia, african,

 con stèile ’d fior d’alis.

L’àutr ëd fiòca, nostran,

con ël Mont Bianch lontan.

 

Ma tuti doi, an fond,

l’han col ciairin a cheur

ch’ai dis a tut ël mond

ëd désmentié ij maleur

an pregand con dosseur.

 

E ch’an dis la bontà

’d marce ’n sem da fratej,

an lassand le piana

– con dë schérzin d’osej –

sle pianà ’d nòstri vej.

 

Ch’an dis d’andé, ’nt lë scur,

nòst brass ch’a res n’àutr brass

për marce pì sicur,

vers ël Cit rè ch’a nass

an sla paja d’un giass.

 Ij faunèt

Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 270

Ël Cit ch’a ven a j’òm

ëd bon-a volontà

– dal grand autar dël Dòm

e dal pilion stërmà

ant na balma gelà –

 

për ësmon-ne ’l regal

dla lus ch’an dà ’l confòrt

ëd fene vëde ’l mal

e ’d përdonesse ij tòrt

e ’d fé na bon-a mòrt ... 

              *

Staneuit am fiòca an s’j’euj

e ’n s’j’erbo a bat ël vent;

tut antorn l’é n’arbeuj

ëd mulinej d’argent.

Ma vad sensa torment.

 

Che ’n sla mia testa a j’é

tre àngej a caval

fratej dij sivalié

gravà drinta ’l missal

ëd la fàula ’d Natal.

1949

 

                    J'euj ëd j'Àngej

J’àngej dël Paradis,

ant una neuit violëtta,

sbalucà da le stèile

a son cascà ’n sla Tèra.

 

Dë ’d zora ’l mond an guèra

l’han durbì le parpèile

e tuta bajonetta

l’ha s-ciodù ’n fiordalis.

 

A l’alba, su la Tèra,

j’era pì gnun nemis.

1946

 Ij faunèt

Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 275

                        Nòna malinconia

                                             Matron Melancholy ...

                                             J. Warton: To Fancy

Nòna Malinconìa

lass-me andé për mia stra,

lass-me intré ’nt la malìa

dël giardin profumà

dla memòria: ch’a vija

sota ’l gran cel steilà.

 

Nòna Malinconìa,

su ij tò cavèj d’argent

mi but la fior passija

ch’anfiora ’l mè torment.

Ma ti lassme andé via,

lontan, doa ’m ciama ’l vent.

 

Nòna Malinconìa,

mi ’t suvo j’euj nebios

con ij fij d’armonìa

d’un cit vers luminos.

Ma ti lass-me a la mia

stra, al mè bel seugn giojos.

 

Nòna Malinconìa,

mi sai dova ch’a j’é

na pianura fiorija

con le fior dël pensé.

La faja Nostalgìa

– mia sposa da sposé –

 

më speta e a meuir d’anvìa ...

Òh lassme dun-a andé

ant cola val fiorija

’d giusmin e dë violé,

d’amor e ’d poesìa,

’d seugn asur da sugné.

 

Òh fame nen pioré,

Nòna Malinconìa!

 

Nòna Malinconìa.

 

Nòna Malinconìa

 

Nòna Ma-lin-co-nìa ...

1940

 

                          Arabèsch ëd fin d'otonn

Quand che l’otonn a passa e peui a meuir

un mar ëd seugn am canta drinta l’ànima.

Sirenëtta Speransa a rij arvìscola

ricamand ëd pissèt dë scume bianche

’d zora a le cun-e, ’d fior d’alis, ëd j’onde.

 

Quand che l’otonn a passa e peui a meuir

un bastiment corsar a bassa l’àncora.

Figure ’d nebia con j’euj pien ëd làcrime,

con ëd caden-e ’d grisantem, a calo

an sla cala d’un pòrt doa ’l vent a piora.

 

Quand che l’otonn a passa e peui a meuir

s’j’àngej ëd pera a splend na lun-a ’d fiòca.

E na cros ëd silensi a vija ij mòrt.

E la Speransa, an mar, fòla, a rij fòrt.

E ’l cel a l’é na ciòca, ’d gel, sël pòrt ...

 

Quand che l’otonn a passa e peui a meuir.

11 otober 1949

 

                   La speransa

Na fiëttin-a da gnente

it ses mach, ò Speransa!

Na singheriëtta dij cavèj asur

vestìa d’un faudalin

a bolin

verd ëscur.

 

’T l’has na coron-a an testa

ma a l’é mach d’ariondele.

Ij tò làver ësmòrt l’han un soris:

ma a l’é ’l soris dij fòj

sensa gòj

sensa amis.

 

E, passand, t’ëm lo smon-e

përchè mè cheur a piora.

E ti, pòvra, t’ëm fas la carità

përchè son pì che ti

sol e afrì,

disperà.

 

Përchè ’t l’has vistme a luse

ant j’euj na splùa ’d rivòlta.

E ti, nossenta, ti, pòvra masnà,

it seufre a vëde un cheur

dal maleur

strangolà.

 

Butme le toe manin-e

frèide ’n sla front bujenta.

Forse ant le sabie avische ’d mè dolor

a-i fiorirà un mascheugn.

Forse un seugn

bleu d’amor …

 

                        *

Na fiëttin-a da gnente

it ses mach, ò Speransa!

Na singheriëtta dij cavèj azur

vestìa d’un faudalin

a bolin

verd ëscur.

1942

 

                      Le làcrime dlë viòle

                                                    Erindringens Afpropning maa have gjemt

                                                    det Oplevedes Duft inden den forsegles.

                                                    Sören Kierkegaard

L’hai na fialëtta cita coma ’l cheur

d’un cichcich pen-a nà.

Andrinta l’hai sarà

le làcrime ’d maleur

ch’a l’han versà tërdes violëtte an fior

mòrte ant j’ariss ëd le mie gòj d’amor.

 

A j’é ’d làcrime asure come ’l cel.

J’é ’d perlin-e ’d rosà.

J’é dë stisse irisà

dij color dl’arch-an-cel.

E, peui, j’é ’d gosse rosse ’d sangh bujent

colà giù da le spin-e dël torment.

 

Con tute coste lacrime mës-cià

mi l’hai fàit un licor

ch’as ciama Mal d’Amor.

E lo guerno ambotià

ant sa fialëtta ’d véder luminos

ch’i deurbo mach ant ij di ’d cel nebios.

 

Antlora la dëstopo con doi dij

su në scudlin d’argent:

e tut mè cheur as sent

travërsà dai zanzij

ëd j’ale giaje dij ricòrd përdù

ch’a vòlo ant un profum ëd gioventù.

 

Òh Nosgnor che ’t comande ij seugn dël mond,

fa che ij ricòrd d’amor

a perdo mai l’odor

dij cavèj brun ò biond

ëd le morose ch’a l’han fàit pioré

le mie pòvre violëtte dël pensé ...

 

L’hai na fialëtta cita coma ’l cheur

d’un cichcich pen-a nà.

Andrinta l’hai sarà

le làcrime ’d maleur

ch’a l’han versà tërdes violëtte an fior

mòrte ant j’ariss ëd le mie gòj d’amor.

1943

 

                         L'hai sugnà che meurìa

                                              Ma naissance n’a aucunement servi à

                                              l’univers. Ma mort ne lui ôtera rien de son

                                              immensité ni de sa splendeur. Nul n’a jamais

                                              su m’expliquer pourquoi je suis venu,

                                              ni pourquoi je m’en irai.

                                                                   Omar Khayyam, Robayat

L’hai sugnà che meurìa. L’hai sugnà che ’l respir

pòch a pòch am mancava, fin-a a l’ùltim sospir.

 

Na grand’ala ’d silensi am sesija pian pian

e ant ël veuid am calava misterios e lontan.

 

Gnente dl’ànima mia, ’d mè sërvel, ëd mè cheur,

ch’a l’avèissa un pò ’d vita, un frisson ëd boneur

 

J’era un sercc bianch ëd nebia ch’as fronzija ’nt ël vent

drinta un cel ch’a dventava sempre pì trasparent.

 

E lontan as përdija, ant cost mond afarà,

ëd ricòrd ëd mia vita coma i fussa mai nà.

 

L’hai sugnà che meurìa … Fuss-lo vera che un dì

ant la seugn im përdèissa për dësvieme mai pì.

1940

 

                     Róndola

Quand che i sarai pì nen

s’arcorzeran che j’era.

 

Róndola ’d primavera,

flecia ant ël cel seren,

mi sarai sot na pera

ti ant na fior sël teren:

ma vëddroma pì nen

nì ’l mond nì ij sò velen …

 

Ànima mia, legera

róndola ’d primavera!

1953

 Ij faunèt

Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 293

                     La seugn 

La seugn a ven parèj d’un vel ëd mòrt

antorn al cheur ch’a stenz come na fior

’d zora la tomba d’un ricòrd d’amor

mojà ’d lacrime ’d nebia e dë sconfòrt.

 

La seugn l’é un arch-an-cel sensa color

ch’anvlupa tut ël còrp, già viv e fòrt,

con binde ’d garza: come, drinta un pòrt,

vele arlanchìe d’un barch navigator.

 

La seugn l’é un’ala ’d veuid che a cala e a cala,

adase adase, an sl’ànima ch’a nija

ant un silensi ’d bianca poesìa ...

 

Mach l’onda dël respir va e ven, uguala,

come ’l dandiné còti d’una cun-a,

come l’onda dël mar sota la lun-a.

1953

 

                  Litanìe dla viva mòrt

Snojèt giàun, snojèt d’òr, fiorin-e ’d mòrt

a m’angarlando l’ànima passìa.

Fiòca la fiòca, bianca litanìa,

su le tombe dij mòrt. Sensa confòrt. 

* 

Oh branch lusent con ij rifless dël feu

sota ’l sol cëstì ’d reuse ’d mè boneur!

Ël marin dël dolor av rùsia ij neu

 ij vòstr’òss – ij mè òss – dròco an sël cheur. 

* 

Ij luv dël vent a crijo a la mia pòrta,

a raspo, a tranfio, ant la neuit ciàira ’d gel.

Dent ëd giassa, ij ricòrd, mòrdo ’l rantel

dl’ànima an agonìa. Ànima mòrta. 

* 

Sota un cel càndi e nu parèj d’un liri

rèide, tra quat candlòt, a sta mè cheur

e na colomba bianca, bianca seur,

lo vija ferma ant una lus ëd siri. 

* 

Na frèid ëd pera frèida drinta j’òss.

Spin-e ’d cristal as pianto ant ël sërvel.

Un giassé inmens ëd véder a l’é ’l cel

ch’as romp sla tèra e ch’a më squarsa j’òss. 

* 

Sël mond ëd sënner, l’ala dël silensi

a stenz l’ùltim frisson d’aria gelà.

Mè cheur l’é mach pì un grum ëd sangh macà:

rosare tra ij dij veuid dël veuid ... Silensi.

 

Fiòca la fiòca, bianca litanìa,

sle fior ëd gnente fàite ’d poesìa.

Fiòca la fiòca, bianca litanìa,

su la toa reusa ’d nebia, ànima mia.

1949

Ij faunèt

Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 299

Ij faunèt

Disegno di Gregorio Prieto ~ pag. 301

 

                   Paròle an sl'eva 

Tut lòn che scrivo mi, l’é scrit an sl’eva

e am na fa gnente s’a-i resterà gnente

dle mie paròle, triste ò soridente,

ch’a nijo sota a la mia man tròp greva.

 

An fond al ri j’é ’d giàire splendriente,

j’é ’d mus-cc che la corent ciàira a soleva:

caviere verde ’d fiëtte ch’a j’agreva

a ciamé agiut al mond, a fesse sente.

 

A cole fiëtte a van le mie paròle

con ëd vir ëd sospir, bleu, vaporos

parèj ëd coronin-e ’d parpajòle:

 

parèj ëd bianch rosari silensios

ch’a stisso ’d perle ant j’euj marëscà ’d viòle

dle mie speranse mòrte e sensa cros.

1949

 Ij faunèt 

Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 304

                           Congé

                                                     Apres avoir leur demandé s’ils étaient condamnés à faire

                                                     des vers ou à être pendus, il leur disait, qu’à moins

                                                     que cela, ils n’en devaient point faire.

                                                                                     Racan (Lettre XI, à Chapelain)

E adess a basta con la poesìa.

A dis na veja sentensa

che a quarant’ani la vita a comensa.

Comensa a vëde l’ombra ’d na faussìa.

                Così sia.

 Ij faunèt

Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 307