LUIGI ARMANDO OLIVERO
Rondò dle masche ~ L'Alcyone, Roma, 1971
Articoli di Giovanni Delfino riguardanti Luigi Olivero pubblicati su giornali e riviste
Le poesie di Luigi Armando Olivero (Seconda parte)
Le poesie di Luigi Armando Olivero (Terza parte)
Poesie di Luigi Olivero dedicate allo sport
La prefazione a Ij faunèt di Alex Alexis
Inizialmente mi ero proposto di non pubblicare la prefazione a Ij faunèt scritta da Alex Alexis per tre motivi.
Innanzitutto perché scritta in francese. Poi in quanto l'autore, ai più, è sconosciuto. Infine perché la prefazione contiene una breve sintesi della storia della poesia piemontese che, oggi, risulta parzialmente piuttosto datata.
Mi sono però ricreduto e ho deciso di proporla, in mia versione italiana, questa volta per due motivi.
Primo, in quanto l'autore meriterebbe di essere riscoperto, se non altro per essere stato il primo traduttore italiano nel 1933 del Voyage au bout de la nuit, Bagatelle pour un massacre e L’ècole des cadavres di Louis Ferdinand Celine.
Secondo, in quanto la prefazione, oltre la godibile e breve storia della poesia piemontese, contiene un acuto ritratto del primo Olivero. Infatti questo testo apparve la prima volta sulla rivista parigina Le diable rouge N° 14 del gennaio 1945, venne poi ripreso pari pari sulla rivista Ël Tòr N° 9/10 del 22 dicembre del 1945 dove Olivero lo ripropose in francese, così come apparirà infine ne Ij faunèt. In questa ultima edizione però, probabilmente lo stesso Olivero, provvide ad aggiornare la parte riguardante la storia della poesia piemontese.
Ecco, qui di seguito, una breve biografia di Alex Alexis seguita dalla mia traduzione alla prefazione.
Alex Alexis
Alex Alexis, alias Luigi Alessio (Caramagna Piemonte, Cuneo, 8 maggio 1902 – 15 aprile 1962).
Luigi Alessio, o Alex Alexis, ha scritto moltissimo vivendo sia in Francia che in Italia (Drammi, romanzi, poesie, saggi storici, traduzioni, commedie, corrispondenze giornalistiche, soggetti per film). Fonda nel 1923 a Torino la rivista Teatro dove da spazio ad autori emergenti e quindi due case editrici, Rinascimento a Torino e Les Editeurs Associès a Parigi.
Con quest’ultima casa editrice inaugura un nuovo sistema di diffusione del libro, stampando ad altissima tiratura e vendendo le copie ad un prezzo molto basso, sia pur con un piccolo margine di guadagno, direttamente alle bancarelle parigine. Casa editrice che poi cede per paura di essere troppo assorbito dalla nuova attività e non aver più tempo per la composizione delle sue opere.
Incontra molti momenti di difficoltà sia economica che di salute. Durante la guerra, per sbarcare il lunario, fa il finto corrispondente dal fronte, scrive sceneggiature e biografie.
Al termine delle ostilità, su incarico dell’amico scrittore ed editore Gian Dauli, compila una biografia di Mussolini raffazzonandola da scritti altrui, opera che verrà poi data alle stampe sotto il nome di Gian Dauli.
Ha pubblicato molto anche sotto pseudonimo, il più è rimasto inedito e l’Alessio ha continuato a lavorarvi di cesello quasi fino alla morte che, dopo un lungo periodo trascorso per curarsi a Latte, presso Ventimiglia, lo ha raggiunto nella sua Caramagna nel 1962.
Fu il traduttore nel 1933 del Voyage au bout de la nuit, Bagatelle pour un massacre e L’ècole des cadavres di Louis Ferdinand Celine. Vivendo al confine tra due culture, non è citato, neppure di sfuggita, né tra gli indici bibliografici, né nelle storie letterarie anche se meriterebbe, forse, una maggiore considerazione. (Note biografiche tratte da una lettera di Clemente Fusero del 30 novembre 1966 a Michel David. In Opera Aperta N° 8-9 Roma 1967)
Bibliografia:
La casa dei ricordi (dramma) Torino 1925, L’incendio della foresta (dramma) Milano 1930, In grigio e in nero (romanzo) Torino 1931, Amours a Montparnasse (romanzo) Parigi 1936, Bismark Corbaccio Varese 1939, Dizionario dell’argot Torino 1939, Storia del lavoro Corbaccio Varese 1940, Pitagora Corbaccio Varese 1940, Anime di esiliati (romanzo) Modernissima Milano 1946, Traduzioni: Louis Ferdinand Celine Voyage au bout de la nuit, Bagatelles pour un massacre, L’école des cadavres
Luigi Olivero, o della celeste anarchia
Inizialmente una domanda: necessariamente il poeta deve esprimersi nella lingua ufficiale delle accademie, dei grammatici, delle scuole? Oppure ha diritto di cercare la sua espressione in un linguaggio non ufficiale, sia pure un dialetto, un patois, un gergo?
Questione assai vecchia e un poco oziosa. La stessa realtà s'incarica di rispondere. Il volgare di Dante è una sfida al latino ufficiale, proprio come il provenzale di Mistral o l'argot di Villon, di Bruant e di Rictus sono una sfida al francese ufficiale.
D'altra parte, il fatto di esprimersi in una lingua non ufficiale, è una posa, una bizzarria, un tratto forzato d'originalità? No. Scrivendo in volgare, o argot o dialetto, l'autore non compie che un atto di onestà verso lui stesso. Si tratta di un bisogno istintivo, un grido di sincerità, un insieme intimo di musica, di lirismo e di sensibilità che non saprebbe trovare altra forma di espressione.
Il solo rimprovero che potrebbe essergli mosso non è d'ordine artistico, ma pratico: cioè ridurre a un numero più o meno ristretto di lettori la diffusione e la comprensione della sua opera. Di contro, si realizza lui stesso, parla il suo linguaggio, il vero, quello che ha appreso nella sua infanzia e che meglio corrisponde al suo temperamento. È la "sua" musica. Inutile e dannoso per lui, imporsene un'altra. È un fenomeno che si rinnova in tutte le epoche e presso tutti i popoli. Domani, in un mondo ipotetico con un'unica lingua, ci saranno sempre dei poeti per cantare le vecchie armonie regionali.
La poesia, d'altronde, è un fatto genuino che richiede una genuina espressione. L'espressione letteraria è quasi sempre troppo artificiale; ad essa si oppongono le voci che trascina in sé stessa da sempre, il misterioso incantamento delle melodie innate, l'eco della Natura e di quell'immensa scuola che è la strada.
È il punto dove i linguaggi non ufficiali, dialetti e gerghi, prevalgono nella creazione naif delle immagini poetiche.
Ora, eccoci davanti al caso di Luigi Olivero. Nato il 2 novembre 1909 a Villa-Stellone, vicino a Torino, è giornalista ed autore di parecchi libri scritti in una prosa italiana perfetta, fluida, scintillante, libri il cui successo si è rinnovato nelle loro traduzioni inglesi e tedesche. Ma egli non è poeta che in piemontese. L'opposizione nella prosa, tra riflesso e cerebralità, nella poesia, tra genuinità e sentimentalismo, si rivela in lui per questo sdoppiamento linguistico, per cui non potrà essere poeta che in piemontese. Ridotta all'italiano, la sua lirica sarebbe probabilmente muta.
*
Un colpo d'occhio sul piemontese: è una lingua o un dialetto? È una questione discutibile. Il Piemontese, non importa a quale ambiente appartenga, ha sempre dimostrato un orgoglioso attaccamento al suo linguaggio, che per lui è l'espressione della sua propria mentalità. Una mentalità sobria, chiara, nemica di tutte le retoriche, molto lontana da quell'esuberanza, io direi anche da quell'enfasi, che è propria della mentalità italiana, e molto differente. allo stesso tempo, da quei fuochi d'artificio che caratterizzano la mentalità francese.
«Se io fossi re, tutti i miei ambasciatori sarebbero piemontesi - proclama Stendhal nelle sue Pagine d'Italia - È il popolo più sagace dell'universo. Quanto di frivolo non lo ferma un istante; mettono sul campo il dito nella piaga. In questo, ben superiori ai francesi, che si divertono a cercare le facezie epigrammatiche».
Qual'è dunque il linguaggio che corrisponde a questa mentalità?
«Il linguaggio piemontese - ci dice Luigi Cibrario, erudito del diciannovesimo secolo - possiede un numero molto grande di termini originali. È vibrante, immaginativo, ricco di espressioni proverbiali. La sua pronuncia è sonora e netta... Il documento più antico che si conosca del dialetto piemontese è dell'anno 1321. E si può agevolmente rimarcare che tra quell'idioma e quello che si parla attualmente in Piemonte,non esiste maggior differenza che tra la lingua italiana del medioevo e l'italiano moderno».
Aggiungerò che altri documenti storici esistono a provare che l'idioma piemontese era già parlato prima che si formasse il volgare italiano.
Il fatto che raramente il piemontese è stato elevato al rango di lingua scritta, è dovuto essenzialmente alla vicinanza immediata - geografica e intellettuale - della Francia. Nato dallo sgretolamento dell'impero carolingio, il Piemonte, dal 888 al 1000, prese subito una fisionomia feudale, conservando per nove secoli una indipendenza pressoché assoluta, appena interrotta, dal 1798 al 1814, dalla parentesi napoleonica, che non ha lasciato che poche tracce.
Durante nove secoli d'autonomia, la lingua scritta ufficiale del Piemonte fu il francese. È ancora il francese che generalmente tiene banco tra le alte classi.
Questo è durato fino a circa la metà del diciannovesimo secolo. ( Ricordiamo di passaggio il tentativo di Vittorio Emanuele II che tentò, nella sua giovinezza, d'imporre una riforma memorabile alla sua Corte: la sostituzione ufficiale del francese con il piemontese). Da questa unione con il francese, il piemontese si arricchì considerevolmente e si perfezionò, dal punto di vista letterario, fino a produrre delle opere scritte molto numerose, e sovente esse stesse rimarchevoli.
Bisogna citare dei titoli e dei nomi? Ecco le "Lamentazioni" del XV secolo, le "Canzoni" del XVI, i "Toni" o composizioni satiriche anonime verso la fine del XVII. Ecco i poeti e gli scrittori del Panthéon letterario piemontese: Antonio Astesano, Giovan Giorgio Alione, Ignazio Isler (il monaco dai grandi bagliori di risa rabelesiani), Vittorio Amedeo Borrelli, (Ventura Cartiermetre), l'Abate Silvio Balbis, il medico di Corte Maurizio Pipino, Vittorio Alfieri (il grande tragico), Ignazio Edoardo Calvo (il vigoroso autore satirico giacobino), Carlo Casalis, G. I. Pansoya, Amedeo Peyron, Enrico Bussolino detto l'eremita di Cavoretto, G. M. Regis detto l'eremita canavesano, Norberto Rosa, Luigi Rocca, Angelo Brofferio (detto il Béranger piemontese), Stefano Mina, Cesare Scotto, Luigi Pietracqua, Padre Giuseppe Frioli, Federico Garelli, il dolce chansonnier Giovanni Gastaldi, Alberto Arnulfi detto Fulberto Alarni, Eraldo Baretti (le cui opere teatrali sono state tradotte in otto lingue), Mario Leoni, Vittorio Bersezio (del quale la famosa pièce teatrale Le Miserie 'd Monsù Travèt ha creato il tipo indimenticabile del povero impiegato dello Stato, così bene che il nome travét è entrato nella lingua italiana corrente), Alberto Viriglio, Amilcare Solferini, Alfonso Ferrero, Oreste Fasolo, Saverio Fino, Camillo Variglia (Cirillo Valmagia), Leone Fino (Rico), Giovanni Amelotti, Bernardo Garneri (Brut e Bon). Tommaso Agostinetti (Tito Gantesi), Luigi Collino, Vincenzo Armando, Giovanni Gianotti, Luigi Maggi, Pinòt Casalegno, Giulio Segre, Onorato Castellino, Cesare Laudi (Dario Cesulani), Francesco Mittone (Alfredo Chin), Giacolin Sacerdote, Carlo Baretti ecc. L'idioma piemontese ha anche avuto i suoi sostenitori presso uomini di Stato quali Costantino Nigra, Cesare Balbo, Tomaso Villa, Delfino Orsi e molti altri; senza far cenno alle grammatiche, ai lessici o dizionari piemontesi del Pipino, Brovardi, Zalli, Attilio Levi, Alì Belfadel ecc.
Caso Strano! Questo idioma che ha molto derivato dal francese, lingua straniera, ha poco assimilato dall'italiano, lingua nazionale, anche dopo il 1870, vale a dire dopo l'unità politica che il Piemonte impose, assorbendoli, agli altri piccoli stati della penisola.
Quindi questo contrasto intimo tra gli scrittori italiani d'origine piemontese, che farà scrivere al poeta Guido Gozzano:
«Oh, il mio dolce dialetto così vivo, fra tante cose morte, adorato più di qualunque parlare, più dell'italiano (adoratissimo italiano, estraneo alla mia intima sostanza di subalpino, appreso tardi con grande amore e con grande fatica, come una lingua non mia), il mio dolce parlare torinese, l'unico nel quale penso e l'unico che mi giunga al cuore suscitandovi schietto il riso e il pianto...».
Contro il fascismo, nemico dichiarato di tutti i regionalismi, e, da ciò, di tutti i dialetti, i piemontesi reagirono coltivando con ammirevole ostinazione il loro patrimonio linguistico. Da questa reazione, è nata una letteratura moderna, tipicamente piemontese per forma e contenuto; una letteratura quasi clandestina fino a ieri, ma che oggi appare con tutta la sua forza e la sua bellezza, osando anche piazzarsi su un piano europeo.
Parecchi poeti e scrittori piemontesi di quest'epoca sono stati rivelati dalla rivista Ël Tòr fondata a Roma, immediatamente dopo l'ultima guerra, da Luigi Olivero, che cerca di inserirli nel quadro della letteratura europea contemporanea. Altri periodici in piemontese sono riapparsi a Torino, dopo la guerra: 'l caval 'd brôns (commenti all'attualità della città) e Ij Brandé (gli alari) diretto da Pinin Pacòt che,- seguendo le idee del poeta Nino Costa, morto il 5 novembre 1945 - ha sensibilmente ridotto l'ideale di poesia pura che animava questo periodico, per lasciare spazio alla poesia popolare. La rivista Ël Tòr, al contrario, non ha mai rinunciato a quell'ideale che ha difeso con intransigenza e che le è valsa questa definizione da parte del grande filosofo Benedetto Croce: "La più bella e la più coraggiosa delle riviste folcloristiche d'Italia, una rivista a risonanza europea".
Tra gli scrittori piemontesi che si sono meglio affermati ai nostri giorni, possiamo citare: F. Viale (Paggio Fernando, 1875-1955), Giovanni Drovetti, Elisa Vanoni-Castagneri, Mario Albano, Maria Ferrero, Armando Mottura, Barnaba Pecco, Giovanni Bono, Aldo Daverio, Alfredo Nicola (Alfredino), Carlottina Rocco, Attilio Spaldo, Neti Demaria, Arnaldo Soddanino,L'Abate Michele Fusero, Ugo Marino, Camillo Brero, Calisto Ghibaudo, Umberto Luigi Ronco, ecc.; i poeti del saporito patois di Mondovì: Carlo Coccio, Francesco e Carlo Comino; i valdostani, in sotto-dialetto un po' roccioso, ma così ricco: Eugenia Martinet, Giovanni Calchera, René Willien; i critici: Arrigo Cajumi, Gigi Michelotti, Ernesto Caballo, Remo Formica, Angiolo Biancotti, Italo Mario Angeloni...
Una bella squadra!
Il Piemonte d'oggi ha in Nino Autelli (1903-1945) e in Augusto Ferraris (Arrigo Frusta) i suoi possenti prosatori. Conta soprattutto alcuni poeti molto personali che hanno realizzato le loro opere con un brio e un'arte delle più letterarie: Nino Costa (1886-1945), che si raccorda direttamente alla tradizione popolare elevandola, per il suo spirito e la sua forma, a un livello fino ad ora raramente raggiunto nella letteratura dialettale; Pinin Pacòt che, rompendo i rapporti con la tradizione popolare, ha inaugurato una poesia d'uno stile ambiziosamente parnassiano e per conseguenza malinconico-intimista; Oreste Gallina, che crea una poesia naturalistica, campestre, rude; e infine Luigi Olivero che, per il suo spirito innovatore, deve essere piazzato alla sommità di questo triangolo. Non è senza ragione che il grande giornale americano The Italian Daily News, dedicandogli una pagina speciale ha scritto di lui: «La poesia di Luigi Olivero è viva. E la vita della sua poesia è duratura... Un leader, un Maestro, senza dubbio. Il più perfetto e puro nella letteratura piemontese».
*
Ed eccoci al nostro autore.
Luigi Olivero è un tipo del territorio. Un figlio della pianura piemontese. Eppure un bohémien.
Poeta dalla sua adolescenza, non ha tardato a rivelare una personalità tutta sua, animata d'un nuovo soffio. La sua inimitabile ispirazione prende vita dalle sue origini dì esistenza nomade e avventurosa, e vola su orizzonti insoliti per la poesia non solo piemontese, ma di tutti i dialetti. Si potrebbe anche definire il suo contenuto poetico come anti-dialettale. Questa ispirazione così particolare, spesso estranea al clima piemontese, da senza dubbio un apporto molto originale - in colore e in brio - al paesaggio un po' freddo del Piemonte letterario. L'accentuazione polemica che fa qualche volta di questa qualità ha suscitato attorno alla sua opera discussioni e critiche molto interessanti. Ma l'energia del suo temperamento poetico gli è valso un successo sempre crescente presso il pubblico.
Quello che si riscontra innanzitutto nella poesia di Olivero, è una purezza e una ricchezza di linguaggio pressoché unica negli annali della poesia piemontese. Noi siamo di fronte ad un signore della parola, che getta i suoi tesori, obliosamente trattenuti dalla sua musica interiore. Questi sono gli elementi nuovi che introduce nelle sue canzoni che favoriscono questo flusso; perché, con Luigi Olivero, il mare, i deserti, le arditezze dell'aviazione appaiono per la prima volta nella poesia subalpina. Altri elementi molto differenti si cavalcano: questo ricordo continuo a Villon, Rimbaud, Tristan Corbière e Garcìa Lorca; questo tono a volte ironico, elegiaco, religioso e truculento; questi ritorni misteriosi, in tutte le sue opere, dell'immagine del fauno...
La poesia di Luigi Olivero è una poesia giovane, moderna, anche molto moderna, aperta a tutte le nuove vie, ma che non dimentica mai le profonde tradizioni della sua terra natale. Essa s'accompagna a una forma perfino rude e senza pregiudizi, e pertanto segretamente commossa.
Uno scrittore, che è stato, durante trent'anni, il compagno di battaglie di Luigi Olivero, e che poi ha cessato d'esserlo, ha scritto di lui:
«...Questo colloquio di Olivero con se stesso, questo canto vario e possente di una forte individualità, poetica ed umana, è di un timbro e di una tonalità così nuova e sofferta che trascende inconfondibilmente il coro modesto dei versificatori vernacoli e pone il poeta al di fuori e al di sopra di qualsiasi linea tradizionale o di scuola o di maniera... Ma forse, al di là della vernacola poesia conviviale dell'otto-novecento, possiamo riallacciarlo ad altri poeti nostri, pensando al forte sapore di certe canzoni isleriane o al giocondo riso delle farse allionesche. E questo per un certo tono audace e disinvolto di Olivero che ci permette di richiamare alla nostra memoria questi antichi poeti nostri quasi sconosciuti, come ci permetterebbe, d'altra parte, di pensare al canto stellare e vagabondo di un Rimbaud, il poeta dalle semelles de vent, o al divino riso di Zarathustra...».
Naturalmente dei puritani non hanno mancato di criticare certi straripamenti di questo tono. Ma si può rispondere con Balzac:
«Il biasimo d'immoralità, che non è mai mancato allo scrittore coraggioso, è d'altronde l'ultimo che resta da fare quando non si ha più nulla da dire a un poeta. Se voi siete veritieri nei vostri affreschi, se a forza di lavoro diurno e notturno giungete a scrivere la lingua la più difficile del mondo, allora vi si getta in faccia il termine di immorale».
Biasimi ben inutili. Nei poemi di Luigi Olivero, c'è la vita vera che canta: esuberante e folle, luminosa e sensuale, sana e aggressiva, ricca di linfa e di passione. Certi poemi sono degli autentici quadri di Rubens.
E poi, bruscamente, questo ampio grido virile da conquistatore s'attenua in vibrazioni sentimentali. Sono allora parole a mezza-voce, monologhi interiori, confessioni, ricordi.
Il poeta si ritrova solo, si china sul suo passato, rivede le immagini sbiadite dal tempo e sussurra versi indimenticabili, che riassumono tutta la sua pena:
Tuta mia vita a l'é na lontanansa,
tuti ij mè seugn a luso an fond al mar,
e mi sarai për sempre 'l mainar
che a cor ël mond an sèrca dla Speransa:
dla Sibila dë vlù
ch'a vija an fond al mar dël Temp Perdù.
*
Luigi Olivero - che i migliori letterati piemontesi considerano come il ragazzo terribile della nuova poesia subalpina - è ben il poeta che, nella sua celeste anarchia, canta per noi, sul suo vigoroso flauto regionale, la giovinezza, l'eterna giovinezza d'una popolazione rude e guerriera, che ha sempre saputo essere libera. C'è in effetti una atmosfera di libertà che si districa dalla sua poesia. Tutte le sfumature d'un temperamento complesso vibrano nei suoi versi, ma sempre su una nota libera, personale, originale. Da qui un'arte incomparabile. Perché se l'arte è originalità, quest'originalità non saprà tollerare alcun compromesso, alcuna imitazione. Ecco la pietra della commozione dei grandi artisti, quali che siano i loro mezzi d'espressione.
Paris le 1er Mai 1955 Alex Alexis
A un poeta paisan
A Oreste Gallina
Poeta, tòrcia a vent
ancoronà dë splùe,
an sle reuse s-ciodùe
dël giardin ëd la ment
visca tò amot bujent.
Slarga 'nt l'ària ij frisson
frisotà d'armonìa
dël feu dla poesìa.
Fa crijé 'nt le canson
ël reu 'd toa ribelion.
Fa splende antorn a tì
la gòi ch'a t'anseren-a.
Anvlupte ant na caden-a
antërsija dë spì
d'òr e 'd bluèt fiorì.
Fa parèj dël cardlin
che, sborgnà, a canta 'ncora
anche se 'l cheur ai piora
- ant la neuit 'd sò destin -
con làcrime 'd rubin.
Àossa toa fiama al cel.
Fa bate le parpèile
ëd crista bleu dle stèile.
Vira, ant j'ariss d'amel
da lun-a, un ross bindel.
E spàntia su la gent
ch'a rij dla toa folìa
la fiocà d'ironìa
dla toa sënner d'argent.
O viva tòrcia a vent!
*
Poeta, resta fier
an sla sima pi drita.
Ti 't ses ël feu dla vita.
T'ses l'ala dlë sparvier.
T'ses ël crij dël guerier.
Mè faunèt
Un faunèt ancoronà
'd rape d'uva e dë viòle
a j'é 'nt l'ànima mia.
Ant la stagion fiorìa
'd giroflé e 'd parpajòle
mè faunèt bala 'nt ij prà.
Na monfrinòta 'd boneur
bala e sùbia 'l faunèt
e ij fan còro le siale.
L'ha tut un bate d'ale
- cibibì, lòdne e farchèt -
ch'ai fërfoja drinta 'l cheur.
- Përchè mai, ànima mia,
ant la bruta stagion
t'ses fiapa e derelìa? -
Sensa azur 'd poesìa
mè faunèt, ginojon,
a piora 'd malinconìa...
1944
Legion d'àngei ëd fiama...
Legion d'àngei ëd fiama a passo an cel
su strà d'òr e prà 'd viòle a l'orizont
dël Paradis: ant l'ora dël tramont
che na cros ëd diamant lus daré un vel.
Daré 'd col vel ëd perla, an sima al monta,
j'é 'd cò la nivolëtta d'un agnel
quacià 'd zora la cros. E un grand anel
ëd liri 'd seugn ten cros e agnel congiont.
Ma perchè, 'nt cost moment, nompà 'd preghé
- 'd nans che la neuit pagan-a a slarga ij vir
d'j'ombre dle faje e dij sarvan bërgé -
mè cheur faunèt respira ant mè respir?
Che 'd boche e 'd mimin ross j'é ant ij vërzé!
N'arpegg ëd vent... O Amor!... Ombre. Sospir.
1953
Faje bërgere
Faje bërgere a filo ij ragg dle stèile
sui fus dle cocolin-e dij sapin
tant che ant l'ombra, moarà 'd rifless vërzin,
d'euj bluastrin a bato le parpèile.
El faunèt Arsibel, tut rissolin,
a sàuta an mes al bòsch: fripland e tèile
d'aragn e fërpe 'd mus-cc e ragg dë stèile,
pistrognand prà 'd borcëtte e d'ardiglin.
Mago Papacarèa, Strìa Matafan
l'han fàit un malifisse da lontan
e as séulio barba e tërse con la man.
Quand la pi bela 'd cole faje bele
chita 'd filé, e, 'l sërvel an ciampanele,
tira la coa al faunèt... Nà doe binele!
1953
A un passarìcc ferì
Dal cel vèrd ëd la tòpia a l'é tombà,
pròpe 'd nans ai mè pé, në sfurniolòt.
L'ha pro sërcà d'arpiesse. Ma, 'nt ël bòt,
l'era stait con na piòta mangagnà.
Ant la cun-a 'd mie man, pòr passaròt,
l'hai cheujìlo e scaudalo con mè fià.
Peuj l'hai ciadlaje sò piotin strompà
con un pò 'd fil e un rissolin dë scòt.
L'hai sofiaje an s'eujìn. E, apress, l'hai daje
dontrè frise meujà 'd molèja 'd pan
che, an tramoland, l'ha picotame an man.
L'hai aossàlo an s'un dil: doe cite tnaje
a së strenzijo a la mia pel... «Corage!».
L'ha sbatù j'ale. E, frrr!, l'ha arpià sò viage.
*
Vòla ant l'ària cilesta, pòr oslin,
tente al sol ch'a l'ha tanti cordin biond.
Son content d'essi stait, an tò cit mond,
una sémpia carëssa dël destin.
Sinch dii a pócio at mando un mè basin.
Masnà, 'd cò mi son tombàè moribond
con na gambëtta rota... Vagabond,
scassà, son rabastame oltre ij confin.
Nò. Mi l'hai mai avù n'ombra 'd boneur:
nen n'agiut, na carëssa, nen na man
l'ha dame aleta ò na fërvaja 'd pan.
Son viv l'istess. Ma a l'é vnu dur, mè cheur,
a l'é vnu sord e grev come un martel:
ch'a bat ë-s-clin për ti, cit rè dël cel.
1953
Seugn - mignin
Ant la gola 'd mè gat a canto ij grìi
ch'a fan còro lontan ant la neuit granda.
La béstia as quàcia su mè cheur, aranda
mie man: con sò museto tra ij mè dii.
Ant l'ombra tëbbia profumà 'd lavanda
na bava 'd vent a sbogia 'd fii sutìi
e la cova dël gat con ël gatii
ëd na feuja dla vis ch'a n'angarlanda.
La neuit a l'é seren-a e andrinta a j'euj
ël gat e mi l'oma ij rifless dla lun-a...
Sugnand ansem, na seugn midema an cheuj.
Pian, doe ciochëtte am coato le parpèile
parèj ëd quand che m'andurmìa 'nt la cun-a
con mè gatin e na pugnà dë stèile.
1954
Crocifission an reusa
Sèrti dí che son mat
i seurto da mè còrp.
Prima adase, ant un seugn,
come nébia da 'n sorch.
Peuj la mia vita a slampa
con d'angorgh ëd sangh càud
ant ël còrp d'una stàtua,
d'una fior, d'un ritrat,
d'un'arbrëtta ò 'd na bestia.
Sens'ombra 'd malifissi,
sensa patì n'arsàut,
mi vivo 'd n'àutra vita
ciaira séulia nossenta
che 'nt mie ven-e a fermenta
con ëd lus e 'd mesombre
e 'd reuse mai goduve
dë spin-e mai sentuve.
E l'hai pi gnun ricòrd
ëd mè ier, pi gnun sens
ëd mè doman. Për mi
a esist mach pi 'l present
d'una sostansa neuva
ch'am fa rimiré 'l mond
e s-ciaré còse e gent
con euj divers ch'a luso
fòra 'd mia carn: e ant mi.
O miraco! O natura!
Còs'é-la costa forsa
che, sensa mòrt, am fa
meuire e arnasse ant un nen
ant tante vite neuve?
Còs'é-la mai cost'onda
ch'a seurt e a torna ant mi
lassandme ant un miragi
'd silensi trasparent:
doa 'm cheuj ël sentiment
ëd maravìa vlutà
d'essi un cit pen-a nà
drinta na cun-a 'd vent
pien-a 'd duvèt d'argent
sota n'arch colorà?
E perchè, sùbit dòp
-con ëd frisson sutìi
un armus-cc ëd bësbìi
e un tonf al cheur... e un crìi
ch'am visca ant ël profond
la prima splùa dël mond -
torno a sente mia carn
torno a savèime un òm:
un dij tanti pòvr'òm
anciodà 'n s'na cros d'ària
con brass e gambe... e un nom
d'ànima solitaria?
Përchè? Përchè? Perchè?
O miraco! O Natura!
O fontan-a 'd mistere!
O mia gòi, mia paura!
O Nosgnor... miserere...
1950
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 55
Le còrde d'òr
Òm fàit ant l'ànima e 'nt ël còrp, Nosgnor,
dòp avèj surbì tuta, an ginojon,
l'eva an-mascà dla sors ëd j'ilusion,
l'hai bin pòch da ciamete or-e-piror.
Na caban-a sërduva 'nt ël canton
d'un bòsch. Un giardinèt ëd pèrsi an fior.
Doi sen drit e un bochin për fé l'amor
quand am cissa l'anvija dël cravon.
Pan e vin. Lait e bur. Vive content
s'un let ëd reuse e s'un orié 'd narsis
tra mùsiche d'osej, carësse 'd vent.
E guardé pende al sol, con un soris,
da j'arch ëd j'erbo antorn a mè convent,
ampicà a 'd còrde d'òr ij mè nemis.
1949
Prim frisson
Andoa ch'it sesto mai, Catarinin,
che 't l'has dësviame 'l prim frisson ëd veuja
ch'a preuva un gich novel, tra feuja e feuja,
quand ch'a s-ciòd a la lus ëd la matin?
Andoa ch'it sesto mai, Catarinin?
Sèt ani. Doi pipì fòra dla greuja...
Na pieuva 'd reuse e d'òr cala mineuja
sul bòsch dij mè ricòrd. Sùbia un cardlin.
Scorlo, s'it vive ancor, Catarinin.
J'ero përdusse, an mes a j'erbo, a cheuje
'd mofe për fé 'l presepio: e 'l cavagnin
lo rezijo ancrosiand nòstri dilin...
Na tampa! Un tonf... Doi cheur ant un nì 'd feuje.
Na stèila e un mè frisson tra ij tò brassin.
1952
Lun-a - bal - sovnir
Da 'n sla montagna, an front, la lun-a pien-a
m'anlùmina la trassa e a cogia j'ombre
dla balaùstra 'd colonëtte sombre
ant la stansa duvèrta a la seren-a.
Sota, 'l brich a frisson-a, an tuta ven-a
'd soe vis, a l'ària frësca: e ij sò calanch
calo, ant lë scur, fin-a a lë stradon bianch
doa j'é 'n bal fiorì 'd lus. Odor d'verben-a.
Amor ëd fie-farfale che là, 'n fond,
tra cole garlandin-e colorà,
s-coairo a viré come d'antorn al mond.
Oh ij mè vint ani! Oh seugn dël temp passà
che antorn al cheur l'avìa 'n rissolin biond
s'un bal - sota la lun-a - an mes a 'n prà...
1953
Lambrìs
Lambrìs d'argent luzijo arèiz dla ròca
stëbbia 'd lun-a 'ndoa 't j'ere stàita mia.
Ricòrdo che, al moment d'andessne via,
na toa man l'era orlà 'd perlin-e 'd fiòca.
Son tornà l'indoman: ant cheur l'anvìa
'd sentì 'nt la rasa alpin-a ij tò sospir.
Ma, 'n broa dla ròca, l'hai artnù 'l respir
e ij mè euj son slargasse 'd maravìa.
L'impront ëd la toa man l'era restà,
slinguand la fiòca. su la crèja scura
cheuita dal sol. Toa bela man, sizlà.
E tra doi dii, arprèis quasi 'd paura,
na frèidolin-a reusa a l'era nà:
come l'ofèrta, an fior, dla toa carn. Pura.
1953
Na casòta 'd cristal
Na casòta 'd cristal
s'un ciaplé montagnard
për bagneme lë sguard
ant le nébie dla val.
Un can bianch da bërgé,
una doja 'd bon vin,
ij mè lìber davsin
e un such ross tra ij brandé.
Al calor ëd col feu,
spartì adase mè pan
benedì da le man
ëd mia sgnora 'd j'euj bleu...
Dòp avèj girà 'l mond,
provà fam e boneur,
l'hai cost seugn ant ël cheur
amprovà 'd vagabond.
1945
Ròca - luva - destin
Ant l'erba arsùita, cogià randa a ti,
am pias guardete, ròca grotuluva
antërtajà 'nt ël cel come na luva
nèira, a l'avaìt sul mont, ant l'ambrunì.
It fisse la valada patanuva
ch'a s'andeurm ant un let càud ëd piasì.
Tò muso a suzna 'l vent, e, ant j'euj scurpì,
doe luzentele d'òr visco na spluva.
Ròca sarvaja! Su lë spron alpin
sporzù 'nt ël veuid, stasèira soma soj;
soj a l'avaìt, ginoj contra ginoj.
Còsa të spete a sgrinfé nòst destin?
L'ombra ch'an gropa ai fii 'd nòstre radis
l'é an broa dël veuid... Pi an là, j'é 'l Paradis.
1953
Sangh an sle fior
L'hai fate un bochetin ëd fior alpin-e
che 'l bon Abà Chanoux l'avrìa laudà. °
Ma a l'é rëstame un dil ansangonà
scarzand na fèils fronzija 'd ventajìn-e.
N'anel ëd sangh, dal sol ambrilantà,
'd làcrime 'd feu sbrinciava le fiorin-e:
come ant j'euj 'd vendumiòire birichin-e
sprìcio 'd rubin da j'asinej plucà.
Sarà staita na spin-a 'd gelosìa
për la ventura dròla 'd cole fior
che an toa carn l'ha viscà 'd reuse 'd folìa?
Tas... Con në splin sarvaj 'd sèrp an calor,
t'l'has fongà ij dent antorn a mia ferìa.
Oh, nòst deliri, amor! Sangh an sle fior.
1953
° Pierre Chanoux (Champorcher AO 1828 - La Thuile AO 1909) abate, alpinista e botanico. Creò al Piccolo San Bernardo un giardino botanico che da lui prese il nome di Chanousia.
Orìss
Staneuit ij castagné sfùrigo 'd masche
ch'a fan beuje na bonza 'd sangh ëd prèive,
peuj ant na testa 'd mòrt a taco a bèive
e a dëstërlo 'd mich-mach e 'd tarabasche.
A 'n crèp ëd tron, a në sfalage 'd frasche,
a 'n zigomar ëd lòzna, da n'arbron
anvlupà 'd fiame ai seurt ël gran cravon
Lussìfer Trimegìst: rè dle putasche.
As seta 'd zora un reu 'd sèt cardinaj,
a mangia d'òstie con la sòma d'aj,
a pissa 'd branda an feu 'nt na copa santa.
Peuj dà, për comunion, feuje d'urtije
ai cuj dle masche ch'a spëtëzzo 'd rije...
Peuj, pro. Bòsch, prà: plà. Cros. Alba amaranta.
1953
Ij rat a canto
...la seule occupation d'un homme qui
se respecte est à mes yeux de regarder
l'azur en mourant de faim.
Mallarmé
Ij rat a canto. Gnun ai sent. Ma 'l cant
a l'é 'l sospir nostàlgich d'un violin,
annià 'n fond a la vasca d'un giardin,
con fii ëd ragg ëd lun-a frissonant.
La mùsica 'd bësbìi d'un rissolin
scarabotà da 'd mosche d'òr. N'incant
ëd làcrime dë stèile s'un diamant
ch'a tramola ant le nòte d'un zinzin.
Oh, 'nt le neuit silensiose, che 'd ricam
ëd ragnà vërde! Che 'd rifless dë vlù
a sbogio j'ombre ant coi eujìn d'aram!
E ant n'alba frësca, da un solé spërdù
guardé l'azur an tant ch'as meuir ëd fam
con na canson che gnun l'ha mai sentù!
1947
Ël galòro
Come ant la giòstra dël Guerin Meschin °
l'hai viste ant una fiesta catalan-a,
guerier maravijos, con la sovran-a
lansa 'd tò bèch, crasé un gal sarasin.
Con la glòria 'd toa crësta a la sultan-a
e j'euj ch'at bruso come doi rubin,
it vëdo torna a sopaté j'orcin
lunà 'd coral, Allah dl'èira paisan-a.
E am pias la fòrsa corma dle toe miole.
Am pias ël sangh che da toe ven-e a scor
a la galura 'd j'euv ëd le toe pole.
Mè cheur a brinda 'd gòi con ij color
dl'arch-an-cel ëd la cova che 't socròle,
ò bel galòro, ant ij trïonf d'amor.
1949
° Guerin Meschino, opera letteraria in otto libri scritta circa nel 1410 dal trovatore toscano Andrea da Barberino, tra favola e romanzo cavalleresco. Pubblicata la prima volta nel 1473.
Disegno di Orfeo Tamburi ~ pag. 77
Cantada dla Provincia Granda
Quand che a l’alba am dësvija ’l gal paisan
cantand da na cassin-a an mes dla val,
am ven l’anvìa dë s-ciopaté le man.
Ël cel l’é anluminà come un missal.
A l’é ancor gnanca ciàir. Ma da la comba
svapora già na fiosca lus d’opal.
Peui, ant un nen, ël vel dla neuit a tomba.
Le stèile a nìo ’nt un mar ch’a l’ha ij color
cangiant dël tornacòl ëd na colomba.
A l’é ’l moment che crijerìa d’amor
sfrandand con ël galòro un ritornel
an glòria ’d boche e d’euj ch’a rìo ’nt le fior.
Ma, come ’l sol batesa ’l di novel,
ij pajé biond a smijo ’d cese d’òr ...
Che ’d crocifiss ëd róndole ant ël cel!
Sbalucà dai rifless giàun d’un tesòr,
s-ciàiro un farchèt con ale ’d feu ch’a va,
con mè cheur ant ël bech, ant un sercc d’òr.
Mè cheur an sla campagna sconfinà!
E j’erbo a lo saluto a sò passage
con man ëd feuje vërde svantajà.
Slansandme apress a chiel për fé sò viage,
sento ant la pera në scalin d’autàr
e ant l’ànima a më splend ël paisage.
*
Òh benedet al mond ij seugn bizar
dla poesìa che ’d vent a m’angarlanda
fasend na fiama rossa ’d mè folar!
An vòl ambrasso la Provincia Granda
e tutti ij sò pais, le soe sità
doa ròche e catedraj së strenzo aranda.
Soe veje tor son stèile fulminà
ch’a guèrno an sen, nen mach ij ragg dla Stòria
’d j’àquile ’d Roma e ’l sangh dle soe sgrinfà,
ma ij blason che an sël reu dl’ùltima glòria
l’han fondù j’arme ant ël martel d’assel
che ’d na spà, piegà ad arch, l’ha fàit na msòira:
na fiëtta che s’un fianch bala un rondel
e ant ël pugn nèir ëd tèra dël paisan
a versa ’d cope ’d fior corme d’amel.
Quand ëd Prima a comensa a cuspié ’l gran,
quand ch’a j’é ij fen dl’Istà, quand che la rapa
dl’uva – a l’Otonn – a spricia ’d sangh uman,
ël campagnin chinandse su la sapa
s’inchin-a con ël cheur d’nans a Nosgnor
present ant l’ostensòre d’ògni mapa.
E, antant, a benediss con ël sudor
ij sorch drit ch’ai daran la maravìa
dël pan e ’l vin për le soe gòj d’amor.
L’òm ëd campagna a l’é ’l rè dla famija
e sò cheur as fa largh parèj dël mond
dòp ëd j’arcòlt, a la stagion furnija ...
*
Provincia Granda, che dai brich ariond
dle toe Langhe it destende a la pianura
sota ij brass dle montagne e ’l cel profond,
tente a la tèra e a l’òm ëd la natura!
Bat an s’j’ancuso, fa arbombé ij to maj,
fòrgia ’d ciadeuvre e fatne una parura:
ma ricòrdte che l’òr ch’at pijran mai
a l’é ant jë spi ’d toe amson e che ij rubin
son an toe vis, sle crëste dij tò gaj.
Ti, mare ’d mas-cc, paisan e bricolin,
ancoron-a ij tò fieuj con ij diamant
avisch ant j’euj dle spose e dij gognin.
Fa che sò avnì sia un bel caval balsant
con la stèila d’Italia su la front
ch’ai berlus ant lë sfòrs dël sàut grimpant.
S’j’ùltim tre vir dla stròfa, a l’orizont,
ël farchèt ëd mè vers lassa a l’azar
calé mè cheur sël tò. ’ntant che, al tramont,
a cola ’l Pò lontan l’ànima al mar.
Monserà dël Borgh San Dalmass, 1954
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 87
Cantada dle mare montagne
A j’é ’d giornà che le montagne a canto.
Sia che ’l vent a bruìssa tra ij sapej,
sia che l’aria a bësbìa ’d bësbij d’osej,
ëd ventaj musicaj a smìa ch’a svanto.
Son ëd misure larghe come ’l vòle
d’un’àquila real ’d zora ij giassé;
son ij frisson d’na boca da basé:
a inglèt, tra ij làver, në s-cianchèt ëd fròle.
Son còro ’d ciòche ’d vache montagnin-e
ch’a son-o ij carilion dle sèire alpin-e;
e, a l’alba, as fan d’obade birichin-e,
an cirlimirlifërte, prà e boschin-e.
E le neuit? Quand che tuti, bestie e fior,
seugno con feuje d’ombra an sle parpèile,
dij ëd cristal carësso ij ragg dle stèile:
e ’l cel l’é tut na sinfonìa d’amor ...
A l’é che le montagne a l’han un cheur
ch’a bat parèj dël cheur dle creature.
J’ale dle gòj, le grinfe dle sventure,
lo visco ’d sol, lo fan sagné ’d maleur.
Chi l’ha dit ch’a l’é mach un cheur ëd pera
dur a l’amor e sord a l’armonìa?
La montagna a l’ha ’l cheur doss d’un’avija
ch’a dindan-a an s’na fior a primavera.
E, d’istà, l’é pì ross dl’euj dël farchèt.
E d’otonn, l’é un maron quacià ’nt sò pnis.
E, d’invern, a l’é un liri ’d paradis
drinta un mar ondolà ’d fiòche ’d giajèt.
Mi, solitare, sempre mai ch’it senta,
cheur dle montagne, aranda a mè cit cheur,
scoto filtré ant mè sangh n’onda ’d boneur
e la mia vista as fa ciàira e nossenta.
Ciàira e nossenta come quand che j’era
un cherubin danà, sbatù ’nt cost mond
a prediché ’l Vangel dij vagabond:
s-ciairand, sle sime, ’d bianch autar ëd pera.
Coi autar dl’Aventura antornià ’d lanse
che ’l fiolin sensa amor e sensa ca
andasija sërcand për tute strà
con gole ’d luv an cò ’d soe lontananse.
Orizont sensa fin dij sò mirage!
Gulie ’d moschee d’òr e ’d palme al vent.
Caviere d’ambra, tra ij rifless d’argent
d’un’élica, an sle sabie dij sò viage.
Vòstr oceàn ëd nìvole ai dasìa,
montagne, un’ala nèira a sò mantel;
gorgh ëd tempesta e vele d’arch-an-cel
al galeon corsar ’d soa fantasìa.
E vòstre vos ai cadansavo ij pass
e a-j disijo la gòj d’andé cantand:
d’andé cantand e ’d ritorné an piorand,
con sò fagòt dë strass, tra ij vòstri brass.
Che ’d basin d’eve frësche, ij vòst confòrt!
Che ’d cussin d’erbe ’d menta, ij vòst përdon!
Tant ch’andèissa ò tornèissa, una canson
ëd sàiva ’d pin për meisiné ij sò tòrt.
Fin-a ant ij vòst rimpròcc j’era la vos
(dl’assul ch’arbomba ant una rol ferìa)
’d na mare drùa che sò cit gram lo crìa:
ma as ten la front, quase a fé ’l sign dla cros.
E, anginojà dapé ’d vòstre rochere,
chiel as sentìa vnì l’ànima pì bela
d’una stissa ’d rosà ant na gensianela,
e, an sen, fërfojé un nì ’d piume legere ...
Adess l’é un òm che, antorn, guarda le tombe
dle soe fòle ilusion mòrte e sotrà.
La lingera ’d na vòlta a l’ha soa ca.
Ma, tombe ò ca, për mòrt ò viv, son tombe.
Mach voi, montagne, ij regne ant la memòria.
E, mincatant, j’argale ij vostri autar
ëd pera, ij vòstri bòsch, ij vòstri mar
ëd giassa. Ij torne ’d nans con vòst reu ’d gloria.
E ij bute ancor l’anvìa drinta le ven-e
’d posé la testa, pian, sij vòst ginoj:
parèj dij cit ëd gnun ch’as sento soj
e a pasio ant un seugn verd tute soe pen-e ...
*
Òh montagne, òh montagne ’d mè Pais,
che ’d mùsiche ’d ricòrd im cante mai!
Sia che tra ij dent vë scuma la rabiosa,
sia ch’i sospire n’ariëtta amorosa:
parèj ëd mare chin-e sël travaj
voi cante ij mè sangiut e ij mè soris.
Mare ’d mia gent, montagne ’d mè Pais.
Monserrato di Borgo San Dalmazzo, 1953
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 97
Stranòt dij virassoi bërgé
La muanda a s-ciuplìss...
La muanda a s-ciuplìss ëd virassoi
e, an fond, ël sol anlaga la valada:
sle nòstre boche arson-a na cantada
ch'a bat contra le ròche e a torna a noi.
Tuta paròla a l'é na smens crocanta
ëd virassoi che 'l vent a sgrun-a: e a canta.
Tuta canson a lus come un tesòr
s'j'euj nèir dij virassoi con ij sign d'òr.
Gambe 'd camossa...
Gambe 'd camossa e piume d'aquilëtta
(al vent le frange brun-e dla caviera),
àngel alpin con le fatësse 'd pera,
it l'has tirame un crìi e un gich d'ambrëtta.
Sla sima conquistà con l'ùltim sàut
ël sol a l'era un virassoi riond, àut.
E tra le lanse d'òr ëd soa curis
ti 't durbije 'l cancel dël Paradis.
Ant ël cavagnin d'òr...
Ant ël cavagnin d'òr dij tò cavej
giustà a tërsin dë spì 'ntorn a la testa,
caland dai brich, it l'has na cita festa
'd margarite, 'd papàver e 'd brusèj.
E ant l'òrt frèsch ricamà 'd tò corsèt vèrd,
tra doi pom zèrb, na parpajòla as pèrd.
As pèrd e a lus (come na perla 'd brin-a
ò na làcrima mia?) na stèila alpin-a.
Dorà 'd pèil folatin...
Dorà 'd pèil folatin la fàcia rùbia
un bërgeròt a canta, stà 'n s'na ròca,
una canson ch'a dis d'na bàita 'd fiòca
strivià dal vent dla neuit ch'a passa e a sùbia.
A sùbia come 'l sìfol d'un pastor
che, ant sò pajon, a ciama un seugn d'amor...
E 'l bërgeròt a fissa 'l lagh profond
doa s-ciaira doi euj viòla e n'ariss biond.
Disegno di Gabriele Cena ~ pag. 103
Në sludi a l'é passà...
Në sludi a l'é passà sota l'arcada
e a l'ha viscà 'd lus giàuna un Crist an cros.
Ant la neuit sombra l'hai sentù na vos
ch'a l'ha arbombà dal mont a la valada.
Son strenzume davsin al tabernacòl,
ai pé dël Crist pendù, sota 'l pinàcol.
E ant ël silensi nèir l'hai sentù pian
toa man che, a cros, guidava la mia man.
Ò Wally 'd cavèj biond...
Ò Wally 'd cavèj biond d'arpa lontan-a
che ant la tormenta 't ses passame aranda:
ànima profumà 'd fior ëd lavanda,
le carn ëd liri, euj ciair d'eva 'd fontan-a.
E con un dil ëd giassa, ant ël mirage,
't l'has fame sègn ëd seguité mè viage:
vèrs a l'ùltima balma, l'ùltim pòrt,
doa l'amor pur a splend ant j'euj dij mòrt.
1953
Ël boch (Cantada dël bòch)
L'hai ël cheur dossignù coma 'n bëscheuit
e veuj ë-smonlo a la toa fam bërgera,
ò bionda paciaflüa cassinera
d'j'euj gris ch'as meujo ant la rosà dla neuit.
Fòra, al seren, ant l'eira corma 'd feuje
giaune e 'd cavèj ëd melia dësfojà,
veuj dësblete j'ariss e la consà
e su toa gola pasturé mie veuje.
Ant ël còro di grìi e al pior dël cioch
veuj che 't fasse arsinon con ël mè cheur,
ò bela fiassa tëggia 'd mè boneur!
Peui veuj piete a cornà parèj d'un boch.
Veuj che tombo e 's raviòto sota 'l cel
ch'a fà da bardachin a nòstre nòsse
rudie, paisan-e: tra doe angurie gròsse
përgne 'd ciairdlun-a coma 'l nòstr servel.
Veuj che 'l bium ë-sbogià da 'n sl'aliamé
e m'intra an mes ai sign e drinta j'euj
për podèi s-ciaire, sensa gnun ambreuj,
le stèile che l'hai nen savù conté.
Veuj specé mie fatësse sla toa pel
dl'istess color dla lun-a: un pòch fanà
e da 'd cite lentije pontinà:
toa pel ch'a taca e a lus coma l'amel.
E la mia barba con la barba bionda
dla melia, tuta arissa e a fìi sutìi,
veuj ch'as mës-cia e a furmiola a fé 'l gatij
longh i tò fianch ëd cicia reusa arionda.
Veuj fete rije 'd na rijada pien-a
che dal gariòt at canta fin-a ai ren
e për le ciape at filtra ant ël teren
ch'a deurm, sugnand l'amson, a la seren-a.
Mi l'hai mai vist na neuit di'istà parija!
Adess ël cioch e i grìi chito 'l bacan
e 'nt lë stabe le bestie a rumio pian.
Vast ël silensi sla natura a vija.
Or j'é pi gnun-e vos ch'a ciamo ò a pioro.
L'aria as fronsiss bagnà d'anvije dosse
ant ël tranfié dle nòstre boche rosse
mordùe a sangh dai nòstri dent ch'a foro.
E 'l sangh di nòstri làver a l'é un feu
ch'a sfiama su - da le radis lontan-e
d'j'erbo, dla tèra - e a va 'nt le ven-e uman-e
dla nòstra carn ch'as tòrz coma 'nt un reu.
Tërpignand con j'arsaut dru dël cravon
veuj sambleme a tò còrp, mòl ëd sudor,
e spërmte, ant na s-cissà viva 'd dolor,
tut ël velen dla mia generassion.
~
Bela fiasson-a tëggia e sarvajùa,
pìjte mia gòi d'amor për tò linseul,
la mia front për cussin- Ma fame un fieul
ch'a sapia 'd tèra. 'd rame. 'd vita crùa,
dla sàiva ch'a të scor drinta le ven-e,
dla fòrsa aserba di tò mùscoi fòrt:
testa viròira sensa pensé stòrt,
stòme corsàr ch'a ruta su le pen-e.
Bela paisan-a con i sen puntù,
fame brusé d'amor sla tèra cauda
che tut ël dì l'é tnusse 'l sol an fauda!
Sgrafign-me, su le feuje, patanù.
Ma dame 'l fieul, dame la creatura
ampastà con mè sangh da le toe man
e peui arcàuss-me con i pé lontan
e peui lassme - sfinì! - sl'erba ch'a mura...
~
Son mach un malparlant ai tò eui gris,
ò rubia paisanòta da marié.
Ma am ven na veuja 'd rije da dërné
se 't ven-e 'd brasa al feu d'un mè soris...
1929
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 113
Cantada dël diauleri dij pé forcù
Quand che l’istà a së slarga an sla campagna
e l’odor dël mentass as mës-cia ant l’aria
con ël profum dl’erbëtta limonaria,
as dësvija ’l diauleri ch’am compagna.
Ël diauleri, ch’a deurm neuv mèis a l’an
sota mia vestimenta sitadin-a,
arissa ’l pèil, a ponta fòrt la schin-a
squarsand la seda dël rispet uman.
E a sàuta galarù ’nt l’erba novela
con mila stiribàcole e sgambèt,
a s-cionfa ’d rije ant l’ombra d’un boschèt
mordend a sangh la fruta moscatela.
As tonfa drinta l’eva dle pëschere
sbaciassandse tra ij sàles e ij sambù,
ai fa le svergne a n’arsigneul përdù,
a dësnicia un levròt tirandje ’d pere ...
E s’a vëd na matòta an vesta reusa
ch’a fa marenda a l’ombra d’un busson,
mè diauleri as sent pià da un gran frisson
e a-j sàuta a còl dré ’d na caussagna ancreusa.
Ël can a bàula. Antorn, vache e bocin
a scapo sbrinciand l’erba ’d làit galup
e la Bela e la Bestia – ant un anvlup
ëd pèil e ’d rissolin – mës-cio ij basin.
*
Òh bon diauleri con ij pé forcù
che dòp set vòlte che ’t l’has fàit l’amor
te strojasse an sla riva d’un neivor
mastiand un broncc ëd ciuciamaro cru:
e ’t crije e ’t cante al bon odor dla vita
ch’ai ven su da la tèra ambrass al sol
e të spece – tra ij branch fòrt d’una rol –
ant ël cel grand toa bela ànima cita!
Òh bon diauleri che ’t dësvije ant mi
rissand ël pèil e sopatand la schin-a
tut ann, a magg, quand che l’istà a s’avsin-a
e ij gran a muro e j’erbo a son fiorì;
ti ’t ses la part pì rudia e pì nossenta
dla ciàira e svicia gioventura mia
e veuj che ’t la manten-e degordija
e veuj che ’t l’ancoron-e d’erba ’d menta:
fin che an sle piante ai subierà n’osel,
fin che ant ël cheur am canta un ritornel!
1934
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 119
Disegno di Giuseppe Macrì ~ 121
Tèra paisan-a
Veuj scassé la sivìtola dle pen-e
ch’a l’ha fàit la soa nià drinta mè cheur
e a l’ha ‘nluchìme l’ànima ‘d maleur.
Veuj che mè sangh a scora ant le toe ven-e
e che ij mè pols a cheujo tò boneur,
tèra paisan-a! An sle toe pupe pien-e,
s’j’erbe novele an but për le moren-e,
veuj ch’a s’angrìngio le radis d’mè cheur.
Ant la mia ment veuj ch’a së specia ‘l cel,
come a së specia ant j’euj d’una masnà,
con tuti ij sèt color ëd l’arch-an-cel.
Cogià arvèrs ant un sorch pen-a scarsà,
veuj essi come un dent d’n’èrpe d’assel
ant la tèra ch’a fuma al sol d’istà.
1928
Egloga mínima
Ille ego qui quondam…
Bej gran, dorà dal sol, che maravìa
‘d na fàula ij conte al vent ëd la colin-a?
La fàula svìcia ‘d na salamandrin-a
ch’a scapava al mè amor ch’a la vorìa.
Trames jë spì, con ba rijada s-clin-a
chila as voltava e l’eui ai bërlusìa:
ma un fil d’gramon, bëschì da soa cavìa,
ai tira na trapëtta birichin-a.
Mi fas un sàut e la mia man la toca…
Quand son sentume vni come un frisson
su për ij ren e ai nerv un tramolon.
L’hai tnula fòrt. Ma, boca contra boca,
pòvri spì d’òr, soma cascave ‘d zora.
Peuj… ij papàver ross a rijo ancora!
1927
Cantaran-e
Cantaran-e dla neuit, vsin-e, lontan-e,
le ran-e a canto sota ’l cel steilà
e ij grij a vrin-o, a fé la bela vià,
le nòte sclin-e dle canson paisan-e.
Lumin ch’as perdo për le bussonà
(parpèile cite, stofie ’d còse van-e),
e cel e tèra a fan j’an-namorà
tant ch’a ciusion-o ’d lor le tre fontan-e.
Fontan-e arionde, tute bordà ’d pere,
che v’atarde ant la neuit a ciaramlé
coma tre paisanòte comarere,
cheteve ché la lun-a av veul parlé …
Un bate d’ala, un pass, doe man legere:
na stèila ch’a robata ’n sël senté.
1927
Vendùmia dë stèile
CHOPIN: Nocturne op. 9, n. 2
Canta con tut l’argent ëd la toa gola
candia – ch’a sà la gòj ëd la mia man;
canta, che la canson a vòla sola,
coma un’ala ’d cardlin, lontan lontan.
e se la neuit a cala e s’as fa sola
l’ànima ’nt ël silensi dij rïan,
canta, che la toa vos a la consola
e ’l cheur – ch’a scota – a sangiutiss pì pian.
Dal cel a pendo ij rapolin dle stèile
madure a la vendumia ’d nòstr amor
e l’ombra, antorn, l’é un frissoné ’d parpèile …
L’ùltima nòta a s-ciòd come na fior:
mentre le pen-e a deurmo sot le stèile
e ij seugn con le speranse a fan l’amor.
1927
Paisagi sota la fiòca
Tristizia
I pin an miniatura
sislà ‘nt un cel ëd giassa
scajo ‘d neir la bordura
da Sant’Ana a la piassa.
Parpajòle ferije
- file drite, antërsìe -
ale càndie, fior càndie,
fiòco le litanie.
E ‘l silensi bianch-reusa
(la grand’ala dësteisa!)
cova l’ànima ofeisa
për ch’a s’ciòda la reusa.
Ma i nassrà na baldanza
ògni rupia ‘ndurmìa
ch’a massrà la speransa
euj-ëd-nita da strìa.
Se ‘l cussin a l’è candi,
s’a dindano le pene,
ël savuj ëd le vene
scor adase, a pié l’andi.
…Mi veuj fé na corona
con le giòie pì fine
për cissela dë spine
l’ora freida ch’a sona.
Confiteor
Nen pioré, veuj, nen meuire.
Gnune nòte doleuire
veuj ch'arsono 'nt le vene
che ti, amor, t'ëm fass piene.
Veuj tenté n'armonìa
faita 'd nòte lontane
con j'andure paisane
vërde-giaje 'd malìa.
Veuj pasié la tristëssa
con ël mòrs e la brila,
con na gòi pì sutila
d'una bianca carëssa.
E se 'l cheur a rantela
sota l'ansa 'd'na sfita
veuj ch'a brusa la vita
ant ël reu dl'ora bela.
Veuj che un crìj ëd vitòria
rompa l'aria dla seira:
foatand l'ala neira
con la fiama dla glòria.
E l'amor veuj ch'a canta!
E la gòi veuj ch'a crìja!
Veuj che l'ànima a sia
una spà 'nt l'aqua santa!
Vila Stlon 1929
L'erba galìa
Minca un pass che fasìa
un lumin as viscava
sle pianà che lassava
sul prà d’erba galìa
che, ant la neuit, a s-ciuplìa.
S-ciuplìa d’euj ëd galèt
sle pianà d’un faunèt.
Ël demone ‘d mesdì
Su da le reis angavignà ‘nt la tèra,
su da le vene ‘l desidere arbeuj
e la mia man at tasta prima e at cheuj
parèj dël pom madur ch’a casca ‘n tèra..
Boca su boca, sensa vëd-.se ant j’euj
(ant i cavèj n’odor d’erbassa amèra)
randa a lë Stlon, che ten la cauna a meuj,
i nòstri nerv son grop ëd serp an guèra.
Bela e sarvaja, ant ël calor d’mesdì,
tuta toa carn a l’è ‘n foré dë spì:
zanzive rosse al sangh ëd la rijada…
I bei rimòrs a passo andrinta ‘d mi
coma ‘n vòle ‘d colomb sota n’arcada.
E un gal a canta për la gran solada.
Vila Stlon 1927
La serp
L’hai vistla da masnà, la serp oslera,
coacià a l’avàit contra le rèis d’na pianta.
Sle rame an fior un bel re cit a canta
e ‘l cant jë stissa an sl’onda ‘d na bialera.
Ma j’è na testa con j’euj verd ch’a svanta
su la cadansa dla canson legera:
e tra j’erbe sarvaje dla bruera
la bissa a sghija pian randa a la pianta.
Tut a l’è pase ant l’ora dël mesdì.
Ma ‘nt ël calor ch’a cësis quasi e a sfiama
un sube tramolant a smia ch’a ciama:
e ‘l re cit a cor giù da rama an rama,
a sàuta ‘nt ël gramon tut degordì…
Peui: doe piume e un po’ ‘d sangh tacà a në spi.
1930
Vèrs d'una neuit d'istà
Maint poème est la cage où chante
un vers captif.
Emmanuel Lochac, Monostiches
Le monostiche, ainsi conçu et réalisé,
est bien un poème en vers.
Georges Lafourcade
Sota ’l chinché steilà dla neuit profonda.
Su lë specc dë smerald ëd la pëschera.
La lun-a a frisa ij sò cavèj dorà.
Ij fij a canto coma un còro ’d grij.
Ij fij ëd seda scantirà dël vent.
Frissoné d’eve sui cussin ëd nita.
Tute le perle dla rosà tra j’erbe.
Fior, fior ch’a dindan-o, orcin dël seugn.
Ël mus-cc a pend, giù da le scòrse ’d j’erbo.
Vos cantarin-e ’d boche përfumà.
Sl’ànima sombra ’l sofe ’d na malìa.
E un miraco ai mè euj, pian, as dëssela.
Le toe man bianche tèise vers ël cel.
(Colombe ch’a-j dan j’ale al desidere).
Ij tò pass cadansà ’d zora ij mè pols.
Ij tò euj: doe ciochëtte a la seren-a.
(Ant le ciochëtte: ’d luminin ch’a frijo).
Ma toe parpèile a bruso coma ’d làver!
Toa boca su la mia: në slussi an cel.
Ij tò dentin contra le mie zanzive.
Noi respiroma ’l respir dle radis.
Sentoma bate un cheur ant ògni feuja.
La toa carn reusa a s-ciòd da la toa vesta.
Silensi ’d neuit d’istà, profum ch’antesta.
A-i cola an s’j’erbo na dosseur d’amel.
Ël tò còrp ch’a së smon a un bagn ëd lun-a!
Le nòsse dël pecà con toa passion.
Le faussìe dij mè ren sijo ’l piasì …
Le toe forme scurpìe – ’d marm – su la tèra.
… Ij tò sospir d’angel uman cascà.
Baulé dë schergne d’un cagnass ramengh.
Sui mojiss ëd cristal, arfiajì ’d lësche.
Un babe gnògno ch’as buta a subié.
Saruss ëd l’erba a la nebia d’argent.
Tre ran-e martin-e a taco a sauté.
E ij grij arpijo a fé sò virulitt.
Ma, adess, l’écloga as cangia an elegìa.
Òh stèile, euj largh su le folìe uman-e!
Vòstri euj sensa pietà cisso ’l rimòrs.
Làcrime: fije dl’ànima e dël cheur.
Àngel che ’t piore e t’ëm mostre a pioré.
Ij tò sangiut martelo su mè cheur.
Mè cheur arbomba, sol, come na tomba …
Pòvr’ànima sbardlà a na mia carëssa.
Mìstica reusa ant un gerb ëd tristëssa!
Neuit, neuit d’istà, corma ’d velen e ’d blëssa!
1936
Le trè patìcie
Tre fiëtte a pijo ’l bagn ant na fontan-a.
Un-a a rij, un-a a canta
e l’àutra – chin-a an sl’eva –
a bat con le doe man,
con bel ghëddo paisan,
ël temp ëd la canson sle cheusse arionde
e aj pendo ’d zora ij sen le tërse bionde.
N’avija
e na farfala
a vòlo an sla fontan-a.
Na ran-a
a sghija
a pansa mòla e – ploch – a sàuta via.
Na feuja ’d sàles dëstacà dal vent
a së sbalàucia tacà ’n fil d’argent,
fin ch’a së s-cianca ’l fil e chila a vira
ant l’aria tëbbia
e a cala
’n sla spala
dla fiëttin-a ch’a rij:
a rij
a rij
a rij
përchè un pëssin babòcc l’é anfilasse tra ij dij
dël sò pé drit, e, a fòrsa dël gatij,
la fa ’nsupé ant le nite
mandandla a cul a meuj e a gambe drite.
... Sla riva as chin-o tërdes margherite
sbrincià da na slampà ’d tërdes ëstisse
bleuve
an sle testin-e giàune e bianche arisse:
e as ten-o tute tërdes
a tërdes ragg ëd sol,
për nen droché, chërdend ch’as buta a pieuve …
(1935)
Tramont
Ël sol a l’é un pugn ross con un ventaj
dë stëcche d’òr duvèrt an sla montagna.
L’aria as fronziss ëd verd. Ël cel a sagna
sël fil ëd sàber d’un giassé ’d cristaj.
Message
Tant che j’era cogià
tra spì ‘d gran e papavèr
na farfala vlutà
l’é volame an s’ij làver.
A l’è andasse e tornà
con na festa ‘d gatìi.
Fior e bàuce andorà
as passavo ‘d bësbìi.
Mi sentìa ij frisson
- è-lo ‘d mòrt, è-lo ‘d veuja? -
d’una reusa an boton
che, a ‘n sospir, as dësfeuja.
A l’è stait un basin
d’ale rosse. Na fiama.
N’ànima? ‘N rissolin?
O ’n message ‘d mia Mama?
1951
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 153
Un nì
L’ha vist d’eve corìe e ’d bòsch an fior,
bel vagabond con në s-cianchèt ëd menta
trames ai làver, për la strà lusenta
sle pianà dle lingere e dij tocor.
L’é gionzusse a le fèje dij pastor.
L’ha durmì ’nt ij ciabòt tra la tormenta
e a l’é nutrisse con un pò ’d polenta
meujà ’nt ël gius dij làver ross dl’amor.
J’amor dël vagabond a j’ero san:
còtia l’andura su doi fianch paisan,
le tërse bionde come dë spi ’d gran.
Sò cel, soa gòj, cangiavo tuti ij di.
Ma a l’é fërmasse – strach – ant l’ambrunì
e a l’ha piorà ’n sle busche d’òr d’un nì.
1936
Tòrce a vent
Yo tengo el fuego en mis manos.
Federico García Lorca
Fiame, rosse caviere
che spatare ant ël vent
le farfale d’argent
ëd le spluve legere.
Fiame, rosse bandiere.
L’hai sërcà ’d carësseve
pen-a vistve, da cit:
che ’m cissave un invit,
n’anvìa fòla ’d baseve.
Spricc ëd sangh ch’iv soleve.
Mese lun-e ’d faussije
anfiorà, come ’d làver,
de spi ’d gran e ’d papàver
sota un vòle d’avije.
Lenghe ’d fàun cioch ëd rije.
Crëste vive ’d galòro
come giòie ’d sufrin;
doje përgne dël vin
dle vos càude dij còro.
Feuje ’d vis ch’a s’andòro.
Foèt giàun ch’a s-ciuplisso
dësneudà come ’d serp:
tra la fum ëd jë sterp
euj ëd brasa ch’at fisso.
Cove ’d tigri ch’as drisso.
Cheur avisch d’alegrìa
ant la neuit frissonant
con rifless ëd diamant
cangià ’n feu për magìa.
Cornà ’d tòr ëd Sevija.
Fianch foà ’d bailadora
ch’a së stòrzo ’d piasì
sbrincià ’d sangh benedì
dël Crist nu con j’òss fòra.
S-cirpe ’d mùsica mòra.
Bussonà ’d reuse mate
dij tramont ëd cel vèrt
che l’hai vist sij desert
con ël ghibli a combate.
Simitare scarlate.
Reu ’d colòne torzùe
’d mausolei egissian
s’j’orisont ëd safran
tajà ’d palme spërdùe.
Trombe ’d sabia e dë splùe.
Ale ’d màchine ’d guèra
tra garlande ’d color,
canson drùe ’d motor
ch’a rimbombo an sla tera.
Tèra ’d sënner amèra.
Scaje ’d pèss tra le fèrle
dij boschèt ëd coral
sota ij mar stërnì ’d sal
e ’d cuchìe orlà ’d perle.
Euj d’olive ant le gèrle.
Fiame! Stèile marin-e
fëstonà ’d zora ij sen
d’Aventura ch’a ven
coroneme dë spin-e.
Òh, ij mè seugn, mie ruvin-e!
Ma sël nèir paisagi
dla mia vita ’d torment
àosso un pugn prepotent
con na tòrcia ’d coragi.
E un sorch, ross, l’é mè viagi ...
*
Tòrce a vent, crij ëd fiama
ant la neuit sensa fin:
compagné mè destin
vers la lus doa lo ciama
ël silensi ’d mia Mama.
Roma, 7 dzèmber 1947
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 163
La poer
An sël mè cheur gorègn ëd vagabond
j’era la póver dlë strà ’d tut ël mond.
Amor m’ha batù ’l cheur con un tërfeuj
e cola póver l’é volarne ant j’euj.
Mè rosaire nèir
Amors de terra londhana,
per vos totz lo cors me dol!
Jaufré Rudel
Òh Mama, lassa che vada
a dësvijé l’aventura
an tant che l’aria a l’é pura
’d zora la bianca cascada.
Caval a j’onde armoniose,
contra la barca dle pen-e,
a scherseran le siren-e
cantand soe veuje da spose.
Fior ’d velenose fragranse
navigheran su la sponda,
s’anlïeran d’zora l’onda
’d feuje crosià come ’d lanse.
Batend ij rem a fior d’eva,
con fòrsa neuva e goliarda,
la volontà pì sbëfiarda
su ’l mè destin farà leva.
Vëdrai le cese ’d verdura
chinà ’n s’j’autar dle rochere
e ij monument ëd le pere
scurpì ’nt ël sen dla natura.
Scoterai l’eco dla guèra
sle canson triste e lontan-e:
rosare dle carovan-e
për ij desert ëd la tèra.
Tocrai la tèra ch’a fuma
come na piaga duverta,
angringià ’d serp ma deserta
da rabia uman-a ch’a scuma.
Sarai amis ëd le piante
ch’am daran j’ombre sorele:
come le nòstre, pì bele,
ch’a j’é ’nt j’amson frissonante.
Giunzend le man a scudela
beivrai ël sol ch’a t’ancioca
– pugnalerà la mia boca
la sèj ch’a rusia e a dësbela.
E vëdrai l’òm ch’a në schiva,
la pel color ëd la sèira:
fognandje l’ànima nèira
vëdrai na lus forse viva!
Mè sangh, pì tërbol dla nita,
ciamrà ’d cò chiel la bataja
– la prima! – aussand la zagaja
a le sorgiss ëd la vita.
Sarai ël rè dle crosiere:
l’arch e la flecia a scarsela,
’d zora un gamel sensa sela
via! sle pianà dël mistere.
Cassrai la bestia ch’a crìa,
con ël cotel mojà ’d tòsse,
festegerai le mie nòsse
scarsand l’antica ferìa.
L’avrai ëd fomne ’nt la gabia
con le colan-e ’d cuchìe
con le caviere ancutìe
për rabasteje ’nt la sabia.
Adorerai na figura
sislà con l’ìntima pen-a
dël pòvr’artié ch’a s’antren-a
a rusié ’l cheur dla natura.
E le vos ràuce dij pare
m’aramberan l’esistensa,
longh a j’andor dla cossiensa
’d zora n’acòrde ’d chitare.
Neuit. Proverai na cantada
sle vos ch’a gelo le spin-e
a ’n luminé mie ruvin-e
con un’inmensa rijada.
Guardand l’arionda dëstèisa,
tra le ragnà ’d mila stèile,
sarand pian pian le parpèile
rivëdrai l’ànima ofèisa:
– Òh Civiltà! Veja Euròpa,
come na jena të spusse! ...
M’andurmirai sensa crusse
a còl d’un seugn ch’a galòpa.
Ël feu viscà con la pera
savrà scassé ij disingani
ch’a l’han guastaje ij vint ani
a costa pòvra lingera ...
*
Òh, lassa che vada, Mama!
L’hai fovatà la paura.
Quand che la tòrcia a l’é pura
ël vent jë slarga la fiama!
Alger, 1931
Làuda dël marabut
S’na canissa, nu, dëstèis,
al ruin dël sol d’istà,
veuj rësté con j’euj slargà:
marabut ch’a prega Allah,
còrp e spìrit sensa pèis.
E s’a va la carovan-a
con le s-cirpe rosse al vent,
mi la guardo indiferent:
la saluto con la ment
tant ch’as perd travers la pian-a.
Frev ëd guère e ’d lontananse,
desideri d’aventura,
ilusion ëd fomna pura,
l’hai përduje an gioventura:
son mach pì dle ricordanse.
Ël ricòrd a l’é na fior
corma ’d vin lusent e seule
che ti ’t bèive quand ch’it veule
e ’l tò sangh a dventa eule:
eule ’d palma a tò dolor.
Ch’a travaja ò ch’a marcanda
l’òm dël souk ò dla tribù,
l’òm dla lege ò col dl’abù,
pr’avèj fomne, sòme, scù
o un palass a Samarcanda ...
La richëssa a conta gnente,
ma ’l Coran a conta tut.
Ël travaj a fa vnì brut,
pensé tròp fà rësté mut.
Mej sté cogià longh: e sente.
Sente ij pass dla gent ch’a va
– con dë spin-e ant ël sërvel,
d’òdio an sen për l’infedel
e na man ’d zora ’l cotel –
për le viëtte dla Kasbah.
L’infedel ëd la pel bianca
scàuda ant cheur seugn ëd conquista
ma l’ha un’ànima assè trista
e la mòrt lo ten ëd vista,
come noi, e, un di, lo ranca.
L’é destin meuire e marsé
sota tèra ò tra j’erbass,
past ëd verm ò ’d cornajass,
sota ’l cel ò fra quatr ass.
Tant a val deurme e sugné!
Preghé Allah, grand e potent,
për ch’an fasa meuire bin:
sensa gòj, sensa sagrin.
Fin che ’l sol a va al declin
e na stèila as visca al vent.
Con ëd sabia an sle parpèile
nèir e bianch son tuti bej;
rich ëd poj e rich d’anej,
ant la seugn, a son fratej!
E mi rijo al rìe dle stèile.
Tebourba (Tunisia), 25 dzèmber 1932
A windy Day
A picture by E.F.G. Guérard (1821-1866) at
Walker's Galleries, New Bond Street, London
Na giornà ’d vent a l’é na maravìa
ch’am ripòrta la ment vers a l’età
dle young ladies biondin-e an falbalà
ch’as tiflavo ’d bel deuit e ’d poesìa.
An sël vitin ëd vespa bin sancrà
ël bras d’un gentleman a së strenzìa,
con ij nerv frissonant, për ten-je a fren
le tortolin-e svice ’d doi bej sen
ch’a spompavo ant ël vent për volé via.
Ij suportin ëd paja dij capej
as dësversavo ad ògni colp ëd vent,
a volavo ant j’ariss ij doi bindej
mal anlijà sota ’l facin rijent.
E le veste – òh le veste! – a l’era mej
quacesse: për che j’euj impertinent
a pudèisso nen vëde le cavije
e tante d’àutre còse bin turnije
ch’ai piaso ai giovo e a fan soride ij vej!
Al rondò ’d Piccadilly ambandierà,
na rela ’d birichin pèiver e sal
së stermava da para d’un fanal
con la flecia tra ij dij tèisa, bandà:
spetand che un sofe largh ëd maestral
aussèissa ij rigadin dla nobiltà,
për sfrandeje un bel òss ross ëd ceresa
ant le ciape carnose ’d na Marchesa
con le vestin-e a rova svantajà.
Veste larghe dë vlù bordà ’d pissèt
aussà dal vent – come na man dë spos:
d’un ëspos impassient e malgrassios
ch’a veul toché ’l cicin ’d zora ij caussèt!
S-cirpe ’d seda listà ’d color giojos
ch’a dëscurbìo, su ’n cheur, un cit bochet:
un bochet ëd violëtte profumà
ch’a volavo an sla tuba ambalsamà
d’un honourable sir surtì dal ghet!
Londra antica, busiosa e moscardin-a,
che t’ij mostrave al Contin ëd Cavour
la siensa dla polìtica ’d jë sgnor!
La polìtica inglèisa busiardin-a
ël Cont a la vëdìa ’nt Lady an fior
dal portament superb d’una regin-a.
Ma quand ch’a jë vnisija un colp ëd vent
dai paìs pì davsin dël Continent
– ahidé! – che sgiaj a tnisse la vestin-a:
për che gnun ai vëdèissa an sle brajëtte
ij sign ëd le manasse dij corsar
che, tornand dai paìs dë ’d là dai mar,
ai fasijo ’d carësse bin maunëtte!
... E ’l nòst Contin – paisan particolar –
as rangiava j’ociaj ëd le stanghëtte,
adociava col gest e a concludìa
che për intré ’nt le grassie ’d cola fija
l’era mei nen parlé dle soe brajëtte ...
L’òm furb ai ciama mai a na morosa
vaire mas-cc, prima ’d chiel, a l’ha ambrassà;
ai fa nen ël process al sò passà
s’a l’ha avù n’esistensa ... facessiosa.
Ai passa ansima al nùmer dij pecà
e as gòd la soa carn reusa prosperosa.
Come ’l vent, ëd cò chiel ai tira via
la pleuja ricamà dla lingerìa
susnand la polpa còtia e delissiosa!
Giornà ’d vent, che t’ëm pòrte a ricordé
le tradission polìtiche dla Stòria
dël mè Piemont gentil coronà ’d glòria
che tante còse a l’ha savù s-ciairé!
Sensa mai anciochesse con la bòria
– ma con un pò ’d furbissia e ’d savèj fé –
ël birichin Piemont dël prim Eutsent
quanti òss ëd ceresa – ant ij di ’d vent –
a la young lady a l’ha savù tiré!
Windy day – largh, arios – an sla sità
dle miss bionde parèj dla canamìa,
ti t’ëm traspòrte con la fantasìa
a n’época tròp bela e dësmentià:
ancheuj che un vent ëd guèra a pòrta via
s-cirpe, bindej, pissèt e falbalà!
Pròpe ancheuj che ant ij cheur la poesìa
l’é mach pì na fior sëcca. Ancheuj, ch’a nija
andrinta un mar ëd sangh l’umanità.
Londra, mars 1940
Disegno d IGiuseppe Macrì ~ pag. 187
“Gitana”
Gitana, que tu serás
como la farsa monea
que de mano en mano va
y ninguno se la quea.
Zambra popular
¡Gitana, te quiero,
gitana andaluza!
Su l’argent dij tò euj
(ant la neuit tormentosa
randa ’l feu milonguero)
a frisson-o ij mè euj.
¡Gitana, te quiero!
Son ’d cò mi dla toa rassa
sensa pas, sensa ca.
Për un mont e na pian-a
son un sìngher ch’a va:
na ligera ch’a passa
vestì ’d seugn e ’d frustan-a.
¡Gitana, te quiero!
Lassme stende le man
su la giòla ’d tò feu.
Lassme sté ’nt la neuit sombra
ant ël ciair dël tò reu
ch’a dëstend la mia ombra
tra col mòrt e toe man ...
¡Gitana, te quiero!
Ti ’t ses sola e ti ’t piore
ginojon su la tèra
randa un mòrt ch’a l’ha fate
e rendute la guèra.
Për dontrè teste mate
nòstri cheur son dësmore ...
¡Gitana, te quiero!
Pijme al pòst dël tò mòrt
che të strenze sul cheur:
mi sarai tò cambrada
ti ’t saras la mia seur.
Për la strà dla valada
marceroma pì fòrt ...
¡Gitana, te quiero!
... e lassroma andaré
tuti ij viv, tuti ij mòrt
ëd cost mond ëd canaje
ch’a-j regalo a la Mòrt
nòstri cheur për midaje
e nòstri òss për candlé ...
¡Gitana, te quiero!
... e ’s n’androma lontan
për le strà pì lontan-e;
troveroma ij fratej
ëd le gran carovan-e;
sentiroma dai vej
che ventura an diran ...
¡Gitana, te quiero!
Ma an diran na ventura
fàita ’d pas silensiosa
càuda ’d sol e d’amor!
Òh mia brun-a morosa,
mia compagna ’d dolor
d’una neuit tormentosa,
d’una neuit trista e scura,
ancontrà su la tèra
meujà ’d sangh da la guèra
randa un bòsch
randa un mòrt
randa un feu milonguero …
¡Gitana, te quiero!
Lérida, mars 1938
“Goyesca”
Am piaso le fumele ’d sang bujent
ch’a balo ’d sarabande a la torera
con un ghëddo da Càrmen sigarera
e na reusa ch’aj sagna an mes ai dent.
E sui làver a l’han na piega amera
e ’nt j’euj l’han ij rifless giàun e tajent
dlë stilèt d’òr con j’inissiaj d’argent
ch’a stërmo tra la cheussa e la zartiera.
Le fumele ch’a balo su le piasse
tra në sventaj dë s-cirpe colorà
e un trabaté ’d tamborn guernì ’d midaje
E ’l sol dë Spagna a ’nvisca le muraje
anfiamand ij pogieuj ross fioragià
d’ariss tirabasin e ’d piante grasse
Sevija, 1937
A un pàira dë scarpon "Made in England"
Vòst coràm a l’é stàit bandà ’n sla schin-a
drun tòr chërsù ’nt ij pasch d’Andalusìa,
mòrt con sij còrn tuti ij rosé ’d Sevija,
na spà ’n sla front e al còl na bandierin-a.
Sëccà dal sol, onzù ’nt na faitarìa,
l’han rotolalo an sl’orlo ’d na banchin-a
e un bastiment con vele argentà ’d brin-a
sl’onda dël mar a l’ha portassilo via.
Da na copeusa ’d Londra seve nà,
ò fieuj dël tòr che, minca un pass në sgari,
corije ’l mond për mi vint ani fa.
E adess iv treuvo an fond a un vej armari.
Ancora dru, scarpon, dòp tanta strà!
Mentre mè cheur a l’é rusià dai giari.
22 avril 1955
Fontan-e 'd Villa Borghese
Òh faunèt ch’i vë spòrze an sle fontan-e
a sbrincé le nereidi patanùe:
le nereidi dle cove ’d pèss torzùe
e con ij sen ch’a spompo ’d veuje uman-e.
Òh bej sarvan che, an s’j’erbe molanciùe,
v’argrigne për vaité ij sàut ëd le ran-e:
e son-e, ant vòstra fluta, arie pagan-e
gonfiand ëd gòj le panse bëdrassùe.
Òh triton verd che ’mbranche con le man
ij fianch ëd le siren-e euj-ëd-giusmin
për anfileje al còl perle ’d basin.
Òh maravìa ’d cost mè seugn pagan:
podèj cangeme ant un bel cit latin
e cavalché ’n sla gheuba d’un delfin!
Roma, 1945
Balada për ël gran giubileo dël prensi dla fam
Ò canson dël fieul scassà da sò pare ma che a l'ha trovà l'istess për ël mond sò boneur
Quand che mè pare a l’ha
mandame via da ca,
j’era giovo e malave,
j’era sensa un quatrin:
l’avìa mach ij lumin
dij mè euj për pioré.
E, tut-un, son partì
lassandje ’l mè bondì,
sensa ciameje un dné
nì volteme andaré.
Quand che mè pare a l’ha
mandame via da ca.
Quand che mè pare a l’ha
mandame via da ca,
portava doe ferije
ant na gamba: e mè sangh
samboirava ij sorch bianch
dla fiòca sij mè pass.
Epura, a dent ciavà,
son rabastame an là:
bindandme con dë strass
e rëmnand con ij brass.
Quand che mè pare a l’ha
mandame via da ca.
Com Nosgnor l’ha vorsù,
son nen mòrt. L’hai vivù
sle pianà dl’Aventura:
ranchësand vagabond
tra ij bòsch ëd cros dël mond.
Travajand për mangé
son vnu prensi dla fam:
sensa diventé gram
e sensa mai robé.
Consolandme a canté.
Quand che mè pare a l’ha
mandame via da ca.
Quand che mè pare a l’ha
mandame via da ca,
òh, mia mare a piorava:
ma a l’ha lassame andé.
Forse a savìa ch’a j’é
na stèila an tut maleur …
E, an sle mie strà ’d dolor,
l’hai peui trovà na fior
con ël nòm dël boneur
ch’a l’ha steilame ’l cheur.
Quand che mè pare a l’ha
mandame via da ca.
Quand che mè pare a l’ha
mandame via da ca,
chërdìa mai pì ’d troveme
sla tèra un àutr abrì.
Ma – dòp avèj sufrì
da sentme soné ij bòt
dl’angonìa ’nt ël sërvel –
com l’é piasuje al Cel
ancheuj l’hai mè ciabòt
pien ëd seugn sanculòt.
Combin che ’l pare a l’ha
scassame, un di, da ca.
ENVOI
Pare-paronto che
veule pì bin ai dné
che al frut ëd vòstre ven-e,
vive con vòst rimòrs:
mòrde, s-ciumand, ël mòrs
ëd vòstra crudeltà.
Adess mi l’hai l’amor,
un ni tra vigne e fior.
Voi, sensa ca e danà …
Vàilo a dì, canson. Va!
1953
Sicilia
Vin. Sangh. Feu.
Mar ëd perla antorn a un reu.
Reuse. Amor.
Fior color cel. Cel color dle fior.
Ël vej dle sabie
Y yo soy el que me voy.
Góngora
E mi son col ch’as na va
vers la mòrt, ògni giornà.
O vej bianch con j’euj profond,
Temp, ti sol it reste al mond.
’T reste, etèrn, con tò strument
– siass ëd véder trasparent –
a siassé la sabia ’d j’ore
che ant la Vita ’t lasse score.
Vita ’d sabia. Statua d’ore.
Pen-a fàita, ’t la sotore.
‘T na fas n’àutra an dontré ore.
Pen-a fàita, ’t la sotore …
‘T la rifas. E ’t rije e ’t piore.
Pen-a fàita ’t la sotore …
Temp, vej bianch, che a siassé j’ore,
për passé ’l temp, it dësmore
con ël cheur d’una masnà
sël sabion dl’eternità …
E mi son col ch’as na va
vers la mòrt, ògni giornà.
1951
Ritratin ëd la gòj
Na madonin-a piturà dal diàu,
pien-a ’d grassia inossenta e d’argent viv,
con un sercèt ëd lusentele an testa
e na coron-a ’d reuse tra le man.
Stèilin-e 'd fiòca
Stèilin-e ’d fiòca che ’m rubate an s’j’euj
mostrandme ’l paisagi bërlusent
dël Paradis: e ’v cange ant un moment
ant làcrime gelà ... Stèilin-e an s’j’euj!
Lë stronel
A pieuv al sol. E mi son cogià ’n tèra
patanù come un ròch flinà dal vent.
Da la mia pel sbrincià ’d gosse d’argent
a sfiama n’odor tëbbe d’erba amèra.
Na fiorin-a ’d genestra am pend tra ij dent
e a smìa piantà ’nt una chërpura ’d tèra.
Tra ij pèil dlë stòme am lus na cita guèra
’d mosche e ’d farfale avische ’d ragg bujent.
Scurpì ’nt la pera scura dla montagna,
scoto gnanca pì ’l tranfi ’d mè respir:
ël mar, da val, më smon sò largh sospir.
Con ëd frangëtte d’òr, la pieuva am bagna.
Rùid. Grev. Un ròch. Ma j’euj a guardo ’l cel:
e ’l cheur am bat al vòl bleu ’d në stronel.
Uscio, 1948
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 215
Cantaglòria 'd San Fransesch dël desert
Òh San Fransesch, amis
ëd j’ore triste mie,
che ai làver ëd soris
t’ëm pòrte – amel d’avije −
e t’ëm dësvìe ’nt j’orije
un ciricì d’osej.
E ai dij it l’has d’anej
ëd fior d’avemarìe
e, stèile ’d sangh, ferije
sle palme benedìe.
Fa gòj lavesse j’euj
an tò lìber duvèrt
ch’a l’ha na sors, tra ij feuj,
d’eve profumà ’d verd.
Fa gòj, d’antans-antan,
tonfé la facia, pian,
ant la conca ’d toe man.
Toe man ansangonà
dai ciò dla Santa Cros
ch’a stisso na rosà
’d sangh ëd reuse odoros
an sla mia carn piagà
dai luv nèir dij pecà.
E ti, su mi chinà
come ’d zora un lepros,
it meizin-e, pietos,
mè cheur d’onta cuvèrt.
San Fransesch dël Desert!
San Fransèsch dël Desert,
tornanda da lontan
d’anté che l’aria a beuj,
as dà ’l miraco uman
che arnassa un cit paisan
con n’anima ’d tërfeuj
e un cheur pomin d’amor
e un plage ’d persi an fior,
na testa rissolin-a
d’erbëtta cresporin-a ...
se torno, sensa orgheuj,
bagné ij lumin ëd j’euj
ant j’onde dij tò feuj:
venà dl’azur ch’a l’han
le ven-e dle toe man.
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 220
Toe man
fàite ’d des ëspì ’d gran
lijà da ’d frisson doss
a doi papàver ross.
Toe man.
Piume ’d ragg d’òr luisan.
Toe man.
Ale sagnante an cros.
Toe man
carcà ’n slë stòme, pian
– ant ël bel gest cristian
dl’Ave! maravijos –,
con ij doi pols consèrt.
Come un missal duvèrt.
San Fransesch dël Desert!
1952
Invocassion a Notre-Dame de Paris
«Au pied du Crucifix souvenez-vous des morts de la guerre.»
Paròle scrite su l’inginojator piassà dë ’d nans al gran Crocifiss ch’a j’era ant la sconda navà a drita dël portal d’intrada dla Catedral ëd Notre-Dame de Paris. Ël Crocifiss a l’era contornà da na fra ch’a resija quatr candelié ’d diversi brass. Daré dij candelié, da na banda e da l’àutra, sinch bandiere listà a deul.
Costa invocassion a l’é stàita inmaginà a Paris, ant ël 1940, pòchi di prima dël cròl militar ëd la Fransa e dl’intrada an guèra dl’Italia.
Notre-Dame dë Paris, sla toa faciada
ij sant ëd pera a levo ’l pastoral
mentre ij frà, ginojon, reso ’l missal
e un son d’òrgo a compagna na cantada.
La cantada dij sécoj dla toa Stòria
òh Fransa ’d Carlo Quint e ij rè cristian;
Fransa dël Còrs che con soe stesse man
s’ancoronava imperator an glòria
e tra le arcade gòtiche ai passava
un’ala ’d sacrilege aquilonar
che chiel l’ha dovù sente an mes al mar
quand che ’n sla soa ruvin-a a sospirava.
Òh Notre-Dame, rochera benedìa
doa ’d tanti sécoj son rompusse j’onde
scumand la rabia, ’l deul, le gòj profonde
tant che ògni pera e n’é restà scurpìa.
Òh Notre-Dame ëd l’Esmeralda ’d seugn,
ëd Quasimodo gheub e mangagnà
che le toe ciòche ’d brons a l’ha sonà
piorand sò amor ch’a galopava leugn.
Òh Notre-Dame che të më strenze ’l cheur
con tute le toe strije e ij tò diauleri,
le sivìtole ’d pera e ij tò misteri
ch’a fisso la sità sombra ’d maleur:
ch’a fisso, ant costa neuit nìvola ’d guèra,
ij croass dël dolor e dla ruvin-a
avsinesse ant un vòl ross ëd rapin-a
su Paris ch’a sangiuta front a tèra.
Òh Notre-Dame, nav corma ’d poesìa
che ant ij bej di dla pas, sla sità granda,
të ’lvave an cel, parèj d’una garlanda,
gulie e colombe al son dl’Ave Maria:
e le rive dla Seine, davsin a ti,
t’ofrijo a primavera j’orm an fior,
le bele fiëtte e le canson d’amor
ch’at profumavo l’aria d’ògni di ...
*
Òh s’a fa mal rivëde ant l’aria scura
ëd costa neuit ëd guèra sensa lun-a
la bionda pecatris an vesta brun-a,
Paris la bela, strangolà ’d paura!
Paris che, ancoronà ’d reuse e ’d basin,
a dansava dë ’d neuit la soa folìa
ma ai primi artoch soav dl’Ave Marìa
s’anginojava ’d zora ij tò scalin;
e ti, Mare pietosa, it përdonave
le soe svincëtte mate ’d gioventù
përchè ’t savije che ’l sò cheur dë vlu
l’era nen gram: e ti ’t la carëssave
e t’ij mostrave, ant la matin nebiosa,
la dura stra ch’an fa merité ’l pan
e Paris as signava con la man
e a corija al travaj brava e seriosa.
*
Òh vita! Giòla fìèivola, ala bleuva,
che ’t chin-e sota a le ventà dël visse
ma t’arpije con fòrsa e ’t rifiorisse,
sle sënner grise, splendrienta e neuva!
Òh, ’l vòl d’àngej ch’ai seurt da cola fiama!
Da la tempesta frosa dël pecà
së spantia an cel n’asur ëd santità.
La putana d’ancheuj, doman l’é mama.
Doman sla neuit ëd l’ànima pì ancreusa
a së slarga na pieuva ’d pentiment
e j’euj ëd l’alba a vëdran luse al vent
la làmpada votiva d’una reusa ...
Òmini fier che ten-e ’l nòst destin
sarà ’nt ël pugn come na spa tajenta,
dnans ëd dovrela a dé la mòrt violenta
fevne una Cros për recité ’l vòst bin.
Për l’amor ëd col Òm giust ch’a l’é mòrt
anciodà su la Cros tra ij doi ladron,
vërsé ’n sla vita l’eule dël përdon,
fé splende costa fiama, òmini fòrt.
E ricordeve che la Vita uman-a
a l’é fija dla Grassia e dël Pecà,
ma che su chila a vija la Bontà:
la Bontà ’d tuti j’òmini sovran-a.
Nòstra sovran-a an nòm dla Grassia eterna
ch’a splend ant j’euj dla Mare ’d Gesù Crist.
Vòstra sovran-a che dai consèj trist
dël demòne dël Mal venta ch’av guerna.
Venta ch’av guerna da j’oror dla guèra,
da la fòrsa dël Mal armà ’d canon:
strument ëd rabia, ’d mòrt, ëd distrussion,
ch’a squarso ’l sen ansangonà dla tèra ...
*
Òh Notre-Dame, òh Notre-Dame fransèisa,
Notre-Dame dël mè cheur ëd vagabond,
salva la Fransa, salva tut ël mond
da costa trista guèra ’d malintèisa.
Nòstra Sgnora ’d Paris, për tuti ij pior
dle mare an ginojon dnans a la frà
dël Crocifiss ëd tanti mòrt soldà,
fa chité costa guèra ’d disonor.
Ti Mare, ti pietosa, ti ferija
ant ël cheur sangonant da set ëspà,
mandje un ragg luminos ëd toa bontà
al cheur dla bestia uman-a anvelenija.
Manda l’àngel dla pas sl’umanità.
Notre-Dame de Paris, stèila ’d pietà!
Paris, giugn 1940
Disegno di Orfeo Tamburi ~ pag. 233
Làuda dël mar
Òh Mar,
bel sivalié
antich
cala dai brich
ëd Ronsisval
come Orland a caval!
Splendrient d’un’eterna gioventura,
cuvert da n’armadura
bërlusenta e temprà,
të spron-e a sangh
tò caval bianch
ch’a svanta la coa,
ch’a sopata la còma,
ch’argrigna ij dent
ant una corsa mata:
campand le scume ’d sò furor al vent
come ant na bela giòstra dël Tërzent!
Ij sò fianch, ëd tenës-cia scantirà,
as dëstendo sël mond
(anfiteatro ariond)
come doi arch bandà.
E ti, bel sivalié
faità
a la dosseur dla pas
e a la rabia dla guèra,
’t lo férme ’d colp con në strincon violent
’d nans a la Tèra:
dë ’d nans a toa morosa
ch’a të speta, grassiosa,
cogià ’d zora ’l tapis dle sabie d’òr
ch’a jë scàudo ’l bel còrp come un tesòr.
La Tèra
morëtta càuda, slanghìa,
che, tuta dësvestìa,
a speta che t’ij fase fantasìa
frenandje ’l tò caval
davsin
(con le doe madreperle ’d j’onge
e l’òr dij doi ciapin
ch’a luso ’d mila splùe
’d zora soe spale nùe)
rampand ant l’aria con un sàut frontal
sota lë stendard ross dël sol trionfal.
La Tèra càuda, òh Mar,
ch’a frisa tuta ’d gòj sota l’asar
dël còrp inmens, arcà,
dël tò bel caval bianch
ch’a pudrija pistela:
mentre, anvece, ti ’t cale giù da ’n sela
për core a ’mbrassela:
e ’t coge aranda a carësseje ij fianch!
Òh Mar,
bel sivalié
antich
cala dai brich
ëd Ronsisval
come Orland a caval!
1939
Cita làuda dël pan
Amprend a spartì ’l pan con le toe man.
Toclo mai con la lama d’un cotel.
Ël pan l’é sant, l’é benedet dal Cel.
Romplo adasiòt coma ch’a fa ’l paisan.
E scotlo a schërziné. L’ha ’l ritornel
’d në spi bëschì da l’ala d’un osel.
Làuda dle catedraj
A la memória 'd Nino Costa
Catedraj ëd mia vita ’d vagabond
doa l’hai pregà sensa paròle uman-e
ma con tute le pen-e mie cristian-e
ch’am sangiutavo drinta ’l cheur profond.
Monument dël dolor dl’umanità
batì con j’òss ëd marm ëd le rochere
che guerne ant vòstre ven-e, përzonere,
le làcrime dij sécoj tramontà.
Cùpole asure come j’euj dla Glòria
che fisse ’l cel con l’ànima dla tèra ...
Ant na tërbola neuit d’alarma ’d guèra,
mie catedraj che ’m torne a la memòria!
Catedral ëd Turin, doa che, masnà,
con j’ale ’d j’angelèt bianch ëd l’autar
l’hai volà ’n tèra Santa, ’d là dël mar,
con elm e lansa, Cavajer Crosià.
Catedral ëd Westminster, àuta e scura,
ùmida ’d nebia, ò ròca maestosa,
doa son sentume un’ombra ant l’ombra frosa
ch’a fiairava un odor ëd sepoltura.
Catedral angiojà ’d Reims an ruvin-a
(ël gal d’assel forà ’d bala nemisa)
con Jeanne d’Arc ch’a pianta ’nt l’aria grisa,
vers ël mar ëd j’inglèis, soa spa divin-a.
Notre-Dame ëd Paris, seur dolorosa,
che ’t l’has viscame ’d poesìa ’l cheur:
mè cheur fiorì dle spin-e dël maleur
ch’a spërm al vent na làcrima sagnosa.
Santa Sofìa d’Istànbul, milenaria
erca scurpìa ’nt ël marm ëd Costantin,
doa l’hai sugnà la Cros dël Fieul Divin
coaté la spa dël Turch sospèisa ’nt l’aria.
Catedral ëd Sevija, òh maravija
d’una vision che ant j’euj fiss am passava:
Juan Tenorio, vej, gheub, ch’a pregava
con la colan-a ’d perle d’una fija.
Catedral ëd San Pietro an Vatican,
ànima inmensa dl’univers inmens,
doa Michel Àngel, su la fum dl’incens,
l’ha solevà ’nt l’asur nòst mond uman.
Catedral ëd San March, perla marin-a.
Santa Maria ’d Firense, liri ’d seugn.
Ò miraco d’Orvieto che, da leugn,
të m’ampinisse d’òr l’ànima alpin-a!
Catedraj, catedraj ëd la mia vita,
dla mia vela asardà pòrt ëd fortun-a,
doa son intrà chinand la testa brun-a,
portand sui làver na paròla cita:
bësbiand un’Ave! bianca, sensa vos,
come ’l sospir dël cit ch’a nass al mond
e a sent già ’d vive drinta un mar profond,
ant ij gorgh dël mistere tormentos.
Catedraj, come ’l mond batije a sfera,
che strenze ant un ambrass un e divers
tute le fòrse prime dl’univers:
e l’aria e l’aqua e ’l feu sclin e la pera.
Ma la pera a l’é ’d crèja benedìa.
Ma ’l feu l’é d’una fìama ch’a n’ancanta.
Ma l’aqua vòstra a l’é d’un’onda santa.
Ma l’aria a l’é cilesta ’d poesìa.
E tut arviv ant un deliri ’d glòria.
Ël sol ch’a filtra da le vedrià
a-j dà ’d parpèile d’òr ai Sant chinà
su jë scartare d’òr dla Sacra Stòria.
La paròla, colomba dël Vangel,
e cala giù dal pùlpit, a bat j’ale
tra le colòne ’d vòstre arcade uguale,
a scàuda ’l cheur ëd l’òm e a vola an cel.
E la mùsica dl’òrgo a cheurb dë stèile
ël paradis ancreus dla vòlta granda
tant che l’autar s’anvlupa ant na garlanda
ëd reuse rosse an fior su le candèile.
E ’l còro dij rimòrs dlë creature
arbat come un martel sui ciò dla Cros,
arbomba come un gran cheur misterios
ch’a veul liberé ’l Crist da la torture ...
Òh fontan-e d’anciarm e ’d maravija.
Òh cuchije arsonante d’armonìa.
Òh ciòche ’d perla sislà ’d poesìa.
Òh combe. Òh trombe. Òh reu ’d lus infinija!
Ànime arionde ’d pera, ànime vive,
catedraj, cope ’d sangh dël Crist uman,
che la guèra av rispeta; che le man
dle nòstre mare a sapio benedive;
ch’a reso tuti j’òmini dla tèra
con soe spale quadrà vòstre muraje
– anche s’a strenzo con soe man sarvaje,
anflà ’d pàuta e ’d delit, j’arme dla guèra;
che sui ravagi ansangonà dla mòrt,
ant le tormente ’d feu su le frontiere,
le vòstre ciòche a-j pòrto ’l miserere
ai cheur ch’a ciamo al vent l’ùltim confòrt;
che peusse rësté an pé drite e sicure
– quand anche antorn a fussa già crolà
l’ùltima sosta dl’ùltima sità –
për benedì le nòstre seporture.
Catedraj!
Catedraj ëd mè cit cheur vagabond
che spalanche le pòrte ’d brons sul mond.
Roma, dzèmber 1941
Disegno di Giovanni Consolazione ~ pag. 251
«Dies iræ»
Costa a l’é la quarta dle sèt part ch’a compon-o una “Messa paisan-a cantà da la Mare d’un por soldà mòrt guèra”. La Mare a l’é anginojà an s’na ròca scura dë ’d nans a un Ossare ’d montagna ch’a guèrna j’òss ëd sò fieul: e a jë smìa ’d vëde un prèive bianch che, su col autàr ëd pera desert, a disa la Messa da mòrt che chila a canta an sangiutand.
Quand che su da costa tèra
coatà ’d ròch, d’erbassa amèra,
s’aosseran ij mòrt dla guèra;
quand che tute le Toe trombe
desvijran j’òss da le tombe
sle montagne, pian-e, combe;
quand che ’l tron ciamrà a giudissi
nòstre colpe e nòstri vissi
giù ’nt ël creus d’un precipissi;
’d zora cola, vai inmensa
it lesras la Toa sentensa,
ò Nosgnor d’ogni cossiensa.
Ti ’t védras, Nosgnor, antlora,
un paisan biond ch’a lavora
’d camp che al sol a sfiamo ancora.
Sò bel camp che l’hai guernaje
për ël gran ëd le batiaje
dl’angelèt che ’t l’has nen daje.
Mè por fieul (sòrt dolorosa!)
’d nans ëd sèrne la soa sposa
l’é mòrt su ’sta ròca frosa.
Sovagnà l’ha soa campagna
da paisan ch’a guma e a sagna
e soa mica as In guadagna.
Al travaj, mia creatura
l’ha fàit seulia ógni giuntura
dij sò òss e la pel dura.
Da masnà pasturand fèje,
da grandin a spòrze e a mèje:
mai storna da ’d brute idèje.
Òm, sò pugn scurpì in sla slòira
mai slanghisse ’d na mariòira
tra ij dilin d’ bòja pëssiòira.
Drit – parèj dij sorch ch’arava
doa la smens peui vantolava –
l’ha marcia da masnà brava.
Sempre! E un di l’han piamlo an guèra.
A më smija ancor nen vera
ch’a sla mòrt su costa tèra.
Òh Nosgnor, quand che t’èn ciame
ant la vai circonda ’d fiame,
salva ’l fieul che ’t l’has donarne.
Da le strop dlë fèje mate
sèrn la fèja ch’a l’ha date
sò lait bianch, soe lan-e fate.
E col’ombra, ch’a lavora
dare ij beu parèj d’antlora,
ciamla a Ti ’nt col’ùltim’ora.
Sla soa front l’anima mia
fa, col di, Nosgnor, ch’a sia
na farfala benedìa.
N’òstia bianca, n’òstia cita,
për guide la Toa man drita
vers la fior ëd la mia vita.
’d nans a costa seportura
scota ’l crij dla mia tortura:
«Salva, ò Crist, mia creatura!».
Hic ergo parce Deus:
Pie Jesu Dòmine.
Dona eis requiem. Amen.
1947
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 259
La preghiera dël sangh
Ex putredine vita
Ò Nosgnor dij mè vej, biond-sorident,
che ’t l’has guernane da masnà ’nt la cun-a
quand che strenzija già ij pugn inossent –
ant ij mè pior – anvers a la fortun-a.
Nosgnor che, avsin a la caviera brun-a
chin-a ’d mia mama, it j’ere lì present:
tant che ant la neuit, tuta anlagà ’d ciairdlun-a,
vos d’àngej am portavo ij buf dël vent.
Nosgnor; la neuit d’antorn a mi l’é scura
adess, e j’angelet son sensa vos,
sensa confòrt l’é ’l mal ross ch’am tortura.
Guarda: na mama a slarga j’euj pietos
d’zora ’l miraco d’una creatura
ch’as preuva torna a fesse ’l Sign dla Cros.
*
Ch’as preuva torna a bësbié pian Tò Nòm,
Nosgnor, come a coi temp ch’a s’andurmija
con le man giunte sl’orassion furnija:
l’orassion dësmentià ’nt ël cheur ëd l’òm.
E, coma da n’angorgh d’eva corija,
ai ven-o a gala tante cite fior
candie parèj dël pan dl’Eucaristìa:
le paròle ’d Toa làuda ant sò dolor.
Ò Nosgnor, ò Nosgnor, chin-te, s’it peule,
randa a la mama, come ai temp passà,
a pasié l’òm coma ch’it l’has pasià
ël cit che antlora it carëssave seule ...
Ël cit che peui da grand l’ha bëstemiate
e ant la tomba dël cheur l’ha soterate.
*
Da la piaga fongà ’nt la carn ancreusa
mè sangh at ciama, càud d’adorassion,
forsand le ven-e; e ’nvers a Ti a së smon
tant che la piaga as deurb come na reusa.
As deurb. E a seurt – ël sangh ëd mia passion –
coma da mila cheur an-namorà
dal cotel ëd la vita sacagnà:
mè sangh ch’a l’ha provà tuti ij frisson ...
As visca tra le binde, come un feu
ch’a versa la soa fiama e ’l sò calor
e ch’a m’anvlupa ’l còrp tut ant un reu.
Un reu ch’a splend ant la mia neuit, Nosgnor,
mentre ch’it torne ant una lus d’Amor
randa a mia mama e avzin a mè dolor.
*
... Lassme pì nen – fin-a a la mòrt – Nosgnor!
1937
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 265
Mistà d'òr
An sla mia testa a j’é
tre àngej a caval
fratej dij sivalié
gravà drinta ’l missal
ëd la fàula ’d Natal.
Ij sivalié ch’a van
su tre cavalin mòr
vers ël Cit ré cristian
a porte ij sò tesòr
ëd mira, incens e òr.
E la neuit sël desert
a profuma ’d giusmin,
ël cel a l’é cuvèrt
d’euj viòla ’d cherubin.
E lontan j’é ’n lumin.
Un lumin fait a cheur
che s-ciairo fìn-a mi
che l’hai avù ’l maleur
d’vorèilo fé sparì
dal seugn dij mè bej di.
Staneuit l’hai doi pais.
Un ëd sabia, african,
con stèile ’d fior d’alis.
L’àutr ëd fiòca, nostran,
con ël Mont Bianch lontan.
Ma tuti doi, an fond,
l’han col ciairin a cheur
ch’ai dis a tut ël mond
ëd désmentié ij maleur
an pregand con dosseur.
E ch’an dis la bontà
’d marce ’n sem da fratej,
an lassand le piana
– con dë schérzin d’osej –
sle pianà ’d nòstri vej.
Ch’an dis d’andé, ’nt lë scur,
nòst brass ch’a res n’àutr brass
për marce pì sicur,
vers ël Cit rè ch’a nass
an sla paja d’un giass.
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 270
Ël Cit ch’a ven a j’òm
ëd bon-a volontà
– dal grand autar dël Dòm
e dal pilion stërmà
ant na balma gelà –
për ësmon-ne ’l regal
dla lus ch’an dà ’l confòrt
ëd fene vëde ’l mal
e ’d përdonesse ij tòrt
e ’d fé na bon-a mòrt ...
*
Staneuit am fiòca an s’j’euj
e ’n s’j’erbo a bat ël vent;
tut antorn l’é n’arbeuj
ëd mulinej d’argent.
Ma vad sensa torment.
Che ’n sla mia testa a j’é
tre àngej a caval
fratej dij sivalié
gravà drinta ’l missal
ëd la fàula ’d Natal.
1949
J'euj ëd j'Àngej
J’àngej dël Paradis,
ant una neuit violëtta,
sbalucà da le stèile
a son cascà ’n sla Tèra.
Dë ’d zora ’l mond an guèra
l’han durbì le parpèile
e tuta bajonetta
l’ha s-ciodù ’n fiordalis.
A l’alba, su la Tèra,
j’era pì gnun nemis.
1946
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 275
Nòna malinconia
Matron Melancholy ...
J. Warton: To Fancy
Nòna Malinconìa
lass-me andé për mia stra,
lass-me intré ’nt la malìa
dël giardin profumà
dla memòria: ch’a vija
sota ’l gran cel steilà.
Nòna Malinconìa,
su ij tò cavèj d’argent
mi but la fior passija
ch’anfiora ’l mè torment.
Ma ti lassme andé via,
lontan, doa ’m ciama ’l vent.
Nòna Malinconìa,
mi ’t suvo j’euj nebios
con ij fij d’armonìa
d’un cit vers luminos.
Ma ti lass-me a la mia
stra, al mè bel seugn giojos.
Nòna Malinconìa,
mi sai dova ch’a j’é
na pianura fiorija
con le fior dël pensé.
La faja Nostalgìa
– mia sposa da sposé –
më speta e a meuir d’anvìa ...
Òh lassme dun-a andé
ant cola val fiorija
’d giusmin e dë violé,
d’amor e ’d poesìa,
’d seugn asur da sugné.
Òh fame nen pioré,
Nòna Malinconìa!
Nòna Malinconìa.
Nòna Malinconìa
Nòna Ma-lin-co-nìa ...
1940
Arabèsch ëd fin d'otonn
Quand che l’otonn a passa e peui a meuir
un mar ëd seugn am canta drinta l’ànima.
Sirenëtta Speransa a rij arvìscola
ricamand ëd pissèt dë scume bianche
’d zora a le cun-e, ’d fior d’alis, ëd j’onde.
Quand che l’otonn a passa e peui a meuir
un bastiment corsar a bassa l’àncora.
Figure ’d nebia con j’euj pien ëd làcrime,
con ëd caden-e ’d grisantem, a calo
an sla cala d’un pòrt doa ’l vent a piora.
Quand che l’otonn a passa e peui a meuir
s’j’àngej ëd pera a splend na lun-a ’d fiòca.
E na cros ëd silensi a vija ij mòrt.
E la Speransa, an mar, fòla, a rij fòrt.
E ’l cel a l’é na ciòca, ’d gel, sël pòrt ...
Quand che l’otonn a passa e peui a meuir.
11 otober 1949
La speransa
Na fiëttin-a da gnente
it ses mach, ò Speransa!
Na singheriëtta dij cavèj asur
vestìa d’un faudalin
a bolin
verd ëscur.
’T l’has na coron-a an testa
ma a l’é mach d’ariondele.
Ij tò làver ësmòrt l’han un soris:
ma a l’é ’l soris dij fòj
sensa gòj
sensa amis.
E, passand, t’ëm lo smon-e
përchè mè cheur a piora.
E ti, pòvra, t’ëm fas la carità
përchè son pì che ti
sol e afrì,
disperà.
Përchè ’t l’has vistme a luse
ant j’euj na splùa ’d rivòlta.
E ti, nossenta, ti, pòvra masnà,
it seufre a vëde un cheur
dal maleur
strangolà.
Butme le toe manin-e
frèide ’n sla front bujenta.
Forse ant le sabie avische ’d mè dolor
a-i fiorirà un mascheugn.
Forse un seugn
bleu d’amor …
*
Na fiëttin-a da gnente
it ses mach, ò Speransa!
Na singheriëtta dij cavèj azur
vestìa d’un faudalin
a bolin
verd ëscur.
1942
Le làcrime dlë viòle
Erindringens Afpropning maa have gjemt
det Oplevedes Duft inden den forsegles.
Sören Kierkegaard
L’hai na fialëtta cita coma ’l cheur
d’un cichcich pen-a nà.
Andrinta l’hai sarà
le làcrime ’d maleur
ch’a l’han versà tërdes violëtte an fior
mòrte ant j’ariss ëd le mie gòj d’amor.
A j’é ’d làcrime asure come ’l cel.
J’é ’d perlin-e ’d rosà.
J’é dë stisse irisà
dij color dl’arch-an-cel.
E, peui, j’é ’d gosse rosse ’d sangh bujent
colà giù da le spin-e dël torment.
Con tute coste lacrime mës-cià
mi l’hai fàit un licor
ch’as ciama Mal d’Amor.
E lo guerno ambotià
ant sa fialëtta ’d véder luminos
ch’i deurbo mach ant ij di ’d cel nebios.
Antlora la dëstopo con doi dij
su në scudlin d’argent:
e tut mè cheur as sent
travërsà dai zanzij
ëd j’ale giaje dij ricòrd përdù
ch’a vòlo ant un profum ëd gioventù.
Òh Nosgnor che ’t comande ij seugn dël mond,
fa che ij ricòrd d’amor
a perdo mai l’odor
dij cavèj brun ò biond
ëd le morose ch’a l’han fàit pioré
le mie pòvre violëtte dël pensé ...
L’hai na fialëtta cita coma ’l cheur
d’un cichcich pen-a nà.
Andrinta l’hai sarà
le làcrime ’d maleur
ch’a l’han versà tërdes violëtte an fior
mòrte ant j’ariss ëd le mie gòj d’amor.
1943
L'hai sugnà che meurìa
Ma naissance n’a aucunement servi à
l’univers. Ma mort ne lui ôtera rien de son
immensité ni de sa splendeur. Nul n’a jamais
su m’expliquer pourquoi je suis venu,
ni pourquoi je m’en irai.
Omar Khayyam, Robayat
L’hai sugnà che meurìa. L’hai sugnà che ’l respir
pòch a pòch am mancava, fin-a a l’ùltim sospir.
Na grand’ala ’d silensi am sesija pian pian
e ant ël veuid am calava misterios e lontan.
Gnente dl’ànima mia, ’d mè sërvel, ëd mè cheur,
ch’a l’avèissa un pò ’d vita, un frisson ëd boneur
J’era un sercc bianch ëd nebia ch’as fronzija ’nt ël vent
drinta un cel ch’a dventava sempre pì trasparent.
E lontan as përdija, ant cost mond afarà,
ëd ricòrd ëd mia vita coma i fussa mai nà.
L’hai sugnà che meurìa … Fuss-lo vera che un dì
ant la seugn im përdèissa për dësvieme mai pì.
1940
Róndola
Quand che i sarai pì nen
s’arcorzeran che j’era.
Róndola ’d primavera,
flecia ant ël cel seren,
mi sarai sot na pera
ti ant na fior sël teren:
ma vëddroma pì nen
nì ’l mond nì ij sò velen …
Ànima mia, legera
róndola ’d primavera!
1953
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 293
La seugn
La seugn a ven parèj d’un vel ëd mòrt
antorn al cheur ch’a stenz come na fior
’d zora la tomba d’un ricòrd d’amor
mojà ’d lacrime ’d nebia e dë sconfòrt.
La seugn l’é un arch-an-cel sensa color
ch’anvlupa tut ël còrp, già viv e fòrt,
con binde ’d garza: come, drinta un pòrt,
vele arlanchìe d’un barch navigator.
La seugn l’é un’ala ’d veuid che a cala e a cala,
adase adase, an sl’ànima ch’a nija
ant un silensi ’d bianca poesìa ...
Mach l’onda dël respir va e ven, uguala,
come ’l dandiné còti d’una cun-a,
come l’onda dël mar sota la lun-a.
1953
Litanìe dla viva mòrt
Snojèt giàun, snojèt d’òr, fiorin-e ’d mòrt
a m’angarlando l’ànima passìa.
Fiòca la fiòca, bianca litanìa,
su le tombe dij mòrt. Sensa confòrt.
*
Oh branch lusent con ij rifless dël feu
sota ’l sol cëstì ’d reuse ’d mè boneur!
Ël marin dël dolor av rùsia ij neu
ij vòstr’òss – ij mè òss – dròco an sël cheur.
*
Ij luv dël vent a crijo a la mia pòrta,
a raspo, a tranfio, ant la neuit ciàira ’d gel.
Dent ëd giassa, ij ricòrd, mòrdo ’l rantel
dl’ànima an agonìa. Ànima mòrta.
*
Sota un cel càndi e nu parèj d’un liri
rèide, tra quat candlòt, a sta mè cheur
e na colomba bianca, bianca seur,
lo vija ferma ant una lus ëd siri.
*
Na frèid ëd pera frèida drinta j’òss.
Spin-e ’d cristal as pianto ant ël sërvel.
Un giassé inmens ëd véder a l’é ’l cel
ch’as romp sla tèra e ch’a më squarsa j’òss.
*
Sël mond ëd sënner, l’ala dël silensi
a stenz l’ùltim frisson d’aria gelà.
Mè cheur l’é mach pì un grum ëd sangh macà:
rosare tra ij dij veuid dël veuid ... Silensi.
Fiòca la fiòca, bianca litanìa,
sle fior ëd gnente fàite ’d poesìa.
Fiòca la fiòca, bianca litanìa,
su la toa reusa ’d nebia, ànima mia.
1949
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 299
Disegno di Gregorio Prieto ~ pag. 301
Paròle an sl'eva
Tut lòn che scrivo mi, l’é scrit an sl’eva
e am na fa gnente s’a-i resterà gnente
dle mie paròle, triste ò soridente,
ch’a nijo sota a la mia man tròp greva.
An fond al ri j’é ’d giàire splendriente,
j’é ’d mus-cc che la corent ciàira a soleva:
caviere verde ’d fiëtte ch’a j’agreva
a ciamé agiut al mond, a fesse sente.
A cole fiëtte a van le mie paròle
con ëd vir ëd sospir, bleu, vaporos
parèj ëd coronin-e ’d parpajòle:
parèj ëd bianch rosari silensios
ch’a stisso ’d perle ant j’euj marëscà ’d viòle
dle mie speranse mòrte e sensa cros.
1949
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 304
Congé
Apres avoir leur demandé s’ils étaient condamnés à faire
des vers ou à être pendus, il leur disait, qu’à moins
que cela, ils n’en devaient point faire.
Racan (Lettre XI, à Chapelain)
E adess a basta con la poesìa.
A dis na veja sentensa
che a quarant’ani la vita a comensa.
Comensa a vëde l’ombra ’d na faussìa.
Così sia.
Disegno di Giuseppe Macrì ~ pag. 307