LUIGI ARMANDO OLIVERO

2 novembre 1909 ~ 31 luglio 1996

di Giovanni Delfino

delfino.giovanni@virgilio.it

Scultura

 Scultura in terracotta rappresentante Luigi Olivero, in proprietà privata, probabilmente opera di Giuseppe Macrì

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Rondò dle masche L'Alcyone, Roma, 1971

Ij faunèt Il Delfino, Roma, 1955

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Traduzioni poetiche di Luigi Olivero in piemontese e in italiano

Genesi del poemetto Le reuse ant j'ole: sei sonetti di Pacòt e sei di Olivero

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Le poesie di Luigi Armando Olivero (Prima parte)

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Luigi Olivero Giornalista

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Luigi Olivero ed Ezra Pound

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Sergio Maria Gilardino - L'opera poetica di Luigi Armando Olivero 

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Biografia di Luigi Olivero: secondo scenario (Prima stagione poetica)

Biografia di Luigi Olivero: terzo e quarto scenario  (Verso la tempesta: diluvio universale ~ Viaggi)

Biografia di Luigi Olivero: quinto e sesto scenario (Attività frenetica ~ Roma: maturità d'un artista)

Biografia di Luigi Olivero: settimo ed ottavo scenario (Incontri, polemiche, viaggi, cantonate ~ Ultima stagione ~ Commiato)

Appendici prima, seconda e terza

Appendice quarta ed ottava

Appendice quinta: gli scritti di Luigi Olivero su giornali e riviste

Giudizi espressi in anni recenti su Luigi Olivero

L'officina di Luigi Olivero

Luigi Olivero legge la sua Ël bòch

Documenti e curiosità

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Articoli di Luigi Olivero inediti e non 

           Qui di seguito l'editoriale di Luigi Olivero su Ël Tòr N° 20 del 1 agosto 1946, a ricordare il primo compleanno della sua rivista.

Luigi Olivero

 

Giuseppe Macrì

 

Luigi Olivero

Giuseppe Macrì

           Luigi Olivero

 

Giuseppe Macrì

           Luigi Olivero

          Giuseppe Macrì

      Luigi Olivero     

          Giuseppe Macrì

           

           Da Algeri, nell’ottobre del 1932, invia un pezzo di colore che apparirà il 14 dello stesso mese su Stampa Sera. Il reportage ha titolo: I ricordi di un predone arabo “Monsieur Marcel” gran domatore.

          Trattando di alcuni personaggi di un certo interesse ed essendo tra i primi scritti oliveriani di stampo prettamente giornalistico, vale la pena riportarlo.

I ricordi di un predone

"Monsieur Marcel" gran domatore

Nostro servizio particolare 

         Splendid Hotel, rue Sidi Carnot: «veduta sul mare». Il giornalista olandese che abita la stanzetta del piano superiore picchietta da mezz'ora, nel mattino arieggiato, sulla sua Remington portatile. Al tinnire della campanella fine riga mi sporgo dalla finestra verso l'alto e gli grido: - Hélas, monsieur Goedbiltz! J'ai un bon reportage à écrire, vous savez?

          Faccione tondo del collega dagli occhi freddazzurri, cerchiati di tartaruga, madido di sudore e stirato di malinconia: Mi racconta che sta buttando giù delle note di colore, e che la crisi c'è - anche ad Algeri - di argomenti avec erotisme aventureaux per il suo pubblico neerlandese.

Alla scoperta di Algeri

          Povero simpatico platonico Goedbiltz, che si lancia faticosamente alla scoperta di Algeri, con Baedeker e pianta alla mano,senza pensare, invece,a visitarne una sera - magari armato di una buona rivoltella e accompagnato da un cipay al quale avrà potuto pagare un biglietto nei quarti posti del Cirque Antonio («Fantasie musicali, volteggi, contorsionismi, cavalli, acrobazie e sketchs comici, voila plus qu'll n'en faut pour passer une agréable soirèe!») - il vecchio quartiere musulmano, vero mosaico del luridume tradizionale di una razza schiacciata, premuta, circoscritta nel limite delle fogne di questo suo villaggio che si accoscia nel bel mezzo di una città perfettamente moderna: quasi come uno spettro di irriducibile barbarie di fronte all'invadenza della costruzione razionale sulla gran via asfaltata: toboga scivolante di automobili lussuose guidate a grande velocità, quasi sempre da manine emancipate.  

          Boulevard la Ferrière, Grande Poste. All’angolo di rue d’Isly la scritta luminosa accende nella notte l’argento fuso di tutti i suoi kilowatts per raccontare, a caratteri cubitali, le «ultime notizie» intercalate da sapiente pubblicità ai prodotti e alle merci indigen:. La Stampa Italienne a attaché le discours du ministre Herriot – Le vin est une gourmandise bienfaisante…

          Proprio qui, sul limitare del vicolo che si incontra tra la Grande Poste e il palazzo moresco che ne è l’integrazione burocratica, ho conosciuto Ibrahim ben Ambarek, l’arabo segaligno dalla gamba di legno e dalla barba rossa sul viso arso di sole e di vino, il quale mi ha parlato del domatore Marcel e degli anni dei fastigi mondiali del Circo di Nouma Hava di cui, egli mi disse, ha fatto parte come garzone di ménagerie perdendovi anche la sua gamba destra amputatagli in seguito a ferite gravi prodottegli da un feroce leopardo: Porthos.

 Stampa Sera 


          Porthos, mi spiega, era la belva più terribile del Circo di Nouma Hava. Nel 1907, dopo quattro anni di cattività si avventò al collo del domatore, gli asportò mezzo orecchio e gli infranse l’osso nasale che gli venne poi sostituito con una piccola lamina in platino…

          Questo Ibrahim ben Ambarek costituisce il tipo drôle della malavita algerina. Dopo un’esistenza avventurosa di predone, di cacciatore di leoni, di soldato (è decorato al valor militare), di vagabondo in tutte le cosmopoli europee, ha finito con l’incanaglirsi importando ad Algeri, al termine della sua carriera, qualche buon elemento che si è incaricato di aggiornare la malavita continentale nei quartieri bassi della metropoli coloniale.

 Stampa Sera   

La Corte dei miracoli

         Ibrahim ben Ambarek è possibile incontrarlo, nella stessa notte, nei punti più disparati della città. Ma più facilmente nei pressi del quartiere musulmano. Questa corte dei miracoli algerina è la sua roccaforte. Egli ne è la sentinella che vigila in silenzio e batte, coll’estremità della sua gamba di legno, il selciato della notte quando il colpo si avvicina sotto forma di un incauto passant europeo.

          Ibrahim ben Ambarek ha 64 anni, gli anni di monsieur Marcel, mi dice, che egli ha servito per molti anni quale aiutante di gabbia e di cui è rimasto un entusiastico ammiratore. Mi racconta come il celebre domatore italiano (Marcello Giulio  Vannuzzi), un autentico artista del frustino, percorse la sua carriera al fianco della Nouma Hava, della bionda mademoiselle Emery e della bruna signorina Luisa, distinguendosi nell’arte del dominio sino ad essere invitato, nel febbraio 1908 a piazzare in Vaticano i leoni che Menelik aveva donato a Papa Pio X e a tenere a battesimo, al cospetto del Sindaco di Roma e di due deputati, il leoncino nato dalla ferocissima coppia Caesar e Mirka.

 Stampa Sera

         La vita nomade e brillante del domatore italiano passa nella voce roca di questo ossuto teppista del deserto. Favori di donne e clamori di trionfi in tutte le grandi città del mondo. Lotte sanguinose seguite da vittorie acciaiate di orgoglio, ma segnate spesso da epiloghi tristissimi all’ospedale. Il cipay che mi sta vicino fuma avidamente dei caporals pestilenziali e scuote le mascelle in segno di gioia cannibalesca.

Nella gabbia dei leoni

         Raduno le idee. Ibrahim ben Ambarek ci racconta l’annedoto del trasformista Fregoli il quale, nel 1908, a Roma, si introdusse nella gabbia dei leoni vuotando una coppa di champagne «alla salute delle signore». Mi narra sommesso, curvo sul bastone e quasi rannicchiandosi sulla scalinata della Grande Poste, la fine del domatore avvenuta nella clinica Morgagni di Roma il 30 marzo 1925. Il suo corpo, osserva, era crivellato da più di trenta ferite…

          Ibrahim ben Ambarek si aggiusta con le mani scarne il chachia sulla testa sformata;

-         Vous êtes italien! Connaisez vous sa femme ?

-         No – rispondo. – Ma mi viene alla mente la figura di una signora quarantacinquenne, alta e bionda, dallo sguardo melanconico, che ho conosciuta qualche anno fa a Torino in circostanze eccezionali.

-         Elle etait son ange ! L’ho vista assisterlo nell’agonia e comporlo nella pace della morte. Elle etait son ange! –

          Ibrahim ben Ambarek si asciuga una lacrima sincera, che gli scende fra le rughe del volto, e gli occhi gli scintillano ancora di nostalgia felina… Ma intasca, con la mano ossuta, i cinque franchi che gli ho lasciati cadere sul baracano.

LUIGI OLIVERO

 Augusta Taurinorum

L'apparecchio decolla sul prato del «Gino Lisa» ° intriso di sole. Solleva agilissimo la sua carlinga rossa, e, con un frusciare armonioso d'eliche e di motori, squarcia rettilineo lo scampolo di seta azzurra del cielo di Torino. Tra i fiocchi di bambagia delle nuvole sforbiciate, la città dilaga, si allarga, emerge freschissima come dal letto di un lago prosciugato tra le colline. C'é una stellina d'oro che sovrasta tutte le guglie, le ciminiere, i campanili e quella stellina mi sale negli occhi in un barbaglio di sole stemperato. Afferro quella stellina e l'attiro a me col suo bulbo d'oro e col suo stelo d'acciaio. Premo tra le palme delle mie mani le estremità di quell'immenso fiore metallico che si rannicchia a spirale e che freme con gli echi sonori per la sofferenza che gli ho inflitto nel divellerlo. E lo chiudo nella mia valigetta di fibra antisanzionista etichettata come una sala futurista di Biennale Veneziana.

***

Milano. Soprabito sul braccio, basco da un lato, valigetta dondolante, passeggio in Piazza del Duomo,. All'imbocco della Galleria: «oh, ciao!», «come, tu qui?». Due destre che si tendono. Effusioni dei pori sudoriferi dell'amicizia. Barbetta grigia, baffi grigi, pastrano grigio, scarpe con bottoni laterali grigie. Entriamo da «Carpano». Si toglie la bombetta grigia: capelli alla «leccata di bue»: grigi. È un torinese. Poeta dialettale. Vive «esiliato all'ombra della Madonnina». Appoggia il gomito sullo zinco, punta l'unghia dell'indice contro la guancia destra: sospira: «Torino! -sorso di vermut - Ma non è più la città di una volta! L'ho rivista il mese scorso: Campana del Caduti, Torre di Maratona, pista aerea della Fiata, statue di Cesare Augusto e di Giulio Cesare. Cemento armato. Sventramento e ricostruzione di Via Roma! Grandi opere novecento: ma dove se n'è andato il «Turinèt» della mia giovinezza? Le recite del «Turineis», i baci alla sartina, con solletico di baffetti umbertini, nelle notti di luna all'ombra della Mole Antonelliana?»

Lo prevedevo. L'unghia, contro la guancia, gli è divenuta più grigia, la sua pupilla sembra secernere un liquido grigio. L'abito umano di quell'uomo, dalla radice dei capelli a quella dei piedi piatti, sembra incenerirsi. Ho aperto la valigia, gli ho mostrato la Mole Antonelliana... L'uomo di cenere si è solidificato dallo stupore, è crollato, si è volatilizzato.

***

A quota 6000, sulle Alpi, l'apparecchio assume le movenze e gli strappi della rumba. Rumba del vento. Nuvole e sole si mescolano stranamente: ne deriva uno sfavillio di presepe atmosferico, vasto, fantasioso, interpretativo. Fuga biblica di cammelli e di elefanti bianchi, greggi silenziosi sparsi nei prati cilestrini irrigati di viola, chiazzati di blu. Sotto, calcinacci di neve sui costoni dolomitici, scivolate di striscia d'argento sui pendii sottostanti. Ma, intorno, vicini, contro il vetro appannato dell'oblò, i culmini neri granitici incontaminati. Le cerniere della mia valigetta stridono. Golosissima di quelle altitudini, la stellina preme sulla sua spirale di 165 metri d'acciaio per irrompere nel cielo e superare quelle vette.

***

Zurigo. Campo di Dubendorf. All'aeroporto, un compitissimo signore in nero: maestro del ristoratore. Accento internazionale. Sui cinquant'anni: tutti i maestri di ristoratore sono sui cinquant'anni anche quando non ne anno che trentacinque. Conversazione: ha iniziato la sua carriera a Torino al «Bonne Femme». Si prende il mento tra l'indice e il pollice: «Torino? Ja! Superga, il Monte dei Capuccini, la Grotta Gino. Rivoli! L'Esposizione del 1911! Ma lei mi dice che la città è molto cambiata. Peccato! Novecento, costruzioni razionali. Che sfacelo! Oh, l'angelo d'oro della Mole Antonelliana!»

Abbasso un dito sui fermagli della mia valigia. La stellina scatta con un «uppercut» dorato contro il mento del maestro di ristoratore e lo manda a gambe levate, verso la città, a prendere un bagno freddo nel lago che ne accarezza le fondamenta.

***

Croydon (Londra). C'é ad attendermi una signorina altissima, segaligna, dal collo roseo sottile e dagli occhi circolari salienti. A Prima vista, si direbbe il risultato filogenetico in un iperbolico connubio, avvenuto in una preistorica notte di luna sulle sponde di un fiumiciattolo tropicale. fra un'ibis rossa del Brasile e un pesce telescopio. Figlia di un antiquario torinese della City. Nata a Torino. Importata a Londra nell'età in cui la donna incomincia inconsciamente a distinguere un uomo da un portamantello e a preferire una carrozzella da neonato al tram di Gassino. Inglesizzata - incretinita. Appoggia l'occhialino d'oro ai bulbi dei suoi occhi conditi all'olio di canfora. Mi saluta: «Aho! Very good! Cosa mi avere portato da Torino: la Mole Antonelliana?»

La stellina è colpita dal cortocircuito della frase-fatta. Sfonda il coperchio della mia valigetta, urta in pieno petto lo spaventapasseri dall'occhialino d'oro e manda la «miss» a cadere a volo «plané» in Piccadilly Circus, a infilarsi sulla freccia in bronzo della statua di Eros.

***

Parigi. Il Trocadero. Sullo sfondo degli Invalidi, la Torre Eiffel culla la sua torretta-telescopio. Sul primo piano del rinoceronte in pietra della grande vasca, scatta il diaframma di una «Leica». Il venerando collega torinese, «montmartrois», pariginizzato come un piatto di «spaghetti à la napolitaine», mi batte una mano sulla spalla. Mi soffia: «Farai vedere questa fotografia agli amici del «Combi». La Torre Eiffel è più alta della tua testa. Ma, Quando verrò a Torino, tu mi farai una fotografia che, al ritorno, vorrò fare ammirare ai miei amici della «Maison du café» sui grandi Boulevards. Dal faro della Maddalena, farai scattare l'obbiettivo mentre avrò alle mie spalle la vecchia, cara, tanto negletta dal vostro febbrile novecento, Mole Antonelliana...».

Vicino a me avverto uno scricchiolio. I rinforzi della mia valigetta, strappati: un urto tremendo, un panico indescrivibile, una catastrofe da ultimo atto della Tetralogia: il Trocadero in macerie - pazienza, tanto intendevano abbatterlo!

E i 165 metri di catapulta della Mole Antonelliana si ripiegano a spirale nella mia valigetta sconquassata.

***

Nei giornali di tutto l'universo: «Micidiale rivalità fra due Meraviglie del Mondo. La mole Antonelliana di Torino ha tentato assassinare, per futili motivi sanzionistici, la Torre Eiffel di Parigi. Fortunatamente il colpo è deviato e il solo Trocadero è crollato».

Nei giornali parigini: La «Mole Antonelliana n'est plus. Notizie da Torino informano che la Mole Antonelliana, dopo il drammatico «match» con la Torre Eiffel, non è più rientrata alla sua base. Si pretende che ignoti avventurieri l'avrebbero rapita da qualche settimana e che, stimolandone la vanità, l'avrebbero spinta al tragico duello con il colosso parigino, al solo fine di compromettere le relazioni diplomatiche fra i due paesi».

***

Ho restituito al suo posto urbano, fra via Montebello e via Riberi, il caro innocuo indimenticabile carciofo d'acciaio tanto indispensabile al bagaglio sentimentale dei torinesi vecchio regime.

La città si rinnova, si amplifica, si trasforma, aggiunge guglie e ciminiere alla sua aeropanoramica cosmopolita geometrica industriale. Ma la stellina d'oro brilla, nella campana di vetro smeraldino del nostro cielo, come un simbolo necessario che riflette le fortune vecchie e quelle giovani: animate dall'identico amore di pacifico superamento della gente subalpina. Nostalgie di passato, frenesie d'avvenire.

Ed io stesso - spregiudicatissimo antipassatista - partendo per questo viaggio europeo ho sentito il bisogno feticistico di rubare la Mole Antonelliana. Per averla con me dappertutto: per poterla restituire, dopo aver rischiato di compromettere l'equilibrio del mondo, intatta, col paracadute della mia onestà, al centro di Torino. Soltanto oggi, nell'imminenza del mio lieto atterraggio sulla radura soffice del «Gino Lisa» °, pochi minuti prima di ritornare a viverle vicino.

Olivero

Augusta Taurinorum

Racconto apparso sulla rivista del Comune di Torino Augusta Taurinorum Anno III, N° 1 ~ febbraio 1936 ~ pag. 17. 

°  Nel 1936 la Città di Torino disponeva di due aeroporti. Quello della FIAT acquistato nel 1927 dall’Ansaldo e denominato FIAT Aeronautica d’Italia S. A. poi abbreviato in Aeritalia. L’altro aeroporto era quello di Mirafiori sud che, dopo la guerra del 1915-1918 fu intitolato a Gino Lisa, pilota volontario deceduto in combattimento aereo sulla Val d’Astico il 15 novembre 1917 all’età di ventun anni ed insignito di medaglia d’oro al valor militare.

 

Tre articoli da Stampa sera  dedicati al Carnevale torinese del 1937

  

Stampa Sera 19 gennaio 1937

  

Tradizionale festa popolare che ritorna

___________________

L'inno di Carnevale sarà suonato da 80 trombe e 200 grancasse 

 

          La grancassa è la femmina del tamburo. Come accade spesso fra marito e moglie, un giorno ebbero una lite e si separarono. Il tamburo andò a suonare in una fanfara militare; la grancassa, più frivola, si fece scritturare da un jazz-band. 

          E la tromba? Chi è la tromba? È la figlia loquace del trombone, vecchio, obeso e bacchettone. La tromba ha disertato la tutela paterna del trombone per recarsi a fare la primadonna nella Compagnia degli ottoni. Ma il padre l'ha rintracciata e, mentre quella folleggia, egli brontola: «bo... bo-bo...ora so... che te le darò... a casa ti ricondurrò». 

          Ma grancassa e tromba sono femmine. E la femmina - come disse una volta Giacomo Puccini - è uno strumento musicale, la cui gamma va dal grido d'amore alla nota della modista. 

          Ed ecco che grancassa e tromba si son prese a braccetto, si son fatte alleate per difendersi meglio dalle persecuzioni del tamburo e del trombone e sono venute dalle modistine torinesi per invitarle a divertirsi con loro in Carnevale. 

*** 

         Abbiamo incontrato il Maestro C. F. Gaito il quale ci ha dato la notizia: 

- Ho composto l'Inno del Carnevale! 

- Bene, Maestro, e chi lo metterà su? 

- Il Dopolavoro Provinciale. L'Inno è stato approvato dal Comitato per i festeggiamenti il quale lo affiderà all'esecuzione di una banda composta di ottanta trombe e duecento grancasse... 

- Come avevamo appreso da La Stampa quotidiana del giorno 7. 

- Precisamente. 

- E l'autore della musica dell'Inno è proprio lei! 

- Sicuro. 

- Allora bisogna che ce la faccia udire. 

          Gaito si schermisce, fa la viola mammola qualche secondo, si passa la mano destra sulla calvizie prematura, scintillante di riflessi come una coperchia di batteria, si siede al pianoforte e ci fa udire in sordina le note orecchiabilissime e originali dell'Inno ufficiale del Carnevale torinese 1937. 

          Questa scena avviene nel salone ristorante del Circolo Professionisti e Artisti, ad un'ora in cui non c'è nessuno. Siamo quindi al riparo dagli indiscreti: ammesso che noi, facendo questa rivelazione al pubblico, siamo stati discreti. Ma vai a fidarti dei giornalisti! I giornalisti sono le portinaie del palazzo dell'Attualità. Appena questa signora riceve una cartolina, prima ancora che le venga consegnata, il giornalista l'ha già letta e ne ha già riferito il contenuto a tutti i seicentomila abitanti di Torino. 

          Ed è perciò che dopo aver carpito e rivelato il segreto della musica del Maestro Gaito, siamo riusciti a sottrarre all'Attualità anche le parole dell'Inno di Carnevale: parole che le sono state inviate da un popolarissimo poeta dialettale della nostra città il cui solo nome non siamo riusciti a decifrare in calce alla cartolina che ne recava il testo. 

          Ve lo leggiamo in confidenza, ma non ripetetelo a nessuno prima dei Festeggiamenti (altrimenti l'Attualità potrebbe venire a conoscenza della nostra indiscrezione e licenziarci da custodi del suo palazzo):

I 

Ai torna Carlevé con soa baldòria 

ai torna la stagion del bon umor 

d'antorn al Bògo, ancoronà 'd vitòria 

con la baldansa dla canson d'amor. 

 

Da le stèile e dai pianeta 

son riva-je i foresté 

për conòsse an gaudineta 

la sità dël Carlevé: 

 

e Turin l'é si ch'a speta 

con la gent sui marciapé 

për mostra-je la riceta 

dl'alegria dël Carlevé. 

II  

Lassom-je ch'a na smicio dë ghignarda 

i criticaira con la testa plà. 

La gioventù con l'ànima gòliarda 

veul gòde sò bon temp an libertà. 

 

Ch'a sospira 'l vei balòta 

con la malva ant ël tupin, 

noi cha soma ardì sla piòta, 

s'n'anrijoma di sagrin.  

 

Fin ch'a j'é na bota an cròta 

e 'l soris d'un bel facin

dom-je l'andi a la ribòta 

e pensom-je a farla bin! 

          Vi piace la composizione? Ebbene, è piaciuta moltissimo anche a noi. Tant'è vero che non abbiamo saputo resistere alla tentazione di leggervela. 

          Ma quale sarà il nome del poeta? Firma illeggibile: però dovrà proprio appartenere ad un grande poeta, se ha rivelato di possedere tanta mancanza di vanità da non redigere chiaramente il proprio nome. Dopo D'Annunzio, che ha messo di moda la poesia scritta con il pennino di tonda numero due, credevamo che tutti i poeti avessero munito la loro stilografica con questo pennino che non ammette sotterfugi calligrafici nemmeno a provocarli. Invece l'autore di questo Inno  ha deluso, con il suo ermetismo forse voluto, la nostra convinzione. 

***

          Tuttavia ne sappiamo abbastanza per capire che questo Inno, vestito delle note capricciose e monelle del Maestro Gaito, arriverà al pubblico che lo farà suo e lo canterà nei giorni di gaia spensieratezza del Carnevale: fra gli strilli delle tote prese di mira dai getti di coriandoli, in mezzo al volteggiare frusciante delle stelle filanti, sopra il vociare diffuso del formicaio umano di piazza Vittorio e il balbettio musicale degli organetti delle giostre... 

          Lo riudranno dalla voce del pubblico... se lo consentiranno ai nostri timpani le ottanta trombe e le duecento grancasse che lo canteranno clamorosamente: pazze per la gioia di sfuggire alla legittima persecuzione dei loro 80 padri tromboni e dei loro 200 mariti tamburi. 

Olivero 

  

Stampa sera, 23 gennaio 1937 

          L'inaugurazione

         del "Villaggio Gastronomico"

         Ritorna il "Gran Bogo" !

         Un'ora fa, in Piazza Vittorio Veneto, proprio dove sorgevano i padiglioni ormai invecchiati della Fiera dei vini, si è inaugurato il Villaggio Gastronomico.

         Il pubblico del Sabato fascista vi è accorso numerosissimo, visitando le varie locande, si è intrattenuto nelle osterie regionali ad assaggiare i prodotti tipici della cucina italiana, ha espresso dei pareri ispirati da gusti diversi ma dettati da un identico allegrissimo appetito che ha affratellato cameratescamente, nella gioia del palato, gli individui di tutte le regioni d'Italia.

         È stato (e, all'ora in cui ci leggete, è ancora) uno spettacolo delizioso poter vedere il piemontese sottobraccio al napoletano, il toscano gomito a gomito con il siciliano, il sardo seduto accanto al lombardo, degustare la merendola improvvisata e decantarne i pregi con accento linguistico diverso ma con le stesse scintille di buonumore negli occhi, con gli stessi schioppettii di soddisfazione nella voce.

         Abbiamo ammirato l'eleganza architettonica del Villaggio creato su progetto dell'ing. Musso. Tutti i chioschi hanno una loro fisionomia originale, improntata ad un sorridente e chiaro carattere paesano. Gli interni di questi chioschi sono realmente confortevoli, non soltanto per le ghiottonerie che contengono ma anche per l'atmosfera di familiare cordialità che invita il visitatore a sedersi e a consumare.

         Il Villaggio Gastronomico è certamente la più suggestiva inaugurazione di Carnevale  del Dopolavoro Provinciale, che lo ha ideato, ha dato prova di molto buon gusto e di un'eccellente sensibilità.

***

         Ci siamo fermati alla "Tampa" del Circolo degli Artisti. Tutti i torinesi conoscono, non foss'altro che per sentito dire, la classica «taverna» di via Bogino.

         Quanti artisti, del passato e del presente, sono stati ospiti tra le pareti rivestite di ritratti ridanciani e di figurazioni simboliche di questa quasi... conventuale taverna!

         Quanta poesia è salita dalle gioconde fiammate dell'ampio camino patriarcale nelle veglie invernali rumorose di bicchierate bacchiche e di inni terapeutici contro la malinconia e il pessimismo!

         Questa «Tampa» è riprodotta fedelmente, in ogni sua più minuta caratteristica, in Piazza Vittorio Veneto. Accanto all'ingresso, c'è persino il Bogo.

         Ma cos'è il Bogo? La generazione nuova non lo può sapere e di conseguenza non può apprezzare le virtù segrete di questo idolo magico che ha dell'africano e dell'atzeco, del porcellino portafortuna e del Priàpo di certe figurazioni fàlliche che si vedono a Pompei.

         È stato «creato» dagli artisti torinesi nel 1859. Un pittore mattacchione di quel tempo era tornato da Parigi recando con sé certi fantocci di gomma che, gonfiati, prendevano il volo verso il cielo dondolando pigramente nell'aria.

         Nella Gianduieide di quell'anno, gli artisti si divertirono molto a quel gioco. Si divertirono tanto che pensarono di elevare a ruolo di divinità propiziatoria per i carnevali degli anni successivi uno di questi buffissimi mostri volanti.

         Pensiamo all'umorismo del Fischietto e del Pasquino, all'arte della caricatura di un Casimiro Teja, alla spensieratezza goliardica - e un poco chiassosa - dei torinesi di ottant'anni fa; e capiremo la stramberia di questa trovata che diede persino origine ad un «Ordine dei Cavalieri del Bogo» a cui non potevano appartenere che artisti di buon sangue crepitante di tutte le capsule dei globuli rossi dell'ottimismo.

         Poiché il Bogo non è altro che il dio panciuto dell'allegria. È il nume dell'arguzia postprandiale, quando le vene pulsano di umori sani immessi nel sangue da bevute e da mangiate generose. È la divinità burlona protettrice della gente piemontese di cuore saldo e di stomaco sano.

         Il Bogo è un «mito» che ritorna. Come tutti i miti, è comprensibile che si fosse quasi perduto nella nebbia del passato da cui veniva, ogni tanto, riesumato nelle conversazioni familiari dei nostri padri i quali sono sempre un tantino nostalgici della loro gioventù: specialmente quando discutono con noi, che siamo così diversi e forse - diciamolo con un'intonazione di modestia educata - migliori di loro.

         Ma il mito del Bogo non si può spiegare. È una bizzarria, un paradosso, è lo spirito stesso del Carnevale.

         Desiderato Chiaves si espresse così: - 'L Bògo ass definiss nen, se un sa nen capilô. Se un lô capiss nen, l'è inutil definilô.

         Il perché di questo nome non è narrato nelle cronache. È un nome di fantasia, inventato dagli artisti i quali sono i milionari della fantasia.

         Del resto, chi ha mai pensato a ricercare l'etimologia del nome Gargantua o di Pantagruel?

         Sono nomi propiziatori scaturiti da cervelli olimpici insieme con certi personaggi di creazione che hanno portato all'umanità il benefico bacillo virgola della risata. 

***

         Bentornato sia dunque il Bogo in quest'anno primo della fondazione dell'Impero coloniale. Benvenuto con il suo nome esotico che ci sembra pervenuto sulle note del ktet indigeno suonato sulla soglia di un tukul abissino durante le feste del mascal.

         E che il suo pancione idropico faccia tante rughe di ilarità in questo Carnevale più che mai allegro, più che mai del tempo nostro, che viene festeggiato in un clima quasi primaverile, tiepido di sole ostinatamente ottimista, italiano.

                                                                        Luigi Olivero

Stampa Sera 2 febbraio 1937

Anticipazioni carnevalesche

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Il "treno astrale" che scenderà... dai cieli sabato prossimo 

 

          Qualche anno fa ho visto in Germania il cimitero delle locomotive. Figuratevi una tettoia immensa elevata su un suolo rigato di binari morti sui quali stanno, irrigidite, quasi ottanta locomotive di tutti i tipi - a cominciare da quella primordiale di Stephenson fino a quella perfezionatissima dei nostri ingegneri d'oggi. Le locomotive, immobili, arrugginite, sembrano balene antidiluviane fossilizzate dai millenni e riesumate intatte, in uno scavo iperbolico compiuto al centro della Terra per essere inviate ai musei del mondo meccanico del duemila. 

          Da questo paradossale cimitero ferroviario mi sembra pervenuta una vecchia macchina tedesca che si trova oggi in un padiglione giallo della rimessa tranviaria di corso Casale: rimessa che apparteneva all'ex-Società «Belga» e che serve attualmente da officina all'Azienda Tramvie Municipali. 

          Sono stato introdotto a vedere questa locomotiva dal cav. Virago, capo.servizio della rimessa. 

          Questa macchina a vapore ha trainato per molti anni il tranvai di Giaveno. Poi è passata in servizio sulla linea di Druent. 

          Ma è sempre stata una macchina sfortunata! Durante la sua vita di servizio attivo non ha fatto altro che subire delle umiliazioni. 

          Una quindicina di anni fa, ha ricevuto una sfida da un noto campione ciclista a riposo. Dicono che fosse Gremo. La sfida consisteva in una gara di velocità da effettuarsi sull'itinerario Torino - Giaveno. 

La vinse il ciclista. 

          Una diecina di anni fa, alla macchina venne lanciata un'altra sfida. Questa volta da un campione podista - Valerio Arri - sul percorso Torino - Druent. 

Vinse il podista. 

          Allora la locomotiva perdette ogni credito. I monelli la chiamarono «s-cionfëtta», al suo passaggio lanciarono dei pezzetti di legno, grossi come fiammiferi da cucina, tra i raggi delle sue ruote, gridandole dietro: «Aria, Majn! Chè 'l temp a l'é bel - Fërm-te nen, chè i civich at beivo!». 

          La povera locomotiva, ormai asmatica, gottosa, dileggiata, un giorno si fermò per davvero e, come tutti i poveri vecchi, venne mandata all'ospizio: cioè alla rimessa di corso Casale.

           Dove da anni stava in letargo al punto da farmi pensare appena l'ho vista, che provenisse dal vecchio cimitero germanico delle locomotive. 

           Ma bisogna convincersi che giustizia c'è per tutti: arriva qualche volta in ritardo, ma arriva. 

          E così, per la vecchia locomotiva, è arrivata l'ora della sua riabilitazione. Sarà la locomotiva del «Treno Astrale» che il Dopolavoro Provinciale ha organizzato per il giorno 6 febbraio. asse del Carnevale. 

***

          Cos'è questo Treno Astrale? 

          I manifesti lo hanno annunciato, qualche giornale ne ha parlato vagamente. Ma Stampa Sera soltanto è in grado di offrire ai suoi lettori la primizia della esatta e completa descrizione. 

          Il Treno Astrale è un convoglio magico proveniente dalle regioni stellari del firmamento. 

          Chi lo ha formato? Alcuni capistazione dell'arte pittorica dell'ambiente torinese. Non abbiamo potuto avere i nomi di tutti, ma ne segnaliamo qualcuno: Garrone, Rolla, Vellan... L'idea iniziale è di un poeta dialettale molto noto: quello stesso poeta dialettale che ha scritto i versi dell'Inno ufficiale del Carnevale torinese 1937. L'idea è stata maturata al Circolo degli Artisti sotto gli auspici del presidente Alessandro Orsi. Poi il progetto è andato man mano perfezionandosi e arricchendosi di particolari negli schizzi dei diversi pittori. 

           Qual'è la fisionomia di questo treno? 

          Quella di sette vetture (ex «giardiniere» della Società Belga e Municipali) addobbate secondo la fantasia astronomica che ora vi descrivo minutamente soffermandomi vettura per vettura. 

          Anzitutto la locomotiva sarà coperta interamente da un fantastico e colossale Toro alato che avrà dietro di sè un gigantesco dio Mercurio che fumerà una pipa sproporzionata. 

          Le nuvole di fumo di questa pipa (il cui fornello sarà collocato sulla ciminiera della locomotiva) fioccheranno sulle sette vetture in carovana che costituiranno le sette meraviglie del Treno Astrale. 

          Le quali verranno in quest'ordine e avranno queste caratteristiche: 

1 La vettura di Saturno 

          Su una base celeste campeggerà il grande pianeta che ostenta, come un possidente di campagna, il suo monumentale anello d'oro. 

         Da una botola frontale uscirà un personaggio in ghingheri che lo interpreterà mitologicamente.

 2 Il trono del Bogo 

         È un trono fastoso che ha dell'africano e dell'orientale. L'idolo idropico degli artisti torinesi sussulterà, sullo scanno maggiore, di tutte le sue risate più pazzerellone.

 3 Venere e le sue ancelle 

          Contro il paravento concavo e scannellato di una conchiglia eretta in fondo alla vettura, la dea della bellezza sorgerà - nuda - da un'ipotetica schiuma marina. Nuda! Sarà una statua? Forse. Ma non saranno statue le sartine e le modistine - vestite - che verranno distribuite intorno alla dea, accanto ad un grande portacipria scoperchiato da cui esce un piumino azzurro e vicino ad una immensa cappelliera socchiusa da cui occhieggiano sigrettes e feltri multicolori. 

          L'avv. Bergera, Segretario del Circolo degli Artisti, ha ricevuto il gradevolissimo incarico di reclutare le più belle fanciulle della Tortonese per decorare con il loro sorriso questa vettura dedicata alla giovinezza immortale. Pare che le fanciulle della Tortonese si stiano accapigliando seriamente tra di loro per la priorità di questa scelta. E la cronaca di via Cavour riporterà l'eco di non pochi bisticci di innamorati gelosi che faranno voltare i passanti verso le ore diciannove di questi giorni. 

4 Il sole e la luna

          Ai piedi di un monumentale spicchio di luna, in cui è scolpito il largo sorriso di benevola complicità che tutti noi giovani conosciamo all'astro protettore dei ladri e degli amanti, siederà una giovinetta vestita da regina: manto siderale ricamato di stelle e scettro dorato. All'estremità posteriore, il Sole, maestosamente eretto sulla  lastra di un forno circolare. Ma il sole non sarà raffigurato nelle vesti del Re francese che il pubblico è abituato a vedere nelle reclam delle pasticche. Sarà un bel vecchio dalla lunga barba fluente, tutto paludato d'oro scintillante. 

          Tra il Sole e la Luna, scherzeranno, ciascuno a modo loro - con la chitarra o con il coltello - Pierrots e Colombine, apaches e gigolettes. 

5 La Via Lattea 

          Presepio rusticano popolato di mucche turgide di latte e di belle margare rubiconde. Al centro della figurazione, sarà collocato un simbolico biberon da cui succhieranno il latte, attraverso quattro gomme da vino, quattro pupi biancorosa (vivi? no, peccato, di gesso). 

6 Le Stelle di Hollywood 

          Tutto il mondo del firmamento artificiale di Cinelandia. 

          Un'alta macchina da presa dominerà la folla degli atori celebri, tra cui figureranno un inverosimile Clark Gable (in gesso), un'indescrivibile Greta Grabo (in gesso), Stan Laurel e Oliver Hardy (finalmente immobili, in gesso), i tre Porcellini e Topolino (che, sebbene pure loro in gesso, si dovrebbero muovere per rispondere alle risate dei bambini). Altre dive ed altri divi, tra i quali speriamo che gli organizzatori ne metteranno anche qualcuno italiano. 

          Tutto intorno, la vettura sarà fasciata dalle volute di un ampio nastro di celluloide. 

7 Marte 

          Un poderoso carro d'assalto munito di torretta mobile. Da questa torretta si sporgerà il dio della guerra, astato e con il grand'elmo omerico. Dal lato posteriore della vettura penzolerà la sua testa arrossata di fiamme, un Drago di proporzioni impressionanti; e alle due ali laterali allungheranno le loro gole ammonitrici dei cannoni di grosso calibro. 

          Questa vettura simbolica chiuderà, come un peana di vittoria, la carovana fantastica che - come annuncia modestamente il programma dei festeggiamenti - scenderà dai cieli il 8 febbraio alle ore 14 in Corso Casale. Percorrerà Corso Regina Margherita, Corso Principe Eugenio, Piazza Statuto, Corso San Martino, via Cernaia, via Pietro Micca, per sostare in Piazza Castello e riprendere la corsa, lungo via Po, per Piazza Vittorio Veneto e concludersi nuovamente in Corso Casale. 

          Dove tutti i personaggi viventi della carovana fiabesca scenderanno per recarsi alle ore 22 al Politeama Chiarella a partecipare al Grande Veglione Mascherato. 

*** 

          Il pittore Mario Gachet, che dirige i lavori di allestimento di questa estrosissima carovana astrale, mi ha voluto cancellare un dubbio amletico. 

         Mi ha raccontato che la vecchia locomotiva pensionata, battuta in corsa dal ciclista e dal podista, è ringiovanita di trent'anni al solo apprendere che era stata scelta per guidare il Treno Astrale lungo la planimetria festosa di Torino carnevalesca. 

          L'altra notte ha compiuto a velocità folle un giro di prova su tutto il tracciato del percorso, con tutte le sette vetture, sferragliando e pimpando come una locomotiva neonata: che si trovi alla sua prima corsa su un binario lanciato tra le acacie in fiore e le rose selvagge in primavera. 

Luigi Olivero  

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Stampa Sera 16 febbraio 1937 

Passeggiate cittadine 

Torino al piccolo trotto  

           C'è ancora troppa gente la quale ritiene che tra il cavallo motore e il cavallo animale esista un fatto personale, un astio dovuto alla concorrenza negli affari. Troppa gente vecchia la quale dice che il cavallo motore ha rubato il pane - meglio: l'avena - al cavallo animale. Troppa gente giovane la quale sostiene che il cavallo montato su quattro zampe turba la circolazione, con il suo pacato trotterellare anacronistico a quello montato su quattro ruote. 

          Ebbene, tutta questa gente ha torto simultaneamente: poiché il cavallo con il cuore animale e quello con il magnete Marelli vanno benissimo d'accordo tra loro e si dividono il lavoro in parti uguali 

          È sufficiente sostare qualche minuto alla stazione di Porta Nuova, lato arrivi, per convincersi di questa verità. Non che i tassì allineati ad aspettare il viaggiatore siano i numero uguale alle carrozze a trazione animale che stanno al loro fianco - immobili carovane - con l'identico scopo! I tassì, oggi, sono in numero maggiore. Ma se osserviamo quante persone si distaccano dalla fila dei viaggiatori in arrivo, per scomparire nel vano di uno sportello appartenente al mezzo di locomozione che li deve ancora ospitare brevemente dopo il viaggio ferroviario, ci accorgiamo quasi sempre che il privilegio della scelta viene fatalmente diviso in parti quasi equivalenti fra i tassì e le carrozze. 

          Nessuna ragione di astio personale, dunque, nessuna concorrenza di mestiere. La scelta è subordinata alla preferenza del pubblico. E il pubblico è composto fortunatamente di persone proprietarie di gusti diversi. 

Preferisco il tassì...

          Io preferisco il tassì, ma ho molta simpatia per le carrozze a cavalli. Mi piacciono per quella loro distinzione padronale, per quel senso di riposante dondolio che il piccolo trotto del cavallo conferisce ai nervi umani affaticati dal viaggio in ferrovia. Se poi si arriva di sera, una passeggiata al piccolo trotto è la più conciliante ninna nanna per il sonno che ci aspetta nella camera confortante di un albergo o nell'alcova morbida della nostra abitazione. 

          Avete mai osservato che gli sposini in viaggio di nozze, scendendo alle stazioni, obbiettano per la carrozza a cavalli?

            Gli sposini sono degli esseri guidati - per la loro speciale situazione - esclusivamente dall'istinto. Essi intuiscono, senza dirselo, che nella carrozza a traino animale subiranno meno sballottamenti. La luna di miele sta racchiusa nella grande bomboniera ovattata d4ella loro felicità sopra il cui coperchio è incollata l'etichetta «Fragile». Il loro bagaglio di sogni o di illusioni è avvolto nella cartavelina trasparente della loro gioia neonata. 

          Gli sposini conoscono la fragilità dei loro bagagli sentimentali: e - felicemente guidati dall'istinto come sono - pensano a proteggerli dalle scosse dell'eccessiva velocità scegliendo la carrozza al piccolo trotto. 

          Ma non è detto che dopo gli sposini, siano soltanto i vecchi signori calvi proprietari di vene varicose o di scarpe con bottoni laterali a preferire la carrozza. 

          Quanti eleganti ufficialetti in licenza salgono su una vettura scoperta insieme con la fidanzata che è venuta ad attenderli alla stazione! E la scenetta, in un pomeriggio di sole, è anche suggestiva.

           Io credo che, per una signorina, percorrere i viali cittadini seduta in una carrozzina al fianco di un bel tenentino, sia un grande  motivo d'orgoglio. Pensate: esibire alle conoscenze che si possono incontrare per istrada il monopolio esclusivo di due baffetti impareggiabili, di una splendida divisa, di una sciabola lucente che sfiora le proprie gambette nervosine inguainate di seta! 

          È un'esibizione poeticissima che viene soltanto superata da quella giovane mamma che «fa vedere» i propri bambini esultanti di riccioli e di rosea salute a bordo di una carrozzella che li riporta festosi all'abbraccio del marito, ai baci tenerissimi del babbo. 

          Non ingiuriate il piccolo trotto dicendo che, nell'epoca della velocità, del motore a scoppio, dell'accumulatore elettrico, costituisce un anacronismo.  

         Ungaretti è un poeta contemporaneo che vi sa regalare uno stato d'animo essenziale nella scalata sintetica degli undici gradini di seta che compongono un verso endecasillabo. Un canto dell'Ariosto è invece più lungo, per qualcuno sarà prolisso, ma non è disprezzabile: forse è una scala d'oro intagliata di molti gradini ma che conducono con più tranquilla serenità alla poesia. 

Una leggenda da sfatare 

         Bisogna sfatare la leggenda dello scarno ronzino da piazza che allunga il testone icosaurico verso terra, sconsolatamente, aspettando il cliente che non viene mai. Non bisogna credere che tutti i cavalli delle «cittadine» siano malati di atassia locomotrice e che, quando devono muoversi allo schioccare della frusta del vetturino, si decidano a farlo con infinita rassegnazione, pensando:«non vedo l'ora di morire per riposarmi»! 

         Dopo tutto, il cavallo-animale è il nonno del cavallo-motore. Rispettiamolo, come rispettiamo il cane, amico e coadiutore dell'uomo, zio del tenore, del campanello elettrico, del telefono e della radio.

          Rispettiamo il cavallo bolso che soffia sul selciato di Piazza Castello l'ansia di esser troppo vissuto nella città ammirando l'erba soltanto attraverso le inferriate conserte delle aiuole: il cavallo che lascia gocciolare dai grandi occhi salienti il muco delle ghiandole lacrimali eccitate dal freddo: che scuote la coda alla punzecchiatura del monello  con la benevola contrarietà del vecchio a cui il nipotino ha tirato il fiocco della papalina. 

 

         E lasciamo vivere anche la carrozza che, scoperta o chiusa che sia, è sempre una comoda culla per le nostre membra affaticate, desiderose di giungere a destinazione senza subire rullii o beccheggi, senza sterzate e senza scosse. A meno che l'assale della vettura perda una ruota: inconveniente senza importanza che può anche accadere alla più vertiginosa delle automobili da piazza o da turismo.

         Luigi Olivero 

  

Stampa Sera, primo marzo 1937

 Passeggiate cittadine

Le lepri d'acciaio

ovvero i ciclisti fuori legge

         Nella stenografia grigia del mio cervello è rimasta annotata questa «grecheria» che ho udito una sera - in un bar elegante del Parallelo di Barcellona - dalla voce calda di Ramòn Gòmez de la Serna:

         «Il ciclista è il fuorilegge della circolazione. L'automobile ha accresciuto la responsabilità umana, inserendosi nel traffico della città ed obbedendo ai regolamenti stradali. Ma il ciclista è rimasto l'anarchico che crede di potersi burlare dell'alt della Polizia: e per questo viene spesso inseguito dai gendarmi a cavallo, i quali assumono, per l'occasione, un grazioso aspetto di cacciatori alla lepre d'acciaio».

         A Torino non abbiamo i metropolitani a cavallo. Perciò è piuttosto raro che il tranquillo cittadino assista allo spettacolo divertente di una caccia al galoppo alla lepre d'acciaio per le vie della città. 

Caparbietà da studiare 

         I nostri vigili riescono benissimo a regolare il traffico servendosi delle sole segnalazioni mimiche della mano inguantata o con l'ausilio dei semàfori pènsili.

         Ma succede spesso di vedere il civich indispettirsi per la nessuna considerazione che il ciclista ha tributato ai suoi segnali; e interrompere il suo compito per andare a rincorrere, alcuni metri più in là, il velocipedastro strainfischiante. Assistiamo, allora, alla cattura della lepre d'acciaio con la semplice arma di un libretto da contravvenzioni stretto da una mano inguantata di bianco.

         E il ciclista disubbediente paga. O va a pagare, con comodo, la sua intemperanza.

         Ho avvicinato una guardia civica del centro dalla quale ho appreso che il settantacinque per cento delle multe affibbiate quotidianamente agli inosservanti il regolamento della viabilità cittadina è proprio rappresentato dalle multe dirette ai ciclisti.

         La caparbietà del ciclista meriterebbe di essere studiata alla stregua di un caso clinico. Per quanto non sia una malattia riscontrabile nel solo ciclista torinese. È una malattia mondiale che si è insediata nelle meningi dell'«uomo in bicicletta» di Jokohama e di Caracas, di Ottawa e di Melbourne.

         Il ciclista di tutte le latitudini è un essere irrequieto il quale vuole assolutamente «passare».

         Come in ogni fanciulla cova una suocera, in ogni ciclista cova un Girardengo. I regolamenti non contano: per lui si tratta di vocazione. E la vocazione è quella prepotente disposizione dello spirito che non conosce disciplina o restrizione. Fila dritto allo scopo.

         Lo scopo del ciclista non è altro che la velocità.

         Voi aspettate il tram e quando arriva state per salire sul predellino, sbrigandovi per non perdere la corsa. Ma il ciclista sopraggiunge di volata, vi taglia nettamente la strada tra voi e il tram nel preciso istante in cui vi disponete per salire. Se non volete essere travolti dalla lepre d'acciaio che s'infila tra le vostre gambe, siete costretti ad arretrare, mentre il convoglio chiude i battenti automatici e voi rimanete a terra. Non protestate. Correte il rischio di pigliarvi del «balengo», del «caffelatte», del «piedepiatto». Poiché il ciclista è un animale corridore che non ammette rimproveri dal «borghese». Accetta la «mancia» dal vigile, perché non può farne a meno, ma dal vile pedone esige il silenzio a torto o a ragione.

         Ammettiamo che, in alcune ore della giornata, certi gruppi di lepri d'acciaio siano formati per lo più da operai che si recano o tornano dal lavoro e che, di conseguenza, l'ansia del ritardo o lo stimolo dell'appetito li spinga a correre. Ma c'è una categoria speciale di ciclisti i cui rappresentanti catastrofici s'incontrano a tutte le ore del giorno.

         È la categoria costituita dai garzoni macellai.

         Ogni garzone macellaio si sente un asso del pedale, quando addirittura non si ritiene un motociclista a cavallo di una macchina che alimenta con la benzina dei suoi ginocchi e col magnete del suo cuore esuberante di vitalità.

         Il garzone macellaio è il centauro in blusa a righe rosse e bianche che si fa largo maestosamente nel bel mezzo della via, con la chioma ricciuta al vento e con il ritornello sonoro di una canzone popolare, sovente cantata, quasi sempre zufolata.

         È l'autentico insostituibile re delle lepri d'acciaio. 

Una missione sociale 

         Può anche avere la cesta ripiena di carne, appesa alla schiena o depositata sul manubrio. Il garzone macellaio non sente fatica. Sente un unico assillo: quello della velocità.

         Una volta ho provato a chiedere ad uno di questi giovani qual'era stato il più bel giorno della sua vita. Mi ha risposto:

          «Il giorno in cui ho compiuto tredici anni e il mio padrone mi ha mandato in giro con la bicicletta  a portare la carne ai clienti».

         Perché bisogna sapere che per questi giovani portare la carne in bicicletta alle abitazioni dei clienti è una missione sociale: come quella del postino che ti reca la lettera raccomandata di licenziamento in tronco - senza indennità e senza motivi plausibili - che ti ha spedita il tuo principale mascalzone e come quella portinaia pettegola che, con la sua lingua ossidrica, apre dei larghi squarci nella cassaforte dei tuoi segretucci personali per darli in pasto alla curiosità umana.

         Più che giusto, quindi, che questa missione sociale venga adempiuta con la massima solennità e con la più grande solerzia: correndo all'impazzata nel bel mezzo della strada, imponendo rallentamenti alle automobili, scampanellii ai tram, piroette pericolose al passante tremebondo che aspettava da alcuni minuti il segnale luminoso per poter attraversare la via.

         Ma accade di più. Accade qualche volta che questo coribante delle lepri d'acciaio circoli senza l'ingombro della cesta. Allora assistiamo a delle vere esibizioni di equilibrismo, a dei saggi gratuiti di maestria acrobatica nell'arteria affollata del cuore della città. Allora il giovincello «va senza mani», cioè senza mettere le mani sulle manopole del manubrio.

         Guida la sua bicicletta massiccia, dipinta quasi sempre a tinte vivaci, quasi sempre munita di ruote «a ballon smontabile» con dei copertoni che somigliano dei salvagente; la guida con il solo destreggiare dei ginocchi e talvolta compiacendosi a descrivere dei zigzag di sterzate come ho visto fare dal motociclista pazzoide nel baraccone delle «muraglie infernali». Questi sono i veri momenti emozionanti del re delle lepri d'acciaio.

         Una «Balilla» gli sta dietro. Subisce quasi a ruota i rallentamenti e le riprese, le oscillazioni e gli scatti di quell'indiavolata moltiplicazione di irresponsabilità e di maleducazione stradale. Il freno a pedale dell'imbestialito automobilista è costretto ad azionare in infinite gradazioni di prudenza. Finché il radiatore della macchina viene magnetizzato dai giri capricciosi di quella ruota di bicicletta che gli folleggia davanti e finisce per urtarla leggermente, in uno stridio di freni, con uno slittamento di pneumatici. Naturalmente la lepre perde l'equilibrio e sovente acquista un'indennità di investimento.

         Io non posseggo - nemmeno allo stato intenzionale - un'automobile. Non ho mai neppure sognato la patente di terzo grado. Ma vorrei che un giorno si scatenasse una guerra tra automobili e biciclette. Beninteso, senza spargimento di sangue umano. Tanto le une che le altre, dovrebbero venire azionate con un dispositivo elettrico, secondo le esperienze di guida a distanza che sono state fatte l'anno scorso in una via affollatissima di New York. Tanto è l'odio che le automobili hanno accumulato contro questa indisciplinata genia meccanica a pedale, che assisteremmo, alla distruzione di tutta la razza delle lepri d'acciaio d'Italia e Colonie.

         E sarebbe un grave peccato. Perché una bicicletta scintillante, quando è inforcata da due belle gambe femminili, è un simpaticissimo veicolo di giovinezza che dona alla strada cittadina un aspetto di semplicità accogliente, di provincialismo gentile.

         Senza andare nell'ostentazione sportiva del Nord - come accade in Inghilterra, in Danimarca, in Germania, dove le donne pedalano addirittura in calzoncini a gambe nude - che a noi può anche sembrare una posa antiestetica.

         La bicicletta ha diritto di esistere e di circolare, come il più leggero e più leggiadro dei veicoli a condizione che si adatti ai regolamenti: come si adattano ai regolamenti le peripatetiche suole dell'ultimo strapazzatissimo pedone cittadino.

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         Nota bene, - Anche i garzoni macellai, quando vogliono, sanno essere educati nel transito. Io ricordo di averne visto uno, il giorno della proclamazione dell'Impero, che aveva inalberato una smagliante bandiera tricolore sulla cesta collocata sopra il manubrio; e sostava senza fretta a tutti i crocevia aspettando le segnalazioni; e sorrideva ai passanti che sorridevano della sua stessa italianissima gioia. 

                                                                 Luigi Olivero

           Il 14 luglio del 1945 Luigi Olivero inizia la sua nuova avventura con la pubblicazione a Roma de Ël Tòr  ~ Arvista lìbera dij Piemontèis. In prima pagina del primo numero questa sua dichiarazione d'intenti:

Proponiment dël Tòr

Paròle ciaire

An mes a l'angorgh dle mila e un-a corent polìtica che ant costi ùltim mèis arbeuj s-ciumand antorn ai pilastr dirocà dla vita italian-a, un'arvista ch'a seurt con la precisa intension ëd nen angolfesse ant gnun-e 'd coste corent polìtiche a peul anche nen esse chërdùa. An efet, ancheuj a esisto trope publicassion con la barba finta ch'as proclamo «indipendente» ò «apolìtiche» ant ël titol për dësslesse, anvece, ispirà a una ciaira ò stërmà adressa polìtica angrumlìa con aria inossentin-a tra le righe dij sò articoj anvlupà sovens ant ël vel bianch da prima comunion dij titolin pi discret. A esse sincer, a bsògna arconòsse che ancheuj la nebia greva dla polìtica e l'ha talment ambibì ij grop nervos ëd nòst sërvel da rende squasi impossibil una qualsissia manifestassion inteletual pura e sempia. Sarà un bin, sarà un mal ? Quaicadun a l'ha dit che la polìtica, an literatura, a l'é come la salcanàl ant la crema. Ma, tutun, ancheuj a l'é 'd moda fé intré la polìtica daspertut... 

E antlora noi saroma s-cèt: faroma 'nsun-a polìtica për esse lìber ëd consideré serenament tute le idèje polìtiche. Val a dì che publicheroma dë scrit - ëd preferensa leterari, colturaj, folcloristich - sul Piemont ò su argoment interessant ij piemontèis  (përchè nòst linguagi a l'é 'l nòst caràter midem) e an italian (specialment la prosa, për rason tecniche) da scritor che lassroma ant la pi democràtica libertà d'espression dël sò pensé polìtich, an lassandje, naturalment, ëd cò la completa responsabilità 'd lòn ch'a scrivo e ch'a sotsigno. 

Për nòst cont particolar, noi ij tenoma mach a dì, con vos bin àuta. bin ciaira e goliarda, che saroma, 'd nans a tut e 'd zora tut, orgojosament «piemontèis». E sòn a veul peui dì che, ansima dël tempestos ciarivarì dle idèje e dle tendense violentement contrastante, ardità da l'Italia con ël pi tràgich naufragi dla soa storia, noi is butoma idealment da banda su la cita isola teritorial dël Piemont ch'a stërma, darera dla soa granda sentura 'd ròche alpin-e, rapresentà dai valor tradissionaj dla soa verament libera e verament democràtica civiltà polìtica: spetand ël moment, s'a vnirà, 'd torna pié an considerassion, s'a survivran, ij valor an travertin monumental dla milenaria civiltà roman-a che ancheuj a tramblo paurosament su le scrussije fondamenta dla penisola.

E costa a sarà la nòstra fasson pi onesta d'esse 'd bon sitadin ch'a veulo artempresse spiritualment a le frësche sorgiss ëd sò Paìs, ëd nans ëd dé man con impegn e convinssion a cola gròssa euvra 'd ricostrussion polìtica, moral e material dla Nassion: euvra ch'a pudrà mach esse ancaminà ël dì che tuti j'italian a saran torna unì, come ai bej temp dël Risorgiment, ant una midema volontà 'd travaj e 'd concordia nassional. Dì che speroma - malgré tute le nivolen-e ch'a j'é an sl'orizont - a sia davsin a s-ciòde sota 'l bel sol luminos dle fortun-e d'Italia e dël Piemont. 

 

La Giustizia 6 maggio 1953 

“L’opera di li pupi” 

vittoria del bene sul male

Questo è l’unico teatro che non conosce crisi: seguito da un pubblico che ama la sincerità 

 

          Qualcuno ha definito i manifesti “la lebbra dei muri”. In mezzo a questa immensa lebbra murale che imbratta le vie e persino i monumenti della Capitale, convertendola in un’autentica Cloaca Massima echeggiante di urla policrome che incitano all’odio di classe e al votate questo o votate quello, non sarebbe stato male che, almeno ad ogni cantonata del centro, figurasse un cartellone dell’”Opera di li Pupi”.     

         Uno di quei cartelloni  di fattura elementare, popolana, strettamente imparentata con la tecnica semplice e commossa degli ex voto ma più esultante e canora, che il popolo siciliano ha derivato dalle pitture che adornano i suoi caratteristici carrettini (o chi lo sa: i pannelli istoriati dei carrettini non potrebbero essere, invece: derivati da questi cartelloni?) per esaltare le gesta dei Crociati sotto le mura di Gerusalemme o dei Paladini di Francia a Roncisvalle. Non sarebbe affatto male che i manifesti politici venissero sconfitti – e verrebbero inevitabilmente sconfitti nell’interesse visivo del pubblico e dell’estetica metropolitana – da queste immagini popolari ebbre di onesta ingenuità, di un puerile entusiasmo fine a se stesso, e perciò genuino, per le belle imprese cavalleresche dei tempi andati. Giacchè il Teatro di li Pupi, che questi cartelloni apologetici commentano, non è altro che un inno all’eroismo come il popolo minuto e di tutte le età sogna e vorrebbe nella realtà: un eroismo limpido, armato di giustizia per il trionfo incondizionato del bene sopra il male.  

          Il popolo, e particolarmente il popolo siciliano, non concepisce mezzi termini: per lui c’è il bene assoluto e c’è il male assoluto.  

          Il bene ha la faccia di Rinaldo d’Este che uccide il male con la faccia nera e truce di Solimano di Nicea il quale, con la sua scimitarra fuori serie, aveva ammazzato a tradimento Geldippe e Odoardo.  Il bene ha le fattezze del valoroso Tancredi che, in un formidabile duello, spedisce all’inferno il male con le sembianze del circasso Argante. E così ancora, Orlando è il bene che, da solo, vendica i paladini di Carlo trucidati nella disperata battaglia di Roncisvalle, facendo strage (ma una strage di teste, braccia, gambe, corazze e persino cavalli, smembrati e sventagliati ai quattro punti cardinali, tale da farvi crepitare le pupille e scoppiare il cuore di allegria) facendo strage, dicevamo, di tutto l’esercito saraceno: compresi i suoi stessi capi Marsilio Re diSerpentino, Isoliamo, nonché il potente Grandonio il Massacratore. Il tutto in uno sfavillio di armature bronzee cesellate, di elmi d’oro sormontati di stelle, aquile, colombe, e di spade d’argento sitto le quali il sangue – sangue vero, signori, color del ribes – cola e sprizza dalle carni di legno come vino dalle botti di Sicilia.  

          Mentre la Morte, la grande uguagliatrice, danza la tarantella, perdendo, di quando in quando, nei vortici del suo tripudio un braccio, uno stinco o addirittura metà scheletro che però, riattiva a sé con invisibili surrealistici fili (Donde si vede come Salvador Dali e i surrealisti contemporanei siano stati fregati in partenza dalla ingenua arte ottocentesca dei pupari siciliani, oltre che da duella fantastica medievale di Hieronimus Boseh van Aken e di altri pittori fiamminghi del Quattro e del Cinquecento). Eh già ! Perché la Morte, nella sua immensa lealtà, trionfa di tutto. Anche di sé stessa, trionfa ……….  

          E’ risorta l’era dei giusti, finalmente ! Si sentiva un grande bisogno di chiarezza: di capire dov’è questo decantato bene e dov’è questo deprecato male. Con in mezzo, tutt’al più, la grazia femminile, ossia la neutralità sorridente: spesso perseguitata a torto come Isabella, qualche volta incantatrice come Marfisa e Fiordiligi, ma sovente anch’essa guerriera, per riconosciute ragioni di autodifesa, come Bradamante , Angelica, Gemma della Fiamma.  

          Fra partiti politici di destra, partiti politici di centro – 367 in tutto – ognuno dei quali sostiene e dimostra di essere l’unico depositario della verità e che tutti gli altri concorrenti rappresentano la menzogna, mentre questi ultimi sostengono proprio il contrario, convertendo il cittadino in un abitante redivivo di Babilonia, con un giroscopio impazzito nel cervello: frammezzo a tutto questo uragano turbinante di bugie mascherate da verità; riusciamo finalmente a orientarci nella vera, inequivocabile scoperta del bene, del male e della neutralità, ovverosia del Paradiso, dell’Inferno, del Purgatorio.  

         Grazie al Teatro di li Pupi che ce li indica nella faccia, nel carattere e nelle opere degli individui: e cioè, nel concreto delle loro azioni e non nella metafisica delle loro intenzioni.  

          Era tempo che il popolo tornasse a bere alle fonti cristalline dell’antica saggezza, a specchiarsi nell’onda purissima dell’oggettivo, a orientarsi sui raggi dell’astro adamantino del suo buonsenso istintivo !  

          Eccoci, dunque, a una felice stagione romana del Teatro Siciliano dell’Opera di li Pupi: costituito da smaglianti e artistiche marionette, alte quanto “pupi” vivi di cinque o sei anni. Marionette alle quali prestano la loro recitazione, calda di tutti colori dell’iride, i bravi pupari od opranti – e cioè i registi,autori,attori,impresari,scultori e sarti delle loro impareggiabili creature di finzione – riassunti dalla Compagnia diretta da Emanuele Macrì di Acireale, un autentico principe della puparia sicula. Questa Compagnia agisce da alcune sere in un lindo e spazioso tratrino, biancheggiante di stucchi e adorno persino di una galleria d’esposizione delle più belle marionette di varia statura, allestito, espressamente per l’occasione, in fondo all’immenso salone al primo piano della “Mostra dell’Arte nella Vita del Mezzogiorno d’Italia” inaugurata sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica nel monumentale Palazzo delle Esposizioni di Via Nazionale.  

          Delle opere di arti figurative e di arti applicate dell’Italia meridionale – un diorama interessantissimo di quanto di più suggestivo e prezioso abbia prodotto il genio meridionale contemporaneo – parleremo un’altra volta.  

          Oggi, lasciateci applaudire li pupi: questa espressione gentilissima dell’anima esuberante siciliana alla quale da un secolo e mezzo, almeno danno il loro concorso tutti i più umili artigiani, tutti i più ingenui poeti, confortati dal consenso di tutto indistintamente il popolo. Consenso che si manifesta con la partecipazione quotidiana, nelle vie e nelle piazze di città e villaggi dell’Isola incantatrice, della folla eterogenea alle rappresentazioni ispirate ai poemi cavallereschi, ai misteri religiosi e spesso eseguite in modesti teatrini ambulanti.  

“Tu chi co pozzu fari ? Quantu voti haiu ‘ntisu lu cornud’Orlannu pi la morti di li paladini, mi hain ‘ntisu arrizzari li carni.”  

          “Io che ci posso fare ? Tutte le volte che ho udito il corno di Orlando per la morte dei paladini, mi sono sentito accapponare la pelle”   

esclamava un operaio a uno di questi spettacoli.  

E la sua giovane moglie, bruna ma bella come una profana Madonnina di Oropa, soggiungeva:  

“E a me non capita la stessa cosa ? Quando vedo il fiore dei paladini in quella tremenda strage, ‘macari mi veni di chiangiri!  

          Così è il popolo siciliano. E non siciliano soltanto. Perché   - come si è potuto constatare qui a Roma dalle reazioni di un pubblico composto di gente da un po’ di tutte le regioni d’Italia che affollava, di queste sere il teatrino della Mostra - la partecipazione alle vicende eroiche e romantiche do li pupi è spontanea, diretta, appassionata e ugualmente intensa da parte di piccoli e adulti, analfabeti e intellettuali.  

E’ un ritorno alla semplicità delle sensazioni.  

          Un evviva alla facile poesia dei sogni infantili che sopravive in tutti noi, nel fondo del nostro cuore che ha un bel credersi indurito negli odi di classe oppure ammuffito nell’indifferenza: quando, invece, gli basta un nonnulla con sembianze romantiche per palpitare di commozione e battere di gioia sui rulli del tamburo di un puparo menestrello che sa far muovere le labbra meccaniche delle sue marionette prestando loro la sua voce declamante le ottave del Tasso o le lasse della Chançon de Roland.  

*    *    * 

          Il giorno in cui il Presidente del Consiglio, On. De Gasperi, venne a inaugurare questa Mostra si fermò davanti ai tradizionali cartelloni dell’Opera di li Pupi e domandò a uno degli organizzatori se anche questo teatro si dibattesse nelle difficoltà di cui soffre il teatro della prosa. 

          “No” gli venne risposto. “Questo è l’unico teatro che non conosce crisi. E allora ? Allora ciò significa che il pubblico ama la semplicità. Perché, dunque non offrirgliela anche attraverso il teatro maggiore, il cinema, la radio e da quella grande scena delle opinioni che è la politica ?” 

Si desidera vedere chiaramente  in faccia il bene e il male. Vogliamo li puuupi ! 

                                   Luigi Olivero 

Luigi Olivero e Camillo Benso Conte di Cavour

 

          Luigi Olivero mi risulta essersi occupato due volte direttamente di Cavour, una volta indirettamente.

        Infatti due sono gli articoli che Olivero ha dedicato a Cavour. Il primo è apparso sul Ël Tòr N° 3 del 15 luglio 1945 con il titolo 6 lettere inedite di C. Cavour agricoltore e con firma Alfredo Vinardi.

        Questo primo articolo riappare sulla rivista Cuneo Provincia Granda N° 3 del 1958 con il titolo Sei lettere inedite di Camillo Cavour "romantico della natura" al fattore della sua tenuta di Grinzane d'Alba, questa volta con la firma di Olivero. Nel 1961 è la volta dell'organo della Famija turinèisa, 'l caval 'd brôns N° 6, con titolo Sei lettere inedite di Cavour al fattore di Grinzane d'Alba. Infine pubblicazione sulla rivista della Famija piemontèisa di Roma Il Cavour  N° 1 del 1968 con titolo Cavour giovane agricoltore ~ Sei lettere inedite del futuro statista al fattore della sua tenuta di Grinzane d'Alba.

NOTA Alfredo Vinardi (1895~1943) ha diretto La vita, Rivista Mensile Universale pubblicata a Torino nel 1913, Dal passato all'avvenire Lattes Torino 1908~1911. Ha pubblicato Nel mondo dei Titani Solmi Milano 1921, Nel regno della musica Chenna Torino 1909 e molto altro ancora. 

          Non ho notizia di un rapporto tra Vinardi ed Olivero. L'articolo pubblicato su Ël Tòr potrebbe aver riportato erroneamente la firma di Vinardi al posto di quella di Olivero. Non c'è però traccia di errata-corrige nei numeri successivi della rivista.  Alfredo Vinardi è deceduto nel 1943 mentre l'articolo esce nel 1945. Appropriazione successiva del lavoro del Vinardi per le ulteriori riprese dell'articolo? La ricerca continua... 

        Secondo articolo. Per la prima volta eccolo su Cuneo Provincia Granda N° 1 del 1958 con il titolo Scoperta di un epistolario inedito. Cavour innamorato. Lo stesso riappare nel 1968 su Il Cavour N° 3 con titolo Cavour innamorato.

        Indirettamente Olivero si riferisce al Cavour con la testata che assegna alla rivista della Famija piemontèisa di Roma; Il Cavour appunto, di cui Olivero fu ideatore, caporedattore ed impaginatore. La copertina di ogni numero contiene poi una divertente caricatura di Cavour, opera di Felice Vellan, che si riproduce insieme ad altre due di Orfeo Tamburi tratte dall'articolo citato su Ël Tòr.

        I due articoli, riprodotti integralmente, provengono dalla rivista Cuneo Provincia Granda.

Luigi Olivero

Luigi Olivero

Cavour

Cavour

Orfeo Tamburi: due caricature di Cavour da Ël Tòr N° 3 1945

Cavour

Cavour

Cavour

Cavour

Cuneo

Il Cavour

Il Cavour

Il Cavour

Cavour visto da Felice Vellan 

Scritti inediti di Luigi Olivero 

Passeggiate cittadine

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R A D I O G R A F I A    

D E L   “B A L O N” 

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         Qualche mese fa, a Londra, visitavo quell’immenso emporio del ciarpame universale che si chiama Caledonia Market, discutevo con un amico, giramondo e collezionista di porcellane cinesi, di questi mercati degli oggetti in pensione. Ridevamo degli schifiltosi che considerano queste piazze come i lazzaretti delle cose inutili. E avevano ragione: poichè avevamo scoperto e acquistato per pochi scellini due bellissimi piatti dell’epoca Ming dalla porcellana candida come il latte sulla cui superficie nuotavano dei meravigliosi alberi blu.

         Dal Gran Bazar di Costantinopoli ai souks di Algeri, quanti oggetti interessanti ho potuto ammirare, mentre nei negozi fastosi, aperti alla curiosità internazionale, sovente non si succedevano davanti alla mia attenzione che dei modelli falsi o standardizzati delle orientalerie convenzionali da romanzo esotico alla Loti.

         Tutte le città del mondo hanno dedicato una loro piazza a ricovero degli oggetti malati di vecchiaia. Suppellettili familiari cadute in disuso, abiti stinti dalla scolorina del tempo, libri sorpassati dal rinnovarsi delle colture, cianfrusaglie superate dalla moda e dai capricci del pubblico.

         Queste piazze sono i solai scoperchiati della rigatteria locale. Sono – qualche volta – i musei all’aria aperta della civiltà artigiana e casalinga dei popoli: musei tra i cui pezzi il collezionista di bizzarie e il ricercatore pratico possono trovare un oggetto da completarne una serie, un esemplare che può ritornare di utilità.

         Non quindi il caso di torcere la bocca in una smorfia snobistica: Questi mercati non costituiscono quasi mai i mausolei delle cimici e dei pidocchi – come certi fessacchiotti pretendono – poiché, sarà una cosa strana, ma tutte le piazze dei robivecchi sono esposte al sole e alla luce. Si direbbe che il sole e la luce funzionino l’uno da sterilizzante e l’altra da aspirapolvere sopra le vecchie cose ammassate in questi campi di concentramento per sopravissuti alle aste fallimentari della tradizione.        

/  / 

         A Torino abbiamo il Borgo del “Balon”.

         La toponomastica cittadina ha battezzato ogni rione, ogni quartiere, con un nome che trova riscontro nel calendario del martirologio religioso, patriottico, scientifico o appartenente all’elenco dei nomi di altre città a cui Torino deve gratitudine o ricordo. Ma il Borgo del “Balon” è rimasto soprannominato il “Balon” – attraverso i secoli – per tutti i torinesi vecchi e nuovi. Il popolino non ha mutato questa definizione di un quartiere che, secondo l’istinto elementare del popolo, si presenta con le caratteristiche tipiche di un pallone: di una sfera metaforica, cioè, che, come il mappamondo, contiene di tutto: il pensato e l’impensabile confusi come tra le pareti di un caleidoscopio iridescente colmo di miserie e di ricchezze, di meteoriti carbonizzate e di stelle radiose che costituiscono l’astronomia da grande baraccone delle meraviglie della storia quotidiana dell’umanità.

         E un senso di umanità hanno tutte le cose accatastate al “Balon”.

         Osserviamo. Cosa esprimono quei tubi da stufa corrosi ed ammaccati deposti accanto a un trapano “come nuovo” ma dalla manovella rotta senza la quale non può funzionare? Essi appartengono ai miracolosi scampati ai cimiteri periferici dei detriti. Sono i salvati dal provvidenziale “divieto di scarico” della polizia urbana. E sembrano aspettare il compratore occasionale che li restauri e li rimetta in attività. Come le persone, anche le vecchie cose continuano a sentirsi legate alla vita da un filo di speranza nel domani.

         E quelle scarpe – quelle vecchie scarpe sgangherate – che ridono sul selciato il riso ebete delle zitelle rilegate in cartapecora -, quali piedi avranno ospitati durante i loro giorni di “servizio attivo”? I piedi fioriti di calli di un suonatore di batteria, i piedi dolci di un portinaio, o i piedi bovini di un critico letterario? A chiunque siano appartenute, queste scarpe potranno ancora servire: forse al calcinaio che, impastando calce e cemento nei cantieri di costruzione, consuma mensilmente parecchie paia di scarpe spruzzandole con queste sostanze corrosive.

         Vecchi dischi. Su una tribuna sconnessa, un altoparlante gracida il richiamo delle lontane arie di caffè concerto: Anna Fougez, Maria Campi, la “risata” del comico Bernard, giovinezza scapigliata dei nostri padri elegantissimi con paglietta da un lato (alla seduttore di Borgo Vanchiglia), garofano all’occhiello, colletto di celluloide, pantaloni stretti e scarpe a bottoni laterali. Torino nostalgica e antidiluviana dei poeti dialettali “bogianen” e catarrosi. Voci consunte negli interstizi del diagramma logoro che sgranano canzoni più recenti oppure già superate: sono voci che confermano con un po’ di tristezza l’ingiallire di tutte le cose, anche di quelle più seducenti e care come il canto. Richiamano giù la giovinezza ostinata delle sciantose sui quarant’anni.

         Giriamo.   

         Bancarelle. Stuoie. Accanto alla manicomiale filosofia di Stirner boccheggiano, sotto una campana di vetro, i fiori artificiali dello stile liberty. Sotto le ruote di un preistorico triciclo sbadiglia la sua noia infinitamente circolare, da orizzonte autunnale, un copertone da autocarro. Attorno a un piegabaffi da fatalone “Esposizione Universale di Torino 1911” s’incurva una giarrettiera trapunta di roselline ( è così civettuola che se la vedesse un parigino di passaggio l’acquisterebbe per regalarla al Museo Carnavalet che la esporrebbe come la giarrettiera della bella Otero!).

         E quella macchina da scrivere sgangherata la cui architettura somiglia tanto a quella della carrozzeria a pagoda siamese della prima automobile? Forse è servita a una torinesina modernista per partecipare al primo Concorso francese di dattilografia 1906.

         E i portaritratti umbertini, i decrepiti quadri ad olio nelle cornici patinate d’oro che si sfalda, le porcellane smussate, i vasi barocchi incrinati, i puntaspilli a cuore di velluto polveroso, i nastri stinti, i medaglieri gloriosi, tutti i vecchi ammenicoli della poesia ottocentesca sospirosa e provinciale! Potranno più tornare a nuova vita? 

/  / 

         Tutti questi oggetti intrisi di vecchiaia sembra che sospirino sotto il sole invernale che invade il “Balon”: Ma pare che nel loro intimo non si lagnino: non imprecano alla nostra vita dinamica che li ha confinati nell’ospizio all’aperto delle povere anticaglie: Sanno di ave fatto il loro tempo. Sono rassegnate alla loro immobilità. Anche se sperano ancora nel collezionista o nel praticone che li adotti e che offra loro una dimora migliore, un’occupazione ancora utile.

         Le vecchie cose che sono servite all’uomo hanno assorbito un po’ dell’anima umana.

         Per questo sperano fino all’ultimo istante della loro fortunosa esistenza.

         Tutti – anche le cose – hanno il diritto di sperare! 

/  / 

         Visitiamo, dunque, i vecchi mercati senza impolverare il nostro abito mentale con la naftalina della prevenzione.  

Testo di OLIVERO

Foto di ZUMAGLINO                                                                                   

Nota al testo L'articolo sopra riportato proviene da un dattiloscritto di Luigi Olivero in copia su carta velina. Oggi appartiene alla raccolta Silvio Bonino che qui ringrazio per avermelo messo a disposizione. Era previsto per la pubblicazione su Stampa sera in una serie di pezzi pubblicati e da pubblicarsi tra il gennaio e l'aprile del 1937.

Recentemente ho rintracciato questo articolo, dato per inedito,   su Stampa Sera  del 29 dicembre 1936, con il titolo Passeggiate cittadine - Radiografia del «Balôn».

  

GAMBE SUL PASEO DE GRACIA

 

                                     Barcellona, marzo... 

         Barcellona è l’unica città del mondo in cui ho visto, d’inverno, le donne portare a passeggio delle elegantissime pellicce a gambe nude.

         Gambe rettilinee, perfette di una geometria estetica purissima. Preziosi gioielli anatomici che i rossi - durante la loro triste dominazione avendo convertito tutte le fabbriche di prodotti serici in stabilimenti di armi che fecero poi saltare con la dinamite prima di fuggire - hanno privato del loro più suggestivo ornamento: la calza di seta.

         La catalana, come la donna spagnola in generale, ama il nero.

         Mettersi sul Paseo de Gracia una domenica mattina e veder passare le señoritas che tornano dalla messa, con la mantella sul capo, un vestito nero aderentissimo al corpo che qui definiscono cimbreante ma che meglio che flessuoso è appetitoso, costituisce presenziare a uno spettacolo da luculliani della bellezza muliebre. La donna spagnola, in tutte le regioni della penisola, tende un poco al formosetto. La catalana, pur esprimendo in grado minore questa tendenza, è tuttavia anch’essa gordita. Di statura media, esibisce una fisiologia procacemente ricca di vitamine. Poiché il nero sveltisce le forme correggendo le adiposità e modificando le curve meglio di ogni altro colore, è giusto che la donna spagnola preferisca vestire di nero.

Pedigree della donna catalana 

         La catalana è istintivamente elegante. Il suo corpo è un risultato zoologico interessantissimo. Sembra che l’aggressività sensuale, con inflessioni e movenze di bailadora della sorella Andalusa sia stata, nel tipo catalano, temperata dalla grazia un poco artificiale coreografica affaristica della vicina francese. La catalana è il frutto di un’impulsiva bellezza meridionale amministrata con giudizioso buon gusto settentrionale.

         Barcellona è la città più europea della Spagna. Ed è anche la città in cui le donne camminano più in fretta che in tutto il resto della penisola. Nulla dell’andatura dormillona, un poco indolente e quasi araba, delle caditane. Nulla della sensualissima e torrida cadenza musicale delle sivigliane. Nulla della regalità ostentata delle burgosiane. Lontana dalla felinità delle madrilene.

         Una grazia gentile e femminilmente provocatoria nel passo istintivamente ginnastico, disinvolto, naturale.

         Le gambe barcellonesi sono la più ardita confutazione vivente del proverbio che l’invidia delle altre donne spagnole ha coniato per esse: 

                                               Tetas y pesuñas:

                                               mujer de Cataluña. 

         Malvagia insinuazione : i piedi delle donne catalane, anche se non sono dei ninnoli da salotto sivigliano, sono la logica continuazione e il naturale completamento delle gambe perfette che li posseggono.

         Ma a vederle guizzare nude, queste gambe, sul Paseo de Gracia, un mattino d’inverno spruzzato dalla rugiada gialla di un sole polverizzato dal freddo, si prova un senso di pena.

         Per un occhio clinico nulla è più antiestetico di un paio di bellissime gambe femminili sfreccianti bruscamente nude da un’elegantissima sottana nera.

         Sono delle gambe diseredate.

         Quando i rossi non avessero perpetrato altra barbarie che questa di aver privato tante belle estremità femminili del loro ornamento più delicato, avrebbero già dimostrato a sufficienza la loro cafonissima, ottusa, paracarresca insensibilità al bello. 

Le gambe di pietra animata 

         Sensualità cristallizzata. Offesa alla vita. Ai nostri occhi non ancora abituati alle aberrazioni della carestia, queste gambe diventano fredde, quasi insensibili, marmoree. Si confondono con quelle delle innumerevoli statue di donne nude, adagiate, all’impiedi, in ginocchio con le quali il gusto dionisiaco dei catalani ha popolato i paseo deliziosi di questa splendida città mediterranea, le sua ampie avenidas, i suoi caleidoscopici giardini mantenuti con il pettine e l’aspirapolvere, le sue piazze circolari di un’architettura armoniosissima. Sembrano le gambe modellate nella pietra bianca delle statue che emergono dalle aiuole di quell’immenso canestro bordato di cemento, intrecciato di scalinate, attorniato di archi e sostenuto da monumenti di bronzo che è la rotonda di Plaza de Cataluña. Sono le stesse gambe che esibisce con un’impudicizia artistica suggestiva la nuda adagiata sul plinto del monumento a Francesco Soler Rovirosa lungo le siepi di bosso della Calle Cortés.

         Gambe di pietra animata che sembrano emergere di sotto il drappo nero con cui vengono coperte le statue nello studio dello scultore. 

Le gambe bionde 

         Ma sull’asfalto dei due viali di platani che salgono paralleli ai lati opposti del Paseo de Gracia - che è la passeggiata più gradita alla barcellonese elegante la quale lascia la famigerata e congestionatissima Rambla alle ragazze del popolo - fra tante gambe antiestetiche sfilano anche delle eccezioni. Queste eccezioni sono offerte dalle donne bionde che vestono in tinta chiara o marrone le quali gambe nude acquistano sotto il sole un’apparenza quasi vegetale di magnolie in autunno.

         Quelle delle bionde sono gambe di un nudo raggiante che scrivono sull’asfalto del Passo dei telegrammi di procace sex appeal con il ticchettio dell’alfabeto morse dettati dal desiderio che suscitano al loro passaggio.

         Queste sono le uniche gambe estetiche di Barcellona contemporanea. 

Le gambe patriottiche 

         Ma esistono gambe patriottiche: quelle inguainate di bianco delle Crocerossine e quelle calzate di nero delle falangiste: sono gambe che non ispirano sensualità ma che in compenso sollecitano un sentimento di simpatizzante ammirazione verso le ardite fanciulle che le posseggono. 

Gambe gitane 

         E sfilano, con frequenza, gambe di gitane. Sporche, fuligginose, che escono fuori da lunghe sottane sbrindellate e che terminano in pantofole sdrucite. Descrivono dei passi irregolari. Degli andirivieni frenetici. Le loro proprietarie chiedono l’elemosina ai passanti con un’insistenza petulante che rasenta la scocciatura. Se il passante esita a tirar fuori il real, perché ha fretta o non ha spiccioli, lo inseguono, gli toccano la falda del soprabito, ripetendo accanitamente ad alta voce, finché l’obolo non è caduto nelle loro mani color tannino, il ringraziamento rituale dei vagos iberici 

- Diós le pague! 

Le calze finte del libero amore 

         Sono le gambe che ricordano più da vicino i tempi dell’anarchia rossa. I tempi in cui molte donne di Barcellona, mancando di calze e volendo a tutti i costi lucirse, far colpo sul maschio, per poter esercitare con tutte le regole della raffinatezza il richiamo del libero amore, si affumicavano le gambe per sostituire le calze “fumate”, se vestivano di nero, o se le impiastricciavano con una tintura dorata per sostituire quelle bionde “mille aghi” se vestivano in colore.

         A quali sotterfugi era costretto a ricorrere l’istinto mondano dell’elegante barcellonese ai tempi in cui un paio di calze della qualità che indossano le nostre servette del Polesine o della Basilicata costava qualcosa come 250 lire nostre!

         Ora questa situazione sta per scomparire. Le forniture di vestiario - che insieme con quelle di viveri provengono intensamente dall’interno della Spagna e per mare grazie all’organizzazione dell’Auxilio Social di Franco e ai piroscafi italiani e germanici - ridaranno progressivamente alla donna catalana la possibilità di rivestire degnamente, come si merita, il proprio corpo affascinante.

         Tutte le gambe troppo fredde, troppo bianche, che oggi ancora stonano tanto con i vestiti scuri che le sovrastano, che contrastano con tanto stridore estetico con le capigliature brune - di un bruno ebano a riflessi violacei tipicamente spagnolo - di queste fanciulle a carnagione morena clara (bruno perla), prestissimo non saranno più che un ricordo di miseria superata, di volgarità russofila imposta per tre lunghi anni ma dimenticata in pochi mesi.

         Le gambe barcellonesi del Paseo de Gracia stanno per convertirsi nuovamente - come le vidi otto anni fa ai tempi in cui Barcellona era una città felice - in un vivaio di bei pesci marini agilissimi con le squame rilucenti guizzanti sotto la pioggia d’oro del sole mediterraneo. 

Una gamba elegante fra due stampelle 

         A metà del Paseo, davanti all’Hotel Majestic, in mezzo ad un gruppo di señoritas con i fiori che occhieggiano nei capelli bruni, scalzatissime e cinguettanti come pispole canterine, passa una bellissima ragazza sostenendosi sulle stampelle. Le manca una gamba. Un giovane catalano che mi è compagno di passeggio mi dice che quella è figlia di un industriale serico molto noto nella città e mi sussurra il nome. I rossi, prima di fuggire, hanno fatto saltare con la dinamite lo stabilimento al quale era annessa la casa in cui viveva la famiglia dell’industriale. La fanciulla è rimasta mutilata della gamba destra.

         La sua gamba sinistra, agile, rettilinea, che sull’asfalto del viale si punta nervosamente ad angolo acuto dietro le stampelle, è inguainata in una calza di seta bionda sfavillante nel sole come una gemma viva.

         È l’unica gamba elegantissima che ha calcato stamattina il Paseo de Gracia. Appartiene alla fanciulla più sventurata di Barcellona. 

LUIGI OLIVERO

Nota al testo L'articolo sopra riportato proviene da un dattiloscritto di Luigi Olivero in copia su carta velina. Oggi appartiene alla raccolta Silvio Bonino che qui ringrazio per avermelo messo a disposizione. Scritto a Barcellona nel 1939, non mi risulta pubblicato.

 

Nota  Seguono due articoli, sempre del 1939, provenienti da un   dattiloscritto in copia su carta velina e da un manoscritto di Luigi Olivero, entrambi appartenenti alla raccolta Silvio Bonino, che qui ringrazio per avermeli messi a disposizione. Entrambi non mi risultano pubblicati.

 

FIFA SULLA CANEBIÈRE

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I GIORNALISTI CONDANNATI AL BAGNO PENALE –

PROFUMO DI PSICOSI DI GUERRA NELLA ROSETTA

DELLA LEGION D’ONORE – LA GEOGRAFIA UTILITARIA –

INVOCAZIONI DI CREPUSCOLARI ALL’ALBA DELLA VITA –

MARIUS AUTORE DI NECROLOGIE DEI DITTATORI –

ITINERARIO SOTTOMARINO DI UNA STRADA COSMOPOLITA –

UN IMPERO BIZANTINO IN MANI DI VELLUTO

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         Marsiglia, aprile (1939) 

         La Canebière è la Broadway di Marsiglia. Scusate. Sbaglio. Il paragone vale per noi, ma per i marsigliesi – popolo che ha fatto dell’iperbole una missione sociale, gente che ha le meningi galvanizzate dalla magnesia effervescente del paradosso – un simile accostamento è qualcosa di molto più grave che un’eresia: è un insulto. Per essi il paragone va ribaltato: Broadway è la Canebière di New York.

         E adesso, con la coscienza a posto con l’orgogliosa suscettibilità dei marsigliesi, posso inoltrarmi sull’asfalto rutilante di immagini cosmopolite, sul nastro topografico di questa grande via internazionale che si snoda – come una pellicola cinematografica in tecnicolor – in mezzo al cuore della città mediterranea tanto cara ai francesi dal musicista Rouget de l’Isle al filo-drammatico danzante Georges Daladier. 

LA POLITICA ALL’HÔTEL 

         Il diretto di Hendaye mi ha depositato a Marsiglia alle 5 del mattino. Arrivare alle 5 del mattino in una grande città è come arrivare alle 20.30 in un Teatro dell’Opera: l’orchestra vi è già al completo, gli strumenti sono tutti presenti ma essi non fanno udire che degli accordi isolati e arbitrari davanti al velario ancora chiuso sullo spettacolo già vicino alla nascita ma ancora nella fase di gestazione. L’alba è un soffio divinamente mistico sulla natura “aperta”, sulla campagna, sui monti, sul mare, ma su una grande città moderna non è altro che un cartoccio di cellophane che racchiude un diorama di edifici addormentati, asciutti, quasi pietrificati, senz’anima.

         Mi metto in caccia di un hôtel. Di un hôtel sulla Canebière.

         Il receveur del primo hôtel in cui scendo mi porge il questionario. Lo riempio e glielo restituisco. Mentre con una mano lo ritira e con l’altra mi offre la chiave con appeso il triangolino in bronzo del numero 61, i suoi occhi scorrono i dati forniti dalla mia stilografica. Il mio nome, naturalmente, non gli dice nulla. Ma i suoi denti si muovono macchinalmente, seccamente, picchiettando con un tono sordo, come il bottone di un apparecchio Morse premuto dal dito di un capostazione di provincia, quando egli legge sul questionario:

                            NATIONALITÉ: italienne

                            PROFESSION: Journaliste

                            LIEU DE PROVENENCE : San Sebastian (Espagne)

         Questo receveur non è un vecchietto come la maggioranza dei receveur notturni degli hôtels di tutto il mondo. È un giovanotto sui trent’anni, glabro, accogliente, con una faccia aperta e simpatica di francese tipico du midi. È un uomo calmo, normale, persino distinto. Nessuno potrebbe pensare che nella sua mente germoglino pensieri meno che semplici, fecondati dalla rugiada di un’esistenza antelucana di onesto e modesto “ricevitore” notturno di albergo metropolitano. Ma quei tre dati del mio questionario gli hanno improvvisamente alterato il cervello, gli hanno fatto spingere le labbra in avanti, gliele hanno fatte socchiudere per lasciare sfuggire tre spontanee rapidissime arrotatissime interiezioni che esprimono la sorpresa marsigliese:

                  Pétard… mais non… alors!

         E si affretta a tradurmele in lingua corrente :

-         Voyons: vous étes italien, journaliste, retur d’Espagne!!!

Accenno   di   ”si”   con   il    mento   e   gli    porgo    il    passaporto, osservandogli:

         Amico mio, non  comprendo  la  vostra  sorpresa. Sono  tre datiesatti, potete riscontrarli voi stesso sfogliando questo documento il quale vi proverà che non sono Al Capone, la mia professione non è quella del gangster e non sono scappato da Sing-Sing per venire a impiantare una gang a Marsiglia…

         Ma non è la mia identità che lo preoccupa. Mi fissa severamente. Prende dallo scrittoio un giornale dal titolo blu – Le petit marseillaise – appena uscito e me lo getta sotto gli occhi allargando le braccia e chiedendomi ad alta voce:

                  - Ma cosa volete fare, voialtri italiani? Dove volete finire? Ça c’est la guerre! Ça c’est la guerre!

         Nel giornale non vedo nessun annuncio di guerra e glielo dico. Ma egli mi fa vedere, con il dito che fa dei freghi neri scorrendo sulla carta stampata ancora umida di tipografia, i titoli del giornale che parlano di blocchi di stati totalitari, di macchinazioni fasciste nel Mediterraneo, di strafottenza provocatoria nazionalsocialista nel Mitteleuropea, di mille diavolerie politiche e le sue labbra ripetono ancora con un tono di rimprovero accorato:

         - Vous voulez la guerre! Voi ci farete fare la guerra !

Piego il giornale e glielo restituisco dicendogli:

         - Non credete, buonuomo. Noi non vogliamo nessuna guerra.

Esigiamo solo un po’ di giustizia…

         Ma non mi lascia continuare:

                  - Avant vous avez prise l’Abissinie! Après l’Espagne ! Aujourd’hui l’Albanie… qu’est que voudrez demain ? La Corse, la Tunisie, Suez, Djibuti… la France entière ! La France, la France! Nous devrons nous défendre par vous et par le Alemans… Les envahisseurs, les envahisseurs…

         Tento di frenarlo, gli faccio cenno di calmarsi, sveglierà tutto l’albergo, gli dico di non impressionarsi alle campane allarmistiche della stampa giudeo-massonica del suo Paese, che il popolo italiano non sogna nessuna guerra… Mi interrompe ancora, nervosamente eccitato:

                  - Oui, nous savons bien che le peuple italien c’est pas le Fascisme. Mais le Fascisme vuet la guerre !!!

                  - No, mio dolce nipote di Marius – gli grido avviandomi per le scale e agitando la chiave numero 61 tintinnante – le peuple italien c’est vraiment le Fascisme. Et le Fascisme veut la justice et l’obtiendra. Ed ora state calmo e ordinate subito un bagno caldo per me e una doccia fredda per voi.

         Nel corridoio del primo piano mi raggiungono ancora, come un’eco appena percettibile, le sue parole:

                  - Le bagne, le bagne! Le bagne pénal pour tous les journalistes du monde entier ! Pour tous les journalistes.

         Chiudo la porta energicamente sull’augurio originale del primo marsigliese che ho incontrato oggi. 

VITA EFFIMERA DELLA NUOVA CARTA D’EUROPA 

         Verso le nove, a metà della Canebière animata di operai che si recano al lavoro, di sartine, di metropolitani, di folla mattutina e operosa regolata dagli scampanellii elettrici del registratore automatico del traffico urbano, incontro dei venditori strani. Venditori ambulanti che non ho visto in nessun’altra città del mondo. Venditori della Nouvelle Carte de L’Europe. Bisogna capire. Gli editori francesi di carte geografiche, assistiti dal loro ottimo istinto affaristico, hanno avuto la sensibilità di avvertire il valore effimero acquisito dalla loro produzione in questi ultimi mesi. La fisionomia della Carta d’Europa non è più duratura. Bisogna editarla e vendere subito tutta la tiratura in poche settimane. Fra qualche settimana potrebbe avvenire una nuova variazione politica e la vecchia carta rimarrebbe invenduta nei fondi di magazzino: buona unicamente per il macero, come i giornali vecchi. Bisogna produrre e vendere immediatamente premurosamente, servendosi degli strilloni i professori della vendita inflazionistica.

         Gli editori marsigliesi di carte geografiche, stimolati dalle loro esigenze commerciali, sono veramente gli unici a rivelare un’acuta sensibilità europea fra tutti i francesi contemporanei. 

GLI ARMAMENTI E LA STRICNINA 

         Al “Café Riche”, attorno ad uno dei tipici tavolini dal bordo di metallo e dal piede pesantissimo, identici in tutti i caffè di Francia, un signore abbondantemente provvisto di arteriosclerosi e di baffi, con la rosetta della Legion d’Onore all’occhiello, batte delle pesanti manate sul marmo conversando con un secco ufficiale a riposo identificabile come tale dai nastrini delle Campagne e dal distintivo degli Anciens Combattents che esibisce sul risvolto della giacca.

Il cavaliere esclama con voce di ventriloquo raffreddato:

                  - Voyons! Ti dico che bisogna raggiungere il massimo del riarmo. Lo dice anche il giornale di stamattina. Guarda, leggi: “Bisogna armarsi. Occorre che il contribuente francese comprenda la necessità di aumentare al massimo gli armamenti. I nuovi sacrifici che si richiedono al contribuente francese sono e saranno sempre inferiori a quelli che gli Stati totalitari hanno imposto ai loro popoli. Aumentando i nostri armamenti, gli Stati dell’Asse saranno ancora costretti a fare altrettanto. E noi avremo sempre il vantaggio di averli spinti a nuove spese in proporzioni tali che il nostro bilancio può sopportare agevolmente mentre il loro, più depauperato, precipiterà i rispettivi Paesi nel pozzo nero del fallimento economico…”.

         L’ufficiale sorride maliziosamente accarezzandosi i baffetti bianchi tosati con diligenza. Osserva:

         - Mon  vieux, sarebbe  come  dire  che  tu  devi  avvelenarti  la pancia ingerendo di colpo venti pastiglie di stricnina perché hai saputo che Durand, il tuo formidabile avversario al gioco delle bocce, è divenuto un così violento bocciatore da quando fa tutti i giorni una cura omeopatica di questa pericolosa medicina. In ogni caso, non potresti che fare anche tu la cura iniziandola da una pastiglia il giorno e aumentando la dose con prudenza, secondo le prescrizioni del medico. Ma intanto non conseguiresti ugualmente i risultati ricostituenti ottenuti da Durand che molto tardi: quando cioè, Durand ti avrà irrimediabilmente vinto, come sempre, alle imminenti gare bocciofile annuali del Comune di Bandol… Mon vieux, siamo in ritardo, convinciti, abbiamo perduto la corsa! Sarebbe meglio essere saggi e concedere, concedere… 

LA SCIALUPPA DI SALVATAGGIO DEMOGRAFICA 

         All’altezza del Palais de la Borse, tutto intorno agli edifici distrutti dal famoso violentissimo incendio, esiste una cintura di alti stecconati. Agli stecconati sono infissi parecchi manifesti così intitolati: 

LA DENATALITÉ C’EST LE CHOMAGE ET LA RUINE 

         Al centro del manifesto, due vignette. Nella vignetta di destra una donna in tuta di meccanico, con una chiave inglese in mano e con accanto un uomo nello stesso abito, ma con le braccia penzoloni, che la guarda, accigliato. Nella vignetta di sinistra, un’altra donna vestita da massaia con due figlioletti attorno e uno in braccio; le sta vicino il marito che le tiene una mano sulla spalla e la osserva affettuosamente. La spiegazione del manifesto è interessante. Dice che la donna la quale si ostina a rimanere nubile e a lavorare nelle fabbriche, sottrae il lavoro al maschio e annulla la propria felicità allontanando dalla sua vita la possibilità del matrimonio che rappresenta per l’uomo e per la donna due missioni distinte: quello del lavoro sicuro e proficuo per l’uomo e quello dell’amore al marito, alla casa, ai figli, per la donna. L’origine della denatalità francese, secondo questo manifesto, sarebbe unicamente dovuta all’invasione delle donne nelle fabbriche: affluenza esagerata  di mano d’opera inferiore che contribuisce alla disoccupazione maschile, distruggendo l’equilibrio dei valori della vita e distraendo sempre più la donna dal matrimonio che sta alla base dell’esistenza umana.

         Saggezza postuma dei dirigenti la politica francese o scialuppa di salvataggio sganciata nel mare burrascoso dell’avvenire che si annuncia denso di pericoli per il panfilo lussuoso di questa Nazione?

         Vedremo presto messo à la lanterne il problema tipicamente gallico dei matrimoni senza figli? E quello del figlio unico? E quello, tutt’altro che peregrino, dei matrimoni misti con figli meticci?

         Problemi fino a ieri ignorati in terra di Francia.

         In queste settimane di psicosi bellica, Marianna si sveglia di soprassalto, nel suo letto di piume rese incandescenti dalla sua pigrizia, e aprendo la finestra sulla vita si trova a dover chiedere soccorso al problema demografico, irriso fino a ieri come un’ubbìa biblica degli Stati totalitari. E fa appello ad esso con precipitazione preoccupata.

         Anche le grandi riviste esposte nelle edicole esibiscono copertine con vasti e dilaganti sorrisi di bimbi. “Marianne magazine” riempie addirittura le sue pagine di splendide fotografie di bimbi: “l’alba della vita”…

         Una coppia di innamorati sosta davanti al cartello di propaganda demografica. I due leggono attentamente, voltandomi la schiena. Poi si guardano. Si scambiano di profilo un sorriso moqueur. E scoppiano a ridere fragorosamente, rimontando allacciati, con passo ondeggiante nel sole, il marciapiede della Canebière. 

“MUSSOLINI PRIGIONIERO IN CORSICA” 

         Alle quattro del pomeriggio, faccio conoscenza con Marius: il rodomonte, il fanfarone, il ballista tipico e tradizionale di Marsiglia, sotto le mentite spoglie di un venditore di giornali. È un giovanotto aitante, vestito in modo che lo fa sembrare un domatore di circo equestre: giacca abbottonata fino al colletto, pantaloni a larghi sbuffi, gambali, berretto a visiera con la scritta in oro “Paris soir”.

         La Canebière è congestionata di folla. Gli altoparlanti dei cinematografi ripetono le battute che nell’interno dei locali Georges Flamant e Viviane Romance pronunciano sullo schermo. Il sole rosso, incandescente, accende le tende dei grandi magazzini “Boka – Specialiste de la Nouveauté – Boka” . Il via vai multicolore fa sembrare il largo dell’imboccatura del Boulevard St. Féreol un immenso frantoio in cui fermentano tulipani variopinti pronti ad essere premuti dalla pietra circolare arroventata del sole.

         Marius, con il fascio di giornali sotto il braccio, allarga le gambe davanti l’ingresso del “Grand Hôtel di Louvre et de la Paix”. Grida il titolo della sua merce cartacea con voce forte d’intonazione banlieu:

                  - Parì suèr!

         Ma non si accontenta. Nel giornale di oggi non c’è nulla di sensazionale: nessun piroscafo francese è saltato in aria, nessun aeroplano militare è caduto in mare. Ed ecco i titoli che il cialtrone improvvisa ad alta voce per vendere il giornale:

                  - Le Genéral Francò a été assassiné à la Puerta del Sol de Madrid par deux prêtres anglicain !

                  - Monsieur Hitler a été empoisonné par une jolie bergère de Berchtesgaden qu’il avait élue a sa dame de compagnie !

                  - Monsieur Mussolini, en se promenant sur son avion, se trompe de direction et il vien fait prisonnier en Corse où atterre !

         I passanti si soffermano ridendo. La venditrice di fiori artificiali di Boka non dà più il resto alle compratrici per ridere con tutta la sua bocca garofanata e con tutti i suoi seni epilettici sussultanti. I due lifte del Grand Hôtel si sostengono, con le mani dietro il dorso alle due colonne dell’ingresso per non scivolare al suolo nei contorcimenti dell’ilarità. Due gendarmi hanno il volto congestionato dal bacillo virgola, le vene del loro collo si gonfiano minacciando l’aneurisma: alla fine lasciano prorompere anch’essi la risata: sembrano due maschere viventi del Théatre du Burlesque.

         E il cialtrone moltiplica le sue fregnacce. L’atmosfera diventa acre di cattivo gusto plebeo sfrenato, di volgarità collettiva propagata come un contagio. L’idiozia insulsa, sotto l’etichetta della spiritosaggine, è ammessa, accolta, gustata dagli stessi agenti dell’ordine.

         La serietà del giornalone demoliberale ne fa le spese.

         L’humour francese è diventato monopolio del Marius buffone della Canebière. Il gaio senso paradossale dei marsigliesi si è ridotto alla scemenza dell’angiporto.

         Aberrazioni della paura. Eccessi isterici provocati dalla psicosi bellica collettiva. 

LA STRADA SUL MEDITERRANEO PROSCIUGATO 

Dalla Chiesa  des Reformés alla banchina del Vieux Port il tramonto scende come una pioggia d’oro sul gigantesco canale minerario della Canebière.

         Davanti ai cristalli della Brasserie du Mont Ventoux, un’esile biondina appende le farfalle di due manine diafane sulle spalle di un moro gigantesco. Si solleva sulle punte dei piedini di danzatrice delle Folies. Ecco, il suo nasino incipriato arriva all’altezza del mento dell’africano. Cos’avviene? No! Due baci appassionati scoccano, come due grane di bragia scoppiettanti, sulle guance torrefatte del negro nella cui faccia rilucono un istante i bulbi candidi di due occhi di porcellana.

         Sembra che le barche attraccate alla banchina del Vieux Port fremano di schifo sull’acqua violetta.

         Sulla soglia della porta clandestina di un hôtel meublé una fanciulla elegante, bellissima, mi sorride ammiccando. La sua bocca è dipinta così violentemente che, la sua immagine sovrapponendosi nelle mie impressioni recenti di Spagna, acquista l’apparenza di una rosa rampicante di Siviglia spaccata in due. I suoi occhi adescano il blu di tutte le ombre che, lontano, la rocca del Chateau d’If accoglie dal mare per spingerle, a folate di brezza, verso la Canebière.

         Una stella lontanissima appare sul prolungamento iperbolico delle due ali edilizie di questa strada venata di iscrizioni luminose e cosparsa di pustole rosse delle luci al neon, che in quest’ora sembra dilungarsi all’infinito verso il mare, oltre il mare.

                  - S’il n’y avait pas la mer, la Canebière arriverait jusqu’à Alger -

diceva Marius, quello del buon paradosso tradizionale di Marsiglia.

         Ed anche a me in quest’ora propizia ai miraggi e alle iperboli della fantasia, la Canebière appare come la strada risplendente che unisce la Francia al suo Impero d’oltremare. Una strada sulla quale si avviano tutti i ciarpami crepuscolari di un gusto morbido, di una politica pettegola, di una morale eterodossa, di un’esistenza bizantina e comoda verso una terra di facile conquista che – come tutte le  cose conseguite e possedute con facilità – contiene in sé l’incognita dell’effimero dominio.

         Oggi tutte le strade francesi sentono la preoccupazione che deriva da questa verità rivelatasi al popolo francese in questi ultimi mesi.

         Ma il Mediterraneo, stanotte, è ancora calmo di fronte al Vieux Port. È uno specchio adagiato che beve golosamente le luci della Canebière.  

                                                                           LUIGI       O L I V E R O  

    

I bassifondi di Algeri 

         Fu per tenere compagnia a un giovane contabile milanese che la padrona dell’hotel non aveva voluto che ospitassi, per quella notte, nella mia camera. Durante questa mia sperimentale bohéme algerina sto conoscendo molti giovani connazionali ridotti dalla disoccupazione a doversi acquistare con gli ultimi soldi ai Magazzini Francesi di rue d’Isly ricchi di oggetti – e di belle vendeuses – di prima qualità, una elegante cinghia di cuoio e a dormire all’hotel della luna tropicale sulle panche dei giardini di Place de la République.

         Quella sera scavalcammo insieme la cancellata di quei giardini e ci adattammo su due panchine adiacenti, sullo stesso viale, coprendoci coll’impermeabile per difenderci dall’umidità notturna e fumando (il tabacco in Algeria costa niente e un po’ di nicotina e poi un bicchiere d’acqua agisce sempre bene sulla digestione, specialmente  per chi non l’ha da fare) delle arrabbiatissime Bastos.

 Stavo appunto concedendo all’amico i più dettagliati schiarimenti sull’architettura della nuova stazione ferroviaria e sulla copertura del Naviglio della sua Milano, quando una guardia notturna, avvertita certamente dalla bragie delle nostre sigarette, batte col bianco manganello sulle sbarre della cancellata ordinandoci un perentorio:

- Messieurs, deplacez-vous. C’est defendu, vous savez, de rester dans les jardins après le dix heures.

         Raccogliemmo i nostri effetti e scavalcammo immediatamente la cancellata dalla parte del chiosco del giornalaio, di dov’eravamo venuti, prima di aver da fare con il commissariato.

         Sotto il fanale del parterre umido e illuminato dai fanali a gas, ci trovammo nuovamente d’accordo nel riflettere che queste guardie francesi colla loro corporatura e col loro manganello, potrebbero formare con un po’ di buona volontà dei perfetti fascisti utilissimi alla causa dell’autonomia algerina i cui primi indizi cominciano a farsi notare sull’orizzonte preoccupante della politica sudafricana (sic) francese.

         E c’incamminammo, per la città deserta, verso rue Bab-el-Oued.

         Algeri è realmente la città prostituita, come la chiama Pierre Loti. Percorsa in tutte le sue vene dalla libidine del cosmopolitismo europeo più eterogeneo che le fluisce dal cuore tumultuante di Rue d’Isly, ella ha tuttavia conservato, fra le rughe stirate dal maquillage parigino, le traccie dell’antica fisionomia della razza che si rivelano nella stomatologia caratteristica  del suo volto moresco.

         Fra le pieghe delle alterazioni europee ella conserva ancora qualche gioiello di primitiva bellezza che le ricorda la sua origine e le riconferisce un poco dell’espressione che  ha perduta.

         Uno di questi gioielli è indubbiamente rue Bab-el-Oued.

         Dalla doppia fila di arcate che si inizia contro il cemento di Place de la Rèpublique ella s’ingolfa al margine del quartiere musulmano e scaturisce in Place du Licée dove l’arresta il viale d’angolo che reca all’estremità la scritta verticale del chiassoso Majestic.

         L’originalità di questa via è data da una fitta rete di fili elettrici che l’attraversa da capo a fondo e su questi fili, a sera, si danno convegno, come per un richiamo, tutte le rondini di Algeri. Chi passa a qualunque ora della notte in tram o a piedi, può assistere lungo tutto il percorso a una sterminata sosta di rondini che stanno a pochi centimetri l’una dall’altra posate sulle rivestiture dei fili, sui davanzali delle finestre, sulle sporgenze architettoniche di tutti gli edifici. E questa strada non è più sporca di tutte le altre che attorniano quell’immenso letamaio che è la kasbah.        

         Piovigginava. Discorrendo ci portammo in rue des Trois Couleurs, una delle innumerevoli traverse di questa via, e ci inoltrammo quasi inavvertitamente in uno stretto budello architettonico semichiuso sopra di noi dalle traverse, sporgenti, proprie dell’edilizia araba, chiamato rue des Bassefonds. Dopo qualche passo nell’ombra gravida di fetori eterodossi ci fermammo dinanzi all’entrata di un locale che recava la scritta Bar des Bassefonds. Entrammo. Sotto uno strato denso e ondeggiante di fumo, in un’atmosfera irrespirabile composta di odori acri di alcool, nicotina, pesce fritto, scorgemmo un banco al quale si appoggiavano arabi e marinai. Ordinammo anche noi un’anisette, la bevanda ufficiale algerina. Serviva al banco un nano arabo vestito all’europea, in maniche di camicia, provvisto di due occhi neri mobilissimi. Ci porse i piattini della verdura drogata e ci chiese in tedesco: Trinken sie Bier?

Ci guardammo il biondo contabile milanese ed io e scoppiammo in una irrefrenabile risata. Il nano sondò la nostra nazionalità con un fuoco nutritissimo di domande in tutte le lingue.

Era un abissino e parlava l’italiano correntemente. Gli chiesi il suo nome: “Dio f…” un moccolo intercalare in dialetto piemontese: ed egli parlava il piemontese come un fruttivendolo di Porta Palazzo. Per festeggiare l’incontro il nano poliglotta ci offerse una nuova porzione di patatine fritte, scavalcò il banco con un salto agilissimo e, attraverso il fumo della sala, ci guidò ad ammirare attorno alle pareti le meraviglie del locale.

Tutti i locali del bassofondo algerino hanno le loro specialità decorative, ma quelle di questo bar clandestino sorpresero le nostre aspettative. All’angolo della porta d’entrata, al semplice tiro di una tendina rossa, si presentò ai nostri occhi uno scheletro di dimensioni regolari munito alle parti basse dello scroto di un membro enorme eretto contro il visitatore.

         Gli arabi ubbriachi che stavano al banco si avvicinarono a noi urlando e sghignazzando, dinoccolandosi in una danza oscena. Pensai a Saint-Saëns (qui, forse, avrà tratto ispirazione originale alla sua Danse Macabre, durante uno dei suoi prediletti soggiorni algerini?). I marinai si associarono agli arabi determinando un baccano infernale. Il nano ci saltellava dinanzi indicandoci le altre meraviglie del locale. Le pareti erano letteralmente tappezzate degli oggetti più strani: treccie di donne, gris-gris sudanesi, ferri di cavallo, ossa umane, due mascelle di leone incorniciavano la fotografia con dedica (autentica? mi parve) di Primo Carnera, biglietto di visita recante i nomi di personalità politiche e letterarie, quadri, armi, forcine e indumenti femminili… un emporio di chincaglierie provenienti dalle immondizie di tutte le latitudini contribuiva a rendere umoristicamente efficace il quadro d’insieme di questo antro della malavita coloniale. Ad un certo punto il nano trasse di sotto al banco due pupazzi abbinati su un gioco di pezzetti di legno che, funzionanti in senso inverso, determinava il cozzare di uno dei pupazzi contro l’altro che si piegava:

-         Voilà, messieurs, Mussolini qui frappe le ministre Herriot!

E la ridda degli arabi e dei marinai segnò il secondo inizio con una sganasciata interminabile fra il rovesciarsi di pipe e un tinnire di scodellini e di bicchieri.

         Uscimmo mentre la tregenda assumeva le caratteristiche di delirio alcolico perché il nano aveva tratto due organi genitali di pietra e con questi suonava a guisa di violino accompagnandosi  la canzone di Maurice Chevalier cantata in voce di falsetto: 

                                                        Paris je t’aime

                                                        je t’aime, je t’aime 

         No, la kasbah non è quella descritta nei racconti orientali di Pierre Loti. E nemmeno quella dei romanzi di Louis Berbrand. Lungo i muri viscidi che costeggiano le gradinate delle viuzze luride e tortuose, si incurvano i portali rabescati delle dimore e si rannicchiano le soglie  misteriose delle case malfamate. Se di giorno, attraverso le vetrate istoriate di qualche finestra dal davanzale meravigliosamente scolpito è possibile intravedere un interno di lussuoso arredamento arabo o il cortiletto d’un giardino moresco con le arcate violette e le colonne marmoree ambrate dal tempo, a notte inoltrata questo quartiere musulmano riprende il volto della città in cui raramente è ammesso il transito libero al passante europeo. Dalle bettole incassate ai margini esce un tanfo pesante di cuscus e di droghe sul cantilenare monocorde di bendir nascosti e, dalle cantonate, nella luce del fanale rosso infisso al muro d’angolo, il passo del vigile si ripercuote nei corridoi di questo intricato labirinto bieco e puzzolente.

         Il passo dell’arabo non è avvertibile nella notte, scivola felpato nei sandali di corda, si avvicina  con un fruscio di stoffa appena percettibile, sosta e dilegua rapidamente. Parecchie strade della casbah non son più larghe di quattro metri e sembrano fatte apposta per intrappolare il nottambulo europeo che intenda prendersi il gusto di riceversi mezza dozzina di coltellate nella schiena e di cedere il proprio portafoglio alla banca di Solimano… queste ed altre sciocchezze raccontano gli europei prudenti e bene informati che dimorano da lungo tempo ad Algeri. 

         Rue Barberousse è una fra le più interessanti strade della kasbah algerina. Nessuna strada  del Wite-chapel londinese, del barrio chino di Barcellona o del ghetto di Costantinopoli la può superare. Possiede l’esclusività assoluta dell’orrido internazionale.

         L’imbocco di rue Tomboctou, una cloaca puzzolente non più ampia di un metro e mezzo, scavata a gradini fra muraglie scalcinate ed erose dal salnitro, occlusa alla sommità dalle sporgenze  oblique sostenute da remme di legno alla maniera dell’edilizia araba, è sbarrato dalla polizia. Stanno perquisendo una casa. Un aitante poliziotto ci sbircia di sotto gli occhiali con uno sguardo tra l’ironico e il sospetto. Oltrepassiamo  ostentando un’aria disinvolta inoltrandoci a tastoni in un budello silenzioso dal quale dobbiamo ritornare,  quasi subito, perché è un vicolo chiuso. Ripassiamo davanti al poliziotto, questi ci ammonisce ruvidamente:

-         Messieurs, ne fijez-vous  pas de ces endroits! Retournez à la ville…

Un giornalista francese mi raccontava recentemente che uno di questi agenti della Sureté Géneral gli aveva detto di contare più delitti alla casbah di quanti capelli egli aveva in testa: ed era giovane e provvisto di una folta capigliatura.

         Camminiamo rasente i muri salendo lentamente le gradinate. In rue de la Sphinx il fetore diviene insopportabile: acre, acutissimo, nauseante. Mi tampono le narici con il fazzolettino di seta imbevuto di acqua di colonia. Il terreno è letteralmente attraversato da rigagnoli di orina e i due lati della viuzza sono sparsi di deiezioni. Mi appoggio ai muri per non scivolare. Ho come l’impressione di toccare il freddo viscidume del serpente. Questi muri algerini sono la notte letteralmente permeati dall’umidità. All’imbocco di rue Barberousse frugo con la mia lampadinetta sul muro d’angolo per verificare il nome della via. Abbiamo come l’impressione di esserci smarriti.

È una catapecchia diroccata con la caratteristica gradinata che adduce all’ingresso. Sulla tavola della porta una mano stampata e un pesce imbalsamato appeso ad un chiodo: in quella casa gli spiriti maligni non entrano, ma se vi sono già, vi rimangono.

Questa è la strada più malfamata della kasbah, ogni uscio d’entrata delle sue case è un lupanare di marca indigena e di stampigliatura esotica, non ce n’è una differente dalle altre: queste case sono più di settanta. Mentre passiamo sotto una finestra in luce mi sento improvvisamente afferrare al bavero del soprabito, immobilizzato da qualche cosa che mi stringe alla cintola e che mi striscia sui fianchi. Soffoco un grido atterrito: il gelo di una coltellata che mi scende alla spina dorsale, qualcosa di caldo che mi soffia sul volto:

-         Mon petit, oh là là! Il est vrai che tu vien avec moi ?

Apro gli occhi e mi trovo nella luce rossa di un lume tenuto alto, sulla soglia, da una vecchia araba mentre mi sta avviticchiata una giovane prostituta che mi implora in un marsigliese dissanguato da punture arabe.

Dapprima sommessa, poi, come tento di divincolarmi, omericamente mi sibila sapidissime frasi amorose.

         È magra e flessuosa come un piccolo rettile, mi si attorce alla vita e non c’è più modo di districarmi dalle sue unghie. Chiamo l’amico e, mentre questi sopraggiunge correndo, essa mi lascia con un rovescio d’invettive d’alto bordo pronunciatemi col dizionario d’argot alla mano, munito del corrispondente a fronte in cinque lingue.

         Fuga per i meandri tortuosi lasciandoci dietro uno sferragliare di porte, ondate sincopate di suoni e di vociare concitato minaccioso.

Sul piazzale rettangolare che si incontra all’estremità di rue Barberousse e di rue … determinando il promontorio più alto della kasbah arriviamo trafelati nelle braccia di una pattuglia di zuavi sudanesi che ci accolgono rumorosamente. Veduta meravigliosa della città illuminata sotto una rete di lucciole che ci vengono incontro impigliate dalle antenne dei velieri ancorati nel porto. Chiazze opaline, sul mare. Fosforescenze di miriadi di lapislazzuli sui flutti agitati nelle magiche interferenze lunari. Algeri notturna vista dalla sommità della kasbah, è uno splendido diadema scintillante di smeraldi nel fondo capovolto di un pozzo nero. 

         Quando discendiamo in via … incontriamo un gruppo di marinai brettoni ubbriachi i quali cantano allacciati non la canzone di Pierre Loti del Joli balenière, ma quella parigina di Maurice Chevalier: 

                                                        Paris je t’aime

                                                        je t’aime, je t’aime 

Procediamo nell’immondezzaio a decauville labirintico col colletto del soprabito rialzato, il berretto calcato, la sigaretta in bocca e una mano nella tasca, ostentando un aspetto di policiere. Il trucco riesce. Sguardo freddo e insistente. Ci soffermiamo e lasciamo oltrepassare gli individui che ci seguono e ci sbirciano con aria tra il sornione e il sospetto.

         Dietro il mercato della Lyre, i primi bancheruoli di assi e cavalletti cominciano a venir allestiti da torme di arabi e di europei disoccupati. Sono le tre del mattino. Nell’aria c’è odore di pescheria e le prime carrette riversano sotto la tettoia cesti di verdura e di commestibili.

Dalla moschea senza muezzin  esce dalle grate un salmodiare monocorde e strascicato che accompagna il nostro sbadiglio contro il radioso levar del sole. Ci laviamo ad una fontana specchiandoci negli occhi neri di una giovane moresca che attinge le gargoulettes, senza aver riportato  nemmeno quella  mezza dozzina di coltellate nella schiena che ci attendevamo da questa notturna avventura algerina. 

 

“ PLOTONE ALPINI INVITASI 

PER NATALE DEL SOLDATO “ 

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Un pranzo di Natale con 13 bambole 13 focacce 13 alpini 

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UN ATTO

e

DUE TEMPI

di 

LUIGI OLIVERO 

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P E R S O N E :

MARISA

IL NONNO

LA MAMMAIL PAPÀ

ADELINA cameriera 

UN CAPORALE  del 3° Alpini

 

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1°  t e m p o 

         Giovedì pomeriggio. Nonno e nipotina passeggiano insieme nei viali di un parco cittadino. 

         MARISA (nove anni, vispa, intelligentissima. Sopraggiunge trafelata vicino al NONNO) – Nonnino, nonnino! Quei ragazzacci che giocano ai pellerossa volevano farmi prigioniera!

         NONNO – E tu te le sei svignata appena appena in tempo, eh?

         MARISA – Sono sfuggita alla cattura saltando quella siepe. Ho persino scucito il grembiulino urtando nel ferro spinato… Guarda!

         NONNO – Ah, sacripante d’una marmocchietta! Lo hai strappato, altro che scucito!… Adesso, rincasando, sentirai la mamma!

         MARISA – Ma, nonnino, ero circondata dai feroci indiani Sioux che mi volevano scotennare. Se non saltavo la siepe, a quest’ora la “squaw” bianca sarebbe già legata al palo della tortura… E le sue treccine penderebbero dalla lancia del capo tribù!

         NONNO – Allora, non c’era altra via di scampo!

         MARISA – Si trattava di vita o di morte, nonnino!

         NONNO – E allora hai fatto bene a saltare la siepe.

         MARISA (piagnucolando furbescamente) – Ma… lo strappo al grembiulino, nonnetto?…

         NONNO – Beh, beh, adesso non ti emozionare. Ti giustificherò io con la mamma! Le dirò che si trattava di vita o di morte…

         MARISA (con uno slancio di gratitudine) – Sei proprio un caro nonnetto. E io, per ricompensarti, ti racconterò – ma, bada, in confidenza, eh! – ciò che stavano dicendo di te mammetta e papalino l’altro giorno conversando con gli zii di Genova.

         NONNO – Bene. Racconta. Così la smetterai di molestare gli indiani Sioux  e ti riposerai cinque minuti.

         MARISA – Sediamoci su questa panchina, nonnetto?

         NONNO – Sediamoci. 

Eseguiscono. 

         MARISA – Intanto dammi il tuo bastone. Mi servirà da fucile… Così… (punta il manico all’ascella) Pun! Pun! Per difenderti dagli indiani se mai venissero a circondarci per scucire anche te.

         NONNO – Non temere per me! La mia capigliatura pende ormai da anni alla lancia del Tempo, il più implacabile degli scotennatori…

         MARISA – Dunque, nonnetto. Metti in tasca il giornale e ascoltami…

         NONNO (piega il giornale e lo intasca) – Dimmi, passerina.

         MARISA – Come ti dicevo, ieri ho udito papà e mamma che parlavano di te con gli zii… Vorresti dirmi quali sono le bestialità che hai commesso nella tua vita e che ti hanno portato alla rovina?

         NONNO (ride bonariamente, divertitissimo) – Ah! Ah! Ah! Ti accontento subito. Ecco. Ho perso tutto il mio denaro in una lunga serie di speculazioni avventate…

         MARISA – La mamma diceva che sarebbe stato meglio per te e per gli altri se ti fossi accontentato di esercitare la tua professione di farmacista…

         NONNO – La mamma ha ragione, piccina. Se tutti gli uomini si accontentassero di esercitare ciascuno il proprio mestiere, il mondo andrebbe meglio. Ma la vita sarebbe monotona.

         MARISA – E allora, perchè la vita non sia monotona, si gioca alle speculazioni?

         NONNO – Certo. Si va in cerca di sensazioni sconosciute, che la nostra professione non offre quasi mai.

         MARISA – E così – come diceva lo zio – si va alla malora. È bello, nonnetto, andare alla malora? Come si fa?

         NONNO (ride) – È be… bellissimo!… Si vende la farmacia e si adoperano i soldi ricavati per pagare i debiti… I debiti contratti nella caduta della Società di cui si faceva parte.

         MARISA – Oh bella! Cos’è una Società, nonnino?

         NONNO – È un gruppo di persone che si accorda per combinare degli affari.

         MARISA – Quali affari combinava la tua Società?

         NONNO – Ho fatto parte di parecchie Società. Ti dirò solo le due più importanti, quelle che mi sono costate di più. Una era una Società per l’esercizio dei tram a cavalli: è fallita quando hanno inventato i tram elettrici.

         MARISA – E l’altra?

         NONNO – L’altra, che è anche l’ultima, trattava la compra–vendita di automobili. Si comprava un’automobile da un signore e la si vendeva ad un altro.

         MARISA – Così accontentavate due persone con un’automobile sola…

         NONNO – E noi ci guadagnavamo sul trapasso di proprietà…

         MARISA - …fin che, a furia di guadagni, la Società è scoppiata!

         NONNO – Proprio così… È scoppiata perché è venuta a scarseggiare la vendita…

         MARISA - … e la gente ha fatto a meno dell’automobile. Già! Allora tu non ne puoi niente, nonnino, se le Società ti sono sempre scoppiate…

         NONNO – Si capisce che non ne posso niente…

         MARISA – Allora papà e mamma hanno fatto bene a prenderti a casa nostra.

         NONNO – Certo. E io gliene sono grato. Tanto più che mi mantengono disinteressatamente… Senza nemmeno un pallido miraggio di eredità… (Ride) Non ho più un soldo!

         MARISA – E così non puoi nemmeno più divertirti a fare le Società, povero nonnino!

         NONNO – Per forza. Tuo papà è costretto persino a darmi gli spiccioli per comprarmi i sigari e il giornale!

         MARISA – Povero nonnino bello!… (Soprapensiero) Bisogna essere in molte persone per fare una Società?

         NONNO – Da due in su.

         MARISA – E come fanno per combinare gli affari?

         NONNO – Mettono insieme i loro capitali, poi indicono delle adunanze, nòminano un Presidente, un Segretario Generale e combinano gli affari…

         MARISA – Ma, allora, non potremmo fondare una Società noialtri due?

         NONNO – Senza quattrini? Non si può.

         MARISA – Ma io ne ho dei quattrini. Ogni volta che rientro dalla scuola con una nota di lode, papà mi dà una lira e mammetta mezza lira… Tu hai gli spiccioli dei sigari e del giornale. Se rinunciassimo, tu alle tue spese e io alle mie – cioccolatini e balocchi – potremmo fondare insieme una Società.

         NONNO – Per Bacco bitorzoluto! È un’idea!… Làsciami accendere il sigaro…

         MARISA – L’ultimo, eh! Da domani comincia la Società e non bisogna più spendere nei sigari.

         NONNO – D’accordo. Tu sarai la Presidentessa e io il Segretario Generale.

         MARISA – Ci riuniremo il giovedì e la domenica in camera tua…

         NONNO – Il mattino, quando la mamma è fuori per la spesa. Io ho sullo scrittoio la mia macchina da scrivere e la carta sulla quale metteremo il nome della Società…

         MARISA – Quale nome?

         NONNO – Mah… “La Società del Sorriso Universale” semplicemente.

         MARISA (con sussiego) – S…si!

         NONNO – La donna che viene al mattino per la pulizia dice spesso che nelle soffitte della nostra casa ci sono dei bambini che strillano sempre… E strillano perché i genitori non possono comprar loro i balocchi che essi vorrebbero.

         MARISA – Ho capito! (Con importanza) Dun-que! Noi faremo delle adunanze, esamineremo caso per caso e verremo incontro ai desideri di questi piccoli che strillano. Una volta accontentati tutti i bambini della nostra casa, penseremo qualche altra cosa… Che serva a diffondere sempre più il sorriso nell’Universo!

         NONNO – Benissimo. E ora, cara Presidentessa, avviamoci verso casa. Sono le quattro e mezzo e la mamma, a quest’ora, ci ha preparato la merenda.

         MARISA – E dopo merenda, caro Segretario, in camera tua a preparare la carta intestata… Vado soltanto a salutare gli indiani Sioux.

         NONNO – Salùtali da qui. Capirai, se ti catturassero… Una Presidentessa come te, ora sarebbe un ostaggio prezioso.

         MARISA – Hai ragione. (Con le mani a portavoce) Ohé! Caarloo! Giuulioo! Vado a casa a fare la Presidentessa! 

Voci lontane di bimbi che rispondono al saluto.  

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2°  t e m p o 

         Il giorno di Natale. In casa Pozzi, grandi preparativi in sala da pranzo. Andirivieni della cameriera, ordini della padrona. Rumore di stoviglie e di sedie accomodate. 

         MAMMA – Adelina, svelta, Adelina! Sono già le undici e mezzo. Tra poco rientrerà il nonno con la bambina: e tu sai quando loro sono in casa non si riesce più a far niente!

         ADELINA – Si, signora. Dispongo subito i vassoi degli antipasti, signora?

         MAMMA – No. Quelli aspetta a metterli in tavola. Li servirai dopo il vermut.

         PAPÀ  (sdraiato su una poltrona, col giornale aperto) – Perdinci che lusso! Si prende il vermut, oggi?

         MAMMA – Lo sai, Guido. È una vecchia abitudine del babbo. Quand’era farmacista, non rincasava mai, all’ora dei pasti, senza aver fatto una sosta al bar di sotto a prendere il vermut.

         PAPÀ – Poi, l’ultimo e definitivo rovescio di fortuna gli ha tolto anche quest’abitudine…

         MAMMA . …che, di quando in quando, però, gli fa piacere rinnovare…

Adelina, i fiori di vischio al posto del babbo e le mimose davanti al piatto della bambina.

         ADELINA – Subito, signora.

         PAPÀ – Ma sai che il babbo mi sembra un po’ invecchiato, durante queste ultime settimane? Non fuma quasi più! Trascura la compagnia del suo eterno sigaro con la paglia…

         MAMMA – Meglio. Così ottiene due vantaggi: si disintossica e non buca più le lenzuola addormentandosi con il sigaro acceso fra le labbra…

         PAPÀ – Non legge più il giornale! Trascorre delle lunghe ore in camera sua a sorvegliare i còmpiti della bambina!…

         MAMMA – Ah, questa… questa… per esempio (ride) è una nuova trovata di Marisa. Figurati che hanno fondato insieme una Società.

         PAPÀ – Ci siamo! Ecco che cominciano a svegliarsi le tendenze ataviche nella marmocchia! Le manìe autolesioniste di tuo padre…

         MAMMA – Non è il caso di inquietarsi, Guido. Per far piacere alla bambina, il babbo ha accettato di diventare il Segretario Generale di una “Società del Sorriso Universale” che hanno fondato in comune… Sai, mettendo insieme i loro risparmi e regalando dei giocattoli ai bambini dei poveri…

         PAPÀ – Perdinci, che invenzione! La Società del Sorriso Universale! Ah! Ah! Ah!

         MAMMA – Tu vedi come la bambina, da qualche tempo, stia diventando più importante, più donnina, più riflessiva. Sta acquistando una personalità! Pensa un po’: distribuisce dei doni che servono a diffondere il sorriso nel mondo!

         PAPÀ – Anzi, nell’universo, devi dire! E, per aiutarla a raggiungere questo scopo altamente umanitario, il nonno non legge più… non fuma più…

         MAMMA - …e Marisa non fa più indigestione di dolciumi.

         PAPÀ – Ecco finalmente una Società seria nella vita di tuo padre! Sai, per premiarlo, sono tentato di offrirgli oggi stesso la scatola di “puros” che gli volevamo mettere stasera sul comodino come dono di Natale… E alla bambina voglio proporre l’acquisto di venti azioni della sua Soc… 

Campanello alla porta d’ingresso. 

         MAMMA – Zitto. Sono qui che rientrano!

         ADELINA – Signora, c’è alla porta un fattorino dei Grandi Magazzini accompagnato da due uomini…

        PAPÀ – Cosa vogliono?

        ADELINA – Hanno portato una grande cassa. Il fattorino dice che c’è da firmare questo rimesso.

         MAMMA – Ma io non ho fatto nessuna ordinazione ai Grandi Magazzini!

         PAPÀ – Fa vedere. Oh… ppperdinci! Tredici bambole parlanti?

         MAMMA – Ma chi ha ordinato tredici bambole?

         PAPÀ – Tua figlia. Leggi l’intestazione del rimesso: “Signorina Marisa Pozzi, Presidentessa della Società del Sorriso Universale”. Non c’è equivoco. Tredici bambole parlanti, lire duecentosessanta…

         MAMMA – Beh, questa è grossa davvero! Che facciamo, Guido?

         PAPÀ – E che vuoi fare!? Firma, paga e ritira la merce. Tua figlia… - scusa - la Signorina Presidentessa oggi vorrà iscrivere sorrisi di più all’attivo della sua Società.

         MAMMA – Gesummaria! Mio padre non si smentisce. Anche con la bambina doveva allearsi per seguitare a combinare dei guai… Adelina! Adelina, eccoti le duecentosessanta lire. Paga e ritira la cassa.

         ADELINA – Si, signora… Signora, in questo momento è pure venuto il garzone pasticcere con quest’altro rimesso e una grande cesta.

         MAMMA – Il pasticcere? Ma cosa vuole? Il pasticcere?! Le ho già acquistate io, le paste per oggi!… Ah, senti, leggi tu questo rimesso, Guido!

         PAPÀ – Tredici focacce!

         MAMMA – Ma chi ha ordinato tredici focacce?

         ADELINA – Il garzone pasticcere dice che le hanno ordinate il signor nonno e la signorina, un’ora fa…

         PAPÀ – E va ‘mbé! Altri tredici sorrisi di più al mondo grazie alle focacce. Ciò che non capisco è come mai quei due si siano fissati sul numero tredici!… Adelina, prendi, Adelina, paga e ritira le focacce…

         MAMMA – Temo che, stavolta, papà sia impazzito per davvero…

         PAPÀ – Pazienza papà, che è anziano, ma la bambina… 

Nuova scampanellata alla porta d’ingresso. 

         MAMMA – O Dio, Guido! Di nuovo il campanello alla porta d’ingresso…

         PAPÀ – Non sarà mica qualche altra sorpresa natalizia…

         MARISA (tutta fresca e giuliva) – Buongiorno, papalino e mammetta! Siamo noi, la Presidentessa e il Segretario Generale della Soc… Sono arrivate le bambole e le focacce?

         MAMMA – Ma, dico io, sei ammattita, bambina? E tu, papà…

         NONNO - Io gliel’ho detto, alla Presidentessa, che le spese avrebbero superato la disponibilità del capitale versato…

         MARISA – Si, ma io avevo le mie buone ragioni per provvedere ugualmente agli acquisti. D’altra parte, oggi è Natale e papalino bello mi deve acquistare mille azioni della Società…

         PAPÀ – Mille!

         MAMMA – Insomma, non roviniamo la festa. Riparleremo domani di questa vostra Società! Adelina, servi il vermut.

         MARISA – Ma la festa vera non è nemmeno incominciata!

         PAPÀ – Per il mio portafoglio direi di si.

         MARISA – Non temere, papalino: Tutto quanto hai dovuto sborsare in più delle tue mille azioni, la Società te lo rimborserà progressivamente a cinque lire settimanali. Vero, signor Segretario?

         NONNO – Sicuro, signorina Presidentessa… Buono, squisito, questo vermut! Rimborseremo a contabilità scalare, scrupolosamente.

         MARISA – Intanto, papalino e mammetta, preparatevi gli animi a una nuova sorpresa. Fra poco…

         PAPÀ e MAMMA (allarmati) – Fra poco… 

Trillo energico del campanello. 

         MARISA (come elettrizzata) – Scusate. Vado io, vado io ad aprire! (Via).

         ADELINA – Signora, signora, c’è sul pianerottolo e lungo le scale un plotone di alpini…

         MAMMA – Un plotone di alpini?!!! Ma viene da noi?

         ADELINA – Si, signora! (Con malcelato compiacimento) E c’è anche un bel caporale!

Tutti si alzano. 

         PAPÀ – Ma che succede ancora, oggi?

         MARISA (rientra piroettando dalla gioia) – Papalino, mammetta, venite a ricevere i dodici soldatini più un caporale che ho invitato a trascorrere il Natale con noi! Hanno tutti la piuma sul cappello, come quelli della canzone che canta sempre papà!

         CAPORALE – Permesso? Io sono il caporale Griva. Al Comando è pervenuto questo telegramma d’invito in massa per il Natale del Soldato. Sono venuto con i miei uomini che vi ringraziano… Sono li fuori che aspettano un vostro cenno per entrare.

         PAPÀ – Permettete, caporale, avete con voi il telegramma?

         CAPORALE – Signorsì, eccolo. (Porge)

         PAPÀ (Legge ad alta voce) – “Plotone alpini invitasi per festeggiar Natale del Soldato – Marisa Pozzi, Presidentessa della Società del Sorriso Universale”.

         MAMMA – Gesummio! Ma adesso come faremo ad accogliere come si deve – così senza preavviso – tante persone?

         PAPÀ (improvvisamente preso dall’allegria) – Non ti preoccupare, Amelia! Ci aggiusteremo! Sono proprio contento! Un plotone del terzo Alpini! E Guido Pozzi, capitano del terzo Alpini, non dovrebbe essere felice di questa sorpresa combinatagli da quella deliziosa pazzerella di sua figlia?

         MAMMA – Ma il cibo per tutti, Guido!

         PAPÀ – Non t’inquietare, telefono subito io alla rosticceria.

         MARISA – Già fatto, papà. Non ti disturbare! Fra cinque minuti,a mezzogiorno in punto, arriverà il cibo per tutti. Ho già ordinato io stamattina.

         MAMMA – E chi ha pagato?

MARISA – Pagherà papà! Non ha detto ieri che a dicembre ritirerà lo stipendio doppio? A cosa servono due stipendi in una volta, quando gli altri mesi si faceva tutto benissimo con uno stipendio solo?

         PAPÀ – Vieni fra le mie braccia, passerina. Hai ragione, oggi voglio proprio largheggiare! Ma dimmi: come ti è venuta in mente questa eccellente idea del Natale del Soldato?

         MARISA – Ho visto nei giornali una proposta. (Come leggendo) “Le famiglie che a Natale non hanno tanti parenti, dovrebbero invitare almeno un soldato alla loro tavola…”.

         NONNO – Noi, parenti non ne avevamo, oggi!

         PAPÀ – E allora la nostra Presidentessa ha invitato un plotone di alpini. Ed è veramente il più bel regalo di Natale che potevi farmi. Evviva!

         MAMMA – Ma le bambole, per chi le hai ordinate, quelle bambole?

         MARISA – Per i soldati.

         CAPORALE – Bambole per noi?

         MARISA – Sicuro! Tutti i soldati hanno certamente, a casa loro, una mamma, una fidanzata, una sposa o una bambina! Non potendola avere vicino in carne ed ossa, oggi se la stringeranno sul cuore almeno sotto l’aspetto di una bambola! Di una bambola che offrirò loro, dopo la focaccia…

         MAMMA – Sei proprio una cara bambina!

         PAPÀ – Oggi mi sento ringiovanito di venticinque anni. Mi sembra di ritornare fra i miei alpini del Carso, del Tonale…

         MAMMA – Ma, a quei tempi, avrai almeno avuto lo spazio per brindare con i tuoi soldati! Oggi, come faremo ad accomodarli tutti in una sala da pranzo così esigua?

         CAPORALE . Ci arrangeremo, signora!

         NONNO – Una parte potrà accomodarsi in camera mia…

         MARISA – Un’altra parte nella mia…

         ADELINA – Il signor Caporale, se vorrà venire in cucina, mi terrà compagnia!…

         CAPORALE – Côntacc, sicuro che vengo con voi, bella matòta!

         PAPÀ – E allora fateli entrare tutti! 

Tramestio di scarponi chiodati. 

         PAPÀ - Il vermut è servito. Leviamo il bicchiere, ragazzi! Evviva il terzo Alpini!

         TUTTI – Evviva!

         CAPORALE – Evviva la Presidentessa del Sorriso Universale!

         TUTTI – Evviva!

         MARISA – Evviva le bestialità finanziarie del nonnino, che mi hanno suggerito l’idea della Società del Sorriso Universale: unica vera, grande e divertente Società Anonima che esista in tutto il mondo!

         TUTTI – Evviva le bestialità del nonnino! 

Toccano i bicchieri e prendono posto con un allegro vociare.  

LUIGI   O L I V E R O  

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Nota al testo La commedia  sopra riportata proviene da un dattiloscritto di Luigi Olivero in copia su carta velina. Oggi appartiene alla raccolta Silvio Bonino, Margarita (CN), che qui ringrazio per avermelo messo a disposizione. Il dattiloscritto contiene numerose correzioni, tagli ed aggiunte, il tutto autografo.

La commedia era prevista per trasmissioni radiofoniche. Non ho potuto, ad oggi, accertarne l'effettiva trasmissione.

 

S  A  N  Z  I  O  N  E  I  D  E

 

         Nello studio della City londinese, un ricchissimo speculatore ha un colloquio  burrascoso con la figlia. Essa è un curioso esemplare della forma muliebre, scaturito da un incrocio giovanile dell’industriale inglese con un’arroventata cubana. La fanciulla si è innamorata, al cinematografo, di De Sica e vuole a tutti i costi che il padre l’accompagni in Italia a rintracciare il divo dello schermo nazionale. Il padre, dapprima si oppone avvertendo la figlia che le sanzioni applicate contro l’Italia impediscono a ogni perfetto cittadino britannico tanto l’esportazione di merci britanniche quanto l’importazione di prodotti italiani; ma poi finisce per cedere al capriccio della ragazza e parte insieme con lei e la sorella per la nostra penisola. 

         Durante il viaggio, nella sosta parigina, nel tabarino delle Folies Bergère, il padre presenta la ragazza a Maurice Chevalier esortandola a preferire il celebre chansonnier francese all’attore  italiano. Ma ella persiste nel suo capriccio e il padre, benevolo, prosegue il viaggio per accontentarla. 

         Sulla spiaggia di San Remo vi sono molti attori e attrici italiani. Il padre, per disincantare la figlia, organizza e le presenta una strana macelleria dei nostri divi: la Merlini con il corpo di Emma Grammatica, Tatiana Paolova con il corpo di Kiki Palmer, Cialente con la testa di Gigi Almirante, Marta Abba con quella di Pirandello, ecc. La fanciulla si diverte ma non crede alla visione e 

         a Napoli, su una terrazza a notte, sul Vomero, ode dalla voce viva di De Sica le canzoni che lo hanno reso celebre ed ella piange d’amore e di languidissima volontà di dedizione.

Ma un pescatore l’ammonisce dicendole che in Italia, oggi, si ha ben poco tempo da dedicare al sentimentalismo: nel suo racconto sfilano davanti a lei i campioni dello sport, dell’industria, della politica e, in ultimo, un quadro del sacrificio del soldato italiano in opposizione con la pletorica verbosità denigratoria dei ballisti stipendiati dalla stampa sanzionista. 

         La fanciulla comprende la sua povertà spirituale di fronte a tanto fervore di umanità laboriosa, e, per accostarsi, se non conseguire immediatamente, il suo sogno d’amore, propone al padre di acquistare insieme la cittadinanza italiana e di ripudiare per sempre le assurde nebulosità delle ideologie nordiche. Il padre e la madre, anch’essi convinti, aderiscono entusiasticamente donando tutto il loro oro alla nostra Patria: pur di vedere la loro figlia appagata e di vivere con lei nel paese del sole. 

         In un finalissimo primaverile, la voce di De Sica commenta un balletto di viole mammole e promette alla fanciulla l’amore più profumato di sospiri e più inghirlandato di baci appassionati.

                                                                                              5 quadri

Nota al testo L'abbozzo di commedia  sopra riportato proviene da un dattiloscritto di Luigi Olivero in copia su carta velina. Oggi appartiene alla raccolta Silvio Bonino, Margarita (CN), che qui ringrazio per avermelo messo a disposizione.

Aggiungo due canzoni scritte da Luigi Olivero per la stessa commedia.

 

Luigi Olivero

Luigi Olivero

 

 

 Ël Tòr

Ël Tòr N° 18 1946

 

                                                     A Siviglia il gallo canta  

                            Giovedì 26 gennaio 

          Mezzogiorno. Siviglia, come per incanto, tutta sventola di bandiere rosso-gialle. 

         Dia del plato único. Ma oggi i sivigliani sentono di poter fare a meno anche del pasto frugale che la legge della resistenza economica, voluta dalla popolazione stessa in favore di una maggiore assistenza dei combattenti, consentirebbe loro di consumare.

          Dalle 13 alle 14, ora della colazione, una folla imponente si riversa nelle strade, si agglomera nelle piazze scandendo il nome di Franco sull’urlo delle sirene, innalza i vessilli nel tiepido sole che occhieggia di tratto in tratto  nella pausa di una pioggerellina primaverile che increspa l’aria di impercettibili ragnatele d’argento oscillanti lievemente. 

         Barcellona è caduta! Le truppe franchiste sono entrate vittoriose nella capitale catalana! La guerra va por acabarse muy pronto! 

         Il Barrio, il caratteristico quartiere popolare di Siviglia, artistico labirinto di viuzze, patios, vicoli, portali, androni di stato arabo moresco, misterioso e attraente, formicola di passanti, scoppietta di bromas e di buio, violaceo e luminoso come un largo fiore … 

         La Piazza della Falange, situata nel centro vivo della città, è trasformata in un cuore palpitante di giovinezza che grida il proprio entusiasmo. Combatte le espressioni che la passione guerriera ha coniato per le nuove città della Nazione. 

         Sugli autobus, sulle tramvie, sui tassì si elevano grandi ritratti a colori del Caudillo e del nostro Duce. Sulle facciate degli edifici lo stemma dell’Aquila nera della Nuova Spagna si esibisce scortato dal Fascio Littorio e dalla Croce Uncinata. 

         Il traffico s’ingorga, ribolle, si arresta. 

         Sulla vasta moltitudine inneggiante due suoni vasti, solenni, gloriosi si fondono nel cielo di Siviglia: il suono delle Campane della Cattedrale e il rombo dei motori degli aerei che solcano il cielo a bassa quota. Sono le due voci della civiltà contemporanea che insieme recano al popolo il messaggio della vittoria. 

           Ma la vìspera de vitoria, la vigilia della prossima totale liberazione della Spagna, si manifesta fra i sivigliani, popolo facile alla… incline allo scherzo pacatamente ottimista con dei frizzi colorati di una gaia vanità intellettuale e conditi di uno squisito profumo di ghiottoneria andalusa. 

         En Barcelona el tamburo batiente està preparando la mas grande demostracion para   la vitoria final! 

Di Negrin, di Marthy di tutti los cochinos con la cara roja, cosa se ne faranno  Francia e Russia? Bistecche di porco per nutrire la loro disfatta.

          In piazza dell’Ayuntamiento folla enorme. 

         I mutilati, gli invalidi, nelle loro divise kaki, sono i più lieti, i più esultanti. Le garze candide che fasciano le loro ferite guizzano nel caleidoscopio multicolore della folla, come farfalle bianche impazzite di gioia. Si direbbe che un miracolo improvviso abbia guarito le membra ferite, cancellato il dolore fisico in questi ragazzoni che hanno dato il loro sangue per la rigenerazione di un paese che ora vedono con il volto che gli sognavano. 

           Tutte le rose  di Siviglia sono nei capelli delle fanciulle. 

         Soldati, studenti passano correndo vicino ad esse, le invitano ad aggiungersi ai loro cortei lanciando loro dei pirópos scintillanti di un’ingenuità poetica deliziosa: 

         Morena, como eres guapa hoy! Ven con nosotros, luz de mi alma. 

         E le ragazze accorrono a frotte gridando: 

- Arriba España!  

 tenendosi per mano l’una all’altro e formando una catena intrecciata di chiome e di fiori. 

         Un grande mutilato passa s’un carrettino trainato da giovani falangisti. Brandisce le stampelle. A un certo punto si mette a saltare sostenendosi alle due ali del carretto. L’entusiasmo gli fa dimenticare la sua infermità. È una scena che strappa le lacrime. 

         Un altro passa nella sua carrozzella con un codazzo di reguités che lo spinge avanti velocemente. Intona una canzone di guerra con una voce fioca di malato che a poco a poco si irrobustisce, si rafforza, diventa canto fermo e virile. E di colpo interrompe la canzone e attacca le note della cucaracha che la folla riprende, fa sua, e il canto si allarga. 

         In Plaza de la Campana nella grande sala del Café de Rome affollatissima di avventori, di colpo un uomo si alza dalla sua sedia, sale sul tavolino, grida alla folla: 

- Io sono Catalano. I rossi mi hanno fucilato padre, madre, due fratelli e una sorella. Ma la mia Cataluña oggi è di nuovo spagnola. Arriba Cataluña , arriba España! 

         E la folla prorompe, braccia in alto, nel grido tipico pronunciato nella caratteristica inflessione Andalusa che dimentica tutte le esse della sibillantissima lingua spagnola: 

- Arriba Eeepagna! 

         Dalle vetrate si vede approssimarsi un gruppo di falangisti con la bandiera nera spiegata su cui spiccano le frecce d’argento della F. E.  Il gruppo si ferma davanti al locale, si infittisce di giovani. Gridano tutti in coro: 

         - Un, dos, tre 

         que abandone  el café! 

         E gli avventori lasciano tutti il caffè. Tutti i locali vicini si svuotano La folla ora rigurgita nelle piazze, si accalca nelle vie, si agglutina, straripa, diventa una fiumana di umanità esaltata in preda al giubilo più incontenibile. 

         Mai Siviglia è stata così mareggiante di folla eccitata di successo. 

         Dalla Calle Martén Villa, scende la banda musicale dei legionari. Reca in testa un grande cartellone: vicino al ritratto di Franco emergente dai colori spagnoli c’è il largo sorriso del Duce che sboccia sul tricolore. Dietro il cartellone, la grande scritta “Arriba España, Viva l’Italia!” 

         La moltitudine saluta, brazo in alto. 

         Il corteo si ferma. La musica tace. Le braccia rimangono tese. 

         Un minuto di silenzio dedicato ai Legionari caduti. 

         Alcuni autocarri camuffati irrompono in Plaza del Onque del la Vitoria. Ogni camion porta un carro armato di fabbricazione russa, conquistato ai rossi. Intorno alla torretta di ogni carro armato, spiccano grandi scritte in gesso che danno il luogo e la data del bottino di guerra. La folla applaude freneticamente. Anche i marocchini vogliono la loro parte di esultanza. Sfilano raggruppati intorno al vecchio colossal portabandiera, fanno fantasia battendo le mani e saltellando agilmente al canto di una loro canzone. 

         E un tramonto di porpora scende come una immensa bandiera spagnola listato di rosso e di arancione sulla città che si illumina di lampioncini gialli come le prime stelle e rossi come gli aranci che cingono Plaza Nueva.

            Dall’aeroplano la città acquista a quest’ora un aspetto fiabesco. Il Guadalquivir è un velo da sposa che rabbrividisce sul capo della città. I monumenti, gli edifici, coronati di luci, sembrano divinità di un paradiso emergente da un sogno moresco. 

         E tra quelle luci si scorge un fluttuare opaco, compatto, un ondeggiare di chiazze nere appare sulle grandi terrazze rischiarate come vie lattee terrestri nell’astronomia elettrica della città sottostante. 

         È la moltitudine che cresce, che arriverà nella notte, a ostruire ogni via del centro e dei quartieri minori, senza possibilità di argini urbani, senza più disciplina di regolamenti. È la folla esuberante di Spagna che in queste ore di entusiasmo indescrivibile dimentica i sacrifici e le privazioni di due anni e mezzo di guerra e getta in aria fazzoletti, cappelli e sigarette e fiori gridando che il caos è terminato e che la Spagna sta per essere definitivamente “Una, grande, libre”. 

           Alle quattro del mattino, tutti i galli dei patios  di Siviglia, che iniziano la loro prima cantata tutte le notti alle ventiquattro precise, si prendono la rivincita di essere rimasti sommersi a quell’ora dal canto possente della folla. Attaccano tutti in coro una loro indiavolata canzone mattutina che sa di palme ancora bagnate di luna, di vino Andaluso ben digerito, e di vittoria sicura incontrastabile nelle prossime giornate. 

 

 

“LA VITOREADA NACIONAL”

 

La Spagna è finalmente Una, grande, libre! 

         Un’immensa vitoreada di giubilo, un grido vastissimo di vittoria, risuona ininterrottamente da tre giorni nella penisola iberica. Un’esultanza vicinissima al delirio invade le città, si estende sino ai pueblos più lontani di provincia, penetra in tutte le case: anche in quelle case più modeste e più povere nelle quali, in questi ultimi giorni, si ascoltava febbrilmente la piccola imperfettissima radio a tutte le ore del giorno e della notte aspettando el parle, il bollettino di guerra, che recava i particolari dell’avanzata nel settore di Madrid, nel settore di Valencia elencando di volta in volta i nomi di tutti i centri occupati. 

         Innumerevoli cortei sfilano  per le vie delle città imbandierate, pavesate, infiorate. Tutti gli inni della guerra s’alzano al cielo. Quel cielo azzurrissimo di Spagna che di questi giorni sembra un’unica immensa cupola di oratorio vibrante di una sola onda musicale di entusiasmo. 

         Sono passato in automobile attraverso cinque  grandi città: San Sebastian, Vitoria, Burgos, Valladolid, Salamanca. Dalla città della “spiaggia dei milionari” alla città degli studi “lastricata di parole”, come la definì un nostro giovane poeta, ho visto nelle ore più diverse fiumane di popolo riversarsi nei rettilinei paseos, invadere le ampie plazas mayores (ogni città di Spagna ha il suo paseo e la sua plaza mayor come ogni nostra città ha la sua Via Roma e la sua Piazza Vittorio Emanuele), dappertutto ho visto i colori della vittoria fasciare le case fino all’inverosimile: fino a mutare la fisionomia edilizia  delle città e a renderle simili a dei giganteschi altari patriottici paludati di rosso-arancio, tappezzati di fiori e, a notte, iridati di luci multicolori. 

         Tutti gli strumenti dell’incontenibile gioconda tradizione spagnola sono stati mobilitati. Cuori di chitarre con le loro arterie ancora sonore si levano sulla folla oscillando, tamburelli andalusi vengono agitati in alto con uno sfavillio di sonagli tintinnanti, mani di donna si tendono nell’aria, il dorso legato di nastri colorati, ondeggiano le dita frementi nella grandinata ritmica delle nacchere. 

         Girotondi di giovani  flechas, i balilla spagnoli. 

         Rondas  di falangisti. In mezzo a questi circoli di gioventù esultante vengono ballati tutti i balli spagnoli, dalla gaita allega alla jota aragonesa, dal colìs madrileño alla sardana catalana. 

         È la gioia spagnola che prorompe, senza limiti, senza confini, senza restrizioni. 

         Sono tre anni di guerra che vengono chiusi in un sarcofago di fiori e seppelliti nel cimitero della Storia, con un funerale di allegria in cui tutte le lodi del sacrificio vengono cantate e tutti i dolori vengono dimenticati.

 

 

UNA NOTTE DI CARNEVALE VENEZIANO 

Una beffa del tempo di Casanova

  Personaggi 

Florinda

Lindoro

Zanetto

Nannetta

Arlecchino

Mefistofele

Mascherina

Inquisitore 

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Una saletta del settecento veneziano: Un carillon suona le ore undici: Tutti gli interpreti parlano con cadenza tipicamente veneziana.

 

FLO – Nannetta, toseta mia, tu non conosci gli uomini…

NAN – Marchesa, parona mia, mi pare che non ci sia niente di male a far l’amore con un giovinetto…

FLO – L’amore, l’amore… pur che non vada troppo in là… M’hanno detto che sei stata vista di sera, abbracciata, nelle calli buie della Giudecca… Hai sedici anni, Nannetta, e sei al mio servizio…

NAN (risentita) – Marchesa, io non so cosa possiate dire di me… Mi son una putela onesta! Se mi piace dar qualche baso al mio gondolier, questo è molto meno peccato di quello che fate voi!

FLO – Di quello che faccio io!… Ehi, Nannetta! Ho ventotto anni e mi diverto… Posseggo una corona da marchesa, ma preferisco portare nella mia chioma il tricorno di velluto… che durante i balli fa tanto piacere tirare in testa a un suonatore di mandola. Sono una donna patrizia, sola erede di una grande famiglia, e mi piace vivere come una cortigiana… È questo che vuoi rimproverarmi, Nannetta?

NAN – Parona, no. Non volevo offendervi. Volevo soltanto dire che se voi vi divertite, anch’io ho diritto…

FLO – Tu hai il dovere di non seguire il mio esempio. Se io folleggio in tutte le feste, in tutti i conviti, in tutti i veglioni di Venezia posso avere un mio grnde motivo.

NAN – Il motivo di fare all’amore, come faso mi, ciò!

FLO – Ascolta, Nannetta, putela mia. Tu sei molto bella e giovine e cominci appena ora ad amare gli uomini. Ti lasci andare con l’entusiasmo della gioventù. Sei una gondoletta nuova che vuol staccare la catena della morale per avventurarsi sola e libera sulla laguna… Anch’io…

NAN – Marchesa mia, ve cae una lacrima dagli oci? O Vergine Santa!

FLO – Anch’io sono stata una gondoletta capricciosa come te. Non ho voluto ascoltare i miei parenti. E ho rotto la catena della morale per avventurarmi sulla laguna in cerca del mio bel gondoliere…

NAN – E l’avete trovato, Marchesa?

FLO – Quando si è troppo giovani si ha troppo sete di bere alla fonte della gioia. E quando la fonte è prosciugata…

NAN – Vi ha abbandonato, Marchesa?

FLO – L’ho trovato e riperduto in pochi mesi di follia. Sono rimasta sola a vent’anni, bella, ripudiata dai parenti, con un palazzo sul canale e molti ducti di rendita, ma con il cuore arido… abitato soltanto dal desiderio di vendicarsi degli uomini, di tutti gli uomini…

NAN – Poareti li omini! Mica tutti mi sembrano cattivi. Perché odiarli tanto!

FLO – Non li odio, Nannetta. Desidero soltanto punirli del tradimento che hanno inflitto a me e  tante altre donne. Desidero vendicarmi facendoli soffrire, facendoli infinitamente soffrire…

NAN – In che modo, Marchesa?

FLO – Adoperando la mia bellezza come uno specchietto per attirarli nelle feste e nei balli che frequento, per poi colpirli con l’arma più feroce e implacabile che esista.

NAN – Quale…

FLO – L’arma del ridicolo. Innamorare gli uomini e coprirli di ridicolo. Promettersi con le lusinghe più blande e soavi per frli cadere nel trabocchetto vellutato ed esilarante della beffa…

NAN – E cadendo con loro?

FLO – Ah! Ah! Ah! Nannetta, consèrvati pura, e impara dalla tua padrona la voluttà del riso, superiore a tutte le voluttà della carne.

NAN – Ma io non so beffare gli uomini, Marchesa…

 

                                                                  Sciabordare d’acqua contro la

                                                                  scalinata del palazzo.

 

FLO (alla finestra) – Putela mia. El sior Lindoro ha accostato in questo momento la sua gondola dorata ai nostri gradini.

NAN – Vado ad aprirgli?

FLO – Vai ad aprirgli. E poi ascolta i nostri discorsi: imparerai quanto sia bello beffre gli uomini innamorati…

 

                                                                  Colpi di battaglio alla porta

                                                                  Sottostante. 

NAN – Vado, padrona!

FLO – Si.

 

                                                                  Si accosta alla spinetta e suona

                                                                  “La biondina in gondoleta”. 

NAN (annunciando) – Marchesa, el sior Lindoro!

FLO (voltandosi dalla spinetta, civettuola) – Oh! El sior Lindoro, il gentile sior Lindoro a casa mia alle undici del mattino…

LIND (maturo, un po’ balbuziente, ma sanguigno e robusto) – Ma… Marchesa Florinda, son passato sulla mia gondola davanti al vostro palazzo e mi sono permesso…

FLO – Di venire amabilmente a chiedere notizie di me… Va pure, Nannetta!

LIND – Stanotte alla festa in casa Zaguri siete stata così adorabile… Avete ballato il minuetto con tanta grazia… siete un folletto birichino e io vi…

FLO – Voi mi adorate, sior Lindoro… Lo so. Me lo avete detto anche all’alba riaccompagnandomi a casa…

LIND – E ve l’ho ripetuto in sogno cento volte durante i pochi minuti in cui Morfeo mi ha chiuso le palpebre.

FLO – Mi avete vista nella vostra fantasia con le sembianze di una creatura di mastro Tiziano, lo so. Peccato che mi rivediate ora, appena alzata e ancora con l’acconciatura in disordine… È per voi una delusione, vero sior Lindoro?

LIND – Oh, Florinda, io vi amo e voi mi amate…

FLO – Le donne devono sempre nascondere il loro amore dietro le piume del loro ventaglio… Ma davanti a un uomo dal fascino vostro, sior Lindoro, io abbasso il mio ventaglio…

LIND – Sublime angiolo mio… allora mi amate?

FLO (risata cristallina).

LIND – Per il leone di San Marco. Voi mi ringiovanite di trent’anni… La mia umile mano vi può dare una carezza? (Ne fa il gesto).

FLO (con un moto di falsa collera) – Oh, il satiro biforcuto!

LIND (piagnucolante) – Vedete. Si direbbe che vi ispiro ribrezzo!

FLO (insinuante) – Gentile amico mio, provo invece per voi una dolce simpatia… (volutamente smarrita) Ma… così sola… Così…

LIND – Datemene dunque una prova, o mia divina!

FLO – Volentieri. Rendetevi questa sera al veglione di Carnevale a palazzo Dàndolo!

LIND – Voi verrete?

FLO – Ve lo prometto…

LIND – Mascherati entrambi.

FLO – Mascherati. Trovatevi a mezzanotte nel corridoio della loggia ducale. È là che noi c’incontreremo…

LIND – Vestirò il costume che vorrete…

FLO – Oh! Indossate… Indossate un domino nero, piuttosto ampio, bautta che ricopra interamente il vostro volto, tricorno e guanti di pizzo bianco alle mani. Siete della mia statura. Vi riconoscerò tra la folla. Io indosserò un costume uguale al vostro.

LIND – Ma come potremo riconoscerci in mezzo alla folla dei domini neri?

FLO – Voi mi riconoscerete da un mazzo di gelsomini che porterò puntato alla sinistra del petto. Senza proferir motto, voi non avrete che da toccarmi un braccio e io vi seguirò.

LIND – Dunque… Voi verrete a cenare con me?

FLO – Verrò.

LIND – Oh! Andremo nei pressi di Piazza San Marco alla taverna d’Arcadia tra i musici pastori?

FLO – Vi seguirò a breve distanza, senza proferir motto.

LIND – Oh, gioia di Carnevale! … Florinda vi ringrazio e mi diprto da voi con la luce nel cuore!

FLO – Sior, Lindoro, bondì. Non dimenticate il domino nero… Nannetta!

NAN – Vi accompagno alla porta, sior Lindoro…

FLO (risata cristallina)… 

                                                                  Via. 

                                                                  Qualcosa di soffice picchia contro

                                                                  la vetrata che dà sulla calle. 

FLO (si volta incuriosita) – Oh, una rosa è caduta sul mio davanzale?! Quale dolce saluto invernale è questo?

NAN – Marchesa mia, giù in calle San Moisé, c’é il bel Zanetto, lo studentino in lettere… L’ho visto lanciare una rosa alla vostra finestra mentre aprivo al sior Lindoro!

FLO – Oh, l’amabile giovine!

NAN – Socchiudo i vetri, Marchesa? (Eseguisce) Oh, la bella rosa d’inverno!… Il giovine mi fa segno di chiamarvi, Marchesa…

FLO – Mi sporgerò. Fagli segno di attendere… Dammi lo scialle… infilami il pettine grande… (si sporge) A voi salute, giovine amico!

ZAN (dalla strada) – Bella Florinda… Venite stanotte al ballo in casa Dàndolo? Compiacetevi di scegliermi a cavaliere… sapete quanto vi adoro…

FLO (risata gorgogliante. Sottovoce a Nannetta) – Tutela mia, ora ascolta bene… (a Zanetto) Ve lo prometto bel cavaliere… vestite un domino nero… Masceratevi il volto…

ZAN – Dove vi attenderò, amore? E come vi riconoscerò?

FLO – Nel corridoio della loggia Ducale… Alla mezzanotte… Puntatevi un mazzo di gelsomini alla sinistra del petto… io pure vestirò un domino nero e vi riconoscerò…

ZAN – Cenerete con me, mia divina?

FLO – Vi toccherò sul braccio e voi mi seguirete senza dir motto alla Taverna d’Arcadia tra i musici pastori…

ZAN – O mia divina! La notte di Carnevale è nostra. Quante follie d’amore faremo…

FLO – Stanotte! Quante follie d’amore… (Richiude le imposte con una risata gorgogliante) Oh,gli uomini, gli uomini, che buffi cuccioletti! (Suona e canterella alla spinetta “Le rose di Scarlatti”).

NAN (ride anch’essa) – Che buffi cuccioletti, Marchesa mia! 

                                               Dissolvenza 

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Ballo a Palazzo Dàndolo. È quasi la mezzanotte. Turbine di maschere. Volteggiare di coriandoli. Rumore di festività che sommerge lievemente un andante di Vivaldi. 

MASCH – Solingo Pulcinella, volete danzare con me?

ARLEC – Ben volentieri danzerei, mascherina, ma il tavolo di faraone mi attende…

MASCH – Chi lascia l’amore per il gioco non ha squisito cuore…

ARLEC – Ma senza denaro, l’amore non ride…

MASCH – Ah ah ah!

ARLEC – A più tardi mascherina... Olà, voi, Mefistofele… non siete il vecchio usuriere Abacuch? Orsù, Mestà Serenissima del ghetto, mi occorrono cento ducati!

MEF – Cento ducati. Cento ducati a Voi. Firmate per duecento a due mesi…

ARLEC – Me ne date cento e tra due mesi vi devo restituire duecento ducati?

MEF – Al Cavaliere Giacomo Casanova, il povero Abacuch è onorato di imprestare al duecento per cento invece del trecento per cento!

ARLEC – Fellone da qui li avrai!

MEF – Se il tavolo del faraone non te li inghiottirà!

ARLEC – Oh, due  leggiadri pastori! Perché vi nascondete il volto dietro la mascherina di foglie verdi? Fareste con un solitario Arlecchino una partita a faraone?

FLO – Perché no? Dalla voce mi sembrate…

ARLEC – Il cavaliere di Seingalt.

NAN – Oh! Giacomo Casanova!

ARLEC – Veramente. E i miei due pastori dai morbidi fianchi femminei?

FLO – Siamo veramente due pastorelli e ci troviamo al ballo per seguire le mossedi due sicari in domino nero. Essi complottano segretamente per rapire stanotte la dogaressa, la sposa di Sua Maestà Serenissima.

ARLEC – Avete avvertito gli inquisitori?

NAN – No.

ARLEC – Meglio. Ho la mia spada sotto i miei abiti. Domani tutta Venezia saprà che la notte di Carnevale Giacomo Casanova ha salvato la vita della dogaressa.

FLO – E conquistandone forse il cuore…

ARLEC – Della dogaressa mie deliziose mascherine!

NAN – Eccoli. Guardate.

FLO – Si toccano il braccio…

NAN – È il segnale.

ARLEC – Quale segnale?

FLO – Il segnale che si devono recare insieme alla Taverna d’Arcadia dove concerteranno il piano di rapimento della dogaressa al suo ritorno a palazzo Ducale…

ARLEC – E voi come lo sapete?

FLO – Abbiamo udito tutto, in un boschetto di Mestre dove li attendono i loro complici.

ARLEC – Si avvicinano! Orsù seguiamoli… Camminano circospetti a breve distanza l’uno dall’altro… Non parlano… (Escono) Oh! Il bel cielo di Venezia trapunto di stelle… O luna incipriata di Carnevale!

FLO – E pensare che questa luna ebbra di festevolezza potrebbe vedere stanotte il più torbido dei delitti…

ARLEC – Ma non lo vedrà… Lo giuro sul leone di San Marco!

NAN – Attenti, svoltano in Calle delle Acque!

FLO – Presto, la folla è grande in Piazza San Marco…

ARLEC – Corriamo, amici! Salgono il ponte.

FLO – Imboccano Calle Larga San Marco!

NAN – Svoltano in Calle degli Orefici!

FLO – Quella porta illuminata, inghirlandata di fronde, è l’ingresso…

ARLEC – Della Taverna d’Arcadia?

FLO – Si…

NAN – Eccoli, entrano!

ARLEC – Seguiamoli… 

                                                                  Una ventata di musica pastorale,

                                                                  sbattere di bicchieri, vociare allegro,

                                                                  richiami di “Filli”, “Clori” ecc. 

ARLEC (sguainando la spada) – Silenzio, silenzio tutti…

UNA VOCE – Ma è pazzo quell’Arlecchino – Salta giù da quel tavolo – Via quella spada!

ARLEC – Qui dentro ci sono due sicari. Due uomini che intendono rapire stanotte la dogaressa!

VOCE – È uno scherzo di Carnevale!

ARLEC – Veneziani, non è uno scherzo di Carnevale. È la verità. Questi due uomini sono tra di voi. Sono entrati ora mascherati.

VOCE – Indicateceli!

VOCE – Andiamo a chiamare gli inquisitori!

ARLEC – Che nessuno si muova. A me l’onore di smascherarli… e, se occorre, di trafiggerli.

FLO – Di grazia, non colpiteli…

ARLEC – Lasciate… (si avventa) Voi due, laggiù, in domino nero, giù le maschere!… Devo strapparvele io? (Eseguisce) Ecco!

TUTTI (con meraviglia) – El sior Lindoro!

ARLEC – Che?…

LIND – Fellone, voi non smaschererete la donna che è con me. Ve lo giuro sulla mia spada!

ARLEC – Sarà quel che si vedrà, in guardia!

LIND – In guardia, voi fellone! 

                                                                  Le spade si incrociano, le lame sbattono. 

ZAN – Fermi, cavalieri. Giù le spade! Mi tolgo da solo la maschera. Ecco.

TUTTI – Zanetto Nani!

LIND – Voi Zanetto!

ZAN – Voi Lindoro!

LIND – Io trovo questa farsa di un gusto riprovevole, sior studente.

ZAN – E io la ritengo detestabile, sior Lindoro!

LIND – Voi sapevate che avevo convegno con quella donna e vi siete camuffato col domino nero per farmi una beffa!

ZAN – Incolpare me del vostro stesso raggiro di cui sono vittima. Ah, vecchia canaglia… (Lo schiaffeggia).

LIND – Ah, l’oltraggio supremo! Un giovine che schiaffeggia un venerabile gentiluomo! A me la spada, a me!

UNA VOCE – Gli inquisitori!

INQUI – Cos’è questa denuncia del tentato rapimento della dogaressa…

UNA VOCE – L’accusa è venuta da quell’Arlecchino!

INQUI – Arlecchino, giù la maschera!

ARLEC 8eseguisce) – Ecco, eccellentissimi inquisitore!

TUTTI – Il Casanova! Una nuova burla del Casanova.

INQUI – Volevate uccidere due gentiluomini, per coprirvi di merito agli occhi del Doge. Volevate riscattare il mandato d’arresto che grava su di voi per le innumerevoli beffe con cui funestate Venezia! Avventuriero Giacomo Casanova, seguiteci ai Piombi. Questa volta non sfuggirete  più al tribunale dell’Inquisizione…

ARLEC – Ma sono stati quei due giovini pastori a mettermi sulle orme dei presunti sicari…

INQUI – Giù le maschere voi due…

FLO e NAN (eseguiscono) – Umili serve vostre, Eccellentissimo!

TUTTI – Florinda e la sua governante!

FLO – Sono la Marchesa Florinda. Ho voluto con questa beffa crudele punire la presunzione dei tre gentiluomini più insidiatori di donne e più turbolenti di Venezia.

VOCE – Viva Florinda!

FLO – Credo che la mia beffa alimenterà le ciacole veneziane questa notte di Carnevale!

ARLEC – Marchesa, siete una donna splendida. Andare in progione per voi mi è più gradito che andare a riposare in un letto di rose… Vi chiedo, come unico dono, di baciare i fiori delle vostre mani crudeli… Presto vi rivedrò, ve lo giuro!

NAN – Marchesa mia, quali cuccioli strani gli uomini. Li frusti e ancora ti baciano le mani.

FLO – Non ti fidare, Nannetta. Certi cuccioli hanno denti di lupo.

NAN – Ma è tanto bello farsi sbranare quando il lupo ha sembianze così maschie e leggiadre! 

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Nota La commedia è tratta da un manoscritto di Luigi Olivero oggi nella collezione Silvio Bonino di Margarita CN che qui ringrazio per avermelo messo a disposizione. Non mi risulta pubblicato né ho notizia di eventuale rappresentazione teatrale o radiofonica.

  

IL MANICOMIO DEI BURATTINI

 

C’era una volta il teatro dei burattini. Allora gli uomini erano dei fanciulli grandi che godevano a riconoscersi nelle marionette le          quali si muovevano con i loro gesti, parlavano con le loro parole, agivano secondo le loro azioni. Un giorno gli uomini si sono ribellati contro le marionette. Hanno detto “questi piccoli esseri sono dei plagiari. Ci copiano gli atteggiamenti, vivono di noi stessi, ci scroccano la vita, sono dei parassiti. La vita moderna che non dà pausa a chiunque lavora e che elimina spietatamente tutto ciò che è inutile. La vita non ci permette di tollerare oltre questi mostricciatoli che si muovono nella nostra ombra. Se i burattini non hanno un’altra professione per vivere, crèpino. Li abbiamo mantenuti abbastanza”.

 E così che i burattini, gettati improvvisamente sul lastrico dagli uomini – e si sa che ogni uomo ha il proprio burattino che lo accompagna sulla ribalta dell’esistenza – sono andati nella melanconia più tetra, poi nella disperazione e a poco a poco sono impazziti di pura e di crepacuore (Rinnegare il proprio burattino è proprio come rinnegare il proprio Angelo Custode. Ma gli uomini oggi si rendono colpevoli con riprovevole leggerezza di ben altri delitti verso se stessi e verso gli altri!).

Un giorno un vecchio professore proprio tarchiato e con barbetta grigia a punto esclamativo che somigliava molto a quella di Siegmund Freud che aveva insegnato la psicanalisi, mosso un poco dalla  pietà , molto dal desiderio di studiare s proprio agio per diverse settimane tante copie fedeli di esemplari umani, li ha raccolti tutti. Ha fatto costruire un globo terracqueo che è risultato la copia perfetta del nostro globo, lo ha chiamato “il manicomio terracqueo dei burattini impazziti”, lo ha popolato di tutte le marionette mortali e di quelle immortali (è noto che talune fra le marionette più belle hanno sempre continuato e continuano a vivere anche dopo la morte dei loro “sosia” umani) e ha detto loro: “Vivete, prosperate, bisticciate come fanno e hanno sempre fatto gli uomini della terra. Imitateli. Vuol dire che più nessuno vi potrà dare dei parassiti perché d’ora innanzi verrete mantenuti indipendenti e, se vi aggraderà, potrete anche parodiare e fare tutti gli sberleffi che vorrete all’indirizzo di ognuno dei vostri fratelli siamesi della Terra si differenziano da voi soltanto nella statura prima, nell’egoismo, nella presunzione e soprattutto nella cattiveria più grandi delle vostre in rapporto con la statura.

Io, che sono riuscito a metter piede in questa strana patria dei burattini impazziti, rinchiuso in una stilografica d’oro  che vi è pervenuta attraverso lo spazio come un bolide lanciato dalla Terra, avrò la ventura di descrivervi in brevi corrispondenze settimanali le scene più gustose a cui assisterò - Eccovi la prima corrispondenza. 

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La scena avviene in un viale del giardino pubblico Podrecca situato al centro della città di Arlecchino. Bambinaie e soldati. Un gruppo di marionette d’ambo i sessi sta leggendo i giornali umoristici. 

GANDOLIN – Squallore di giornali umoristici moderni! Non trovo una battuta che faccia veramente ridere. Ai miei tempi si faceva meglio…

ORONZO E. MARGINATI - …ma si stampava meno. Non c’è nulla di più difficile che far ridere a scadenza fissa, automaticamente, come se il riso fosse un cachet Faiur contro l melanconie il pessimismo vibrante che si contrae a guisa di mezzalune vive nei recessi più scuri e misteriosi dell’anima umana.

RAMÓN GÓMEZ  de la SERNA  - Il riso è un microbo. Per comunicarlo al prossimo bisogna possederlo in milioni di esemplari.

MACARIO – Ma io sono tutto un focolaio di microbi di riso. In qualunque istante e in qualsiasi situazione io sono in grado di comunicare questi microbi. Per esempio, voi tre, che credete di essere i maestri del riso, in questo momento siete sconsolatamente funebri con le vostre constatazioni da professori. Ma io vi faccio ridere. Questa è buona, questa è buona, questa è buona. Volete sentirla?

GANDOLIN, O. E. MARGINATI, RAMÓN – Sentiamo, sentiamo!

MACRIO – La vedete quella servetta laggiù? Bene. Quella è la cameriera di Alida Valli.

RAMÓN – Questo non fa ridere.

MACARIO – Ma vi farà ridere l’avventura che le è capitata. Ascoltatemi. Recentemente la camerierina confessò all’attrice di avere ascoltato un po’ troppo da vicino le parole d’amore di un sergente dei bersaglieri. La padrona resiste all’impulso istintivo di cacciarla sui due piedi: la pietà che ispira ad ogni cuore sensibile una fanciulla madre, la trattiene.

- Non ti caccio via – le dice – Ma devi andare subito da quel ragazzo e persuaderlo a sposarti prima che la cosa sia evidente.

La ragazza rompe le dighe delle sue glandole lacrimogene:

- Oh, signorina, non posso!

- Perché?

- Perché non lo conosco abbastanza. Mi voltava la schiena.

- Come??!! Nessun segno particolare?

- Ho fatto con lui una passeggiata in tandem una domenica in cui ero in licenza. Mi baciò in un boschetto quando già era notte… Gli ho visto un ricciolo bruno sulla tempia sinistra. E ora che è nuovamente in divisa, con le piume del cappello che gli cadono, non lo potrei riconoscere nemmeno per quel ricciolo. 

( I quattro umoristi fanno le più pirotecniche risate). 

LUCIO RIDENTI (si avvicina togliendosi il monocolo e strizzando gli occhi) – Sapete? Ho visto un film francese.

TUTTI – Com’era, com’era?

LUCIO RIDENTI – Un argomento inedito, nuovissimo.

MACARIO – Papà Lebonnard.

LUCIO RIDENTI – No, quello è l’argomento italianissimo di un film italiano. Quello che ho visto io si chiama “La vergine folle”. Sapete, io ho conosciuto Bataille al quale l’argomento della commedia che è servita per il film  è stato ispirato direttamente dalla realtà.

TUTTI – Racconta, racconta.

LUCIO RIDENTI – Dunque, un professionista, quando era già avanti con gli anni, suscitò una passione ardentissima nel cuore di un’immacolata fanciulla…

GANDOLIN – La vergine folle!

LUCIO RIDENTI – Precisamente. Egli si schermì. Cercò di resisterle. Ma quella un giorno…

O. E. MARGINATI – Ho capito: quel giorno la vergine volle!

LUCIO RIDENTI – Già. Giò. Ma più tardi accadde che la tresca venne scoperta dal fratello della fanciulla il quale – quello sconsiderato! – credendo di sparare contro il vecchio seduttore spara contro la sorella. L’amante  si curvò in preda alla disperazione sul corpo della fanciulla e trovò…

MACARIO – Che era diventata una vergine molle!

TUTTI – Ah, ah, ah! (Ballano la conga portoricana, in girotondo, gongolando e trattenendosi la pancia). 

In quella entrano Campanile, Zavattini, e… insomma tutti i classici del ridere compresi De Sica, e Metz accompagnati dal sosia del professor Siegmund Freud. Li segue una teoria di giovani donne di tutte le età, qualità, dimensioni. 

FREUD  (presentando agli astanti i nuovi venuti) – Vi prego di riunirvi tutti e accordarvi per redigere insieme la grammatica dell’umorismo.

I NOVE UMORISTI – Si? Perché?

FREUD – Perché il cinema italiano ha bisogno di una donna che sappia far ridere. Quelle che ci seguono sono le attrici italiane desiderose di imparare l’abici della comicità.

GLI UMORISTI – Ma la comicità non s’insegna. Si sente. Noi non siamo in grado di insegnarla. Insegnatela voi.

FREUD –Io?

GLI UMORISTI – Ma certo. Date loro da leggere la chiave dei sogni della vostra Psicanalisi in cui sostenete che una donna rivela un forte desiderio maschile quando sogna un bastone, un ombrello, un tronco d’albero, un pugnale, un revolver, un rubinetto, un lume a petrolio, una chiave, un pallone, un aeroplano, un dirigibile, un serpente, un pesce e in genere un corpo contundente… Mentre un uomo rivela un prepotente bisogno di donna quando sogna: giardino, miniera, fossa, caverna, conchiglia, vaso, scatola, cofano, tasca, nave, armadio, camera, bocca, lago, chiesa, cappella, lumaca, pozzo, tabacchiera… Elencazioni che abbiamo scrupolosamente estratto con fedeltà dalla vostra opera sul mistero onirico in rapporto con il sesso…

MACARIO – Opera che può essere considerata tranquillamente la Grammatica dell’Umorismo…

GLI UMORISTI – Scritta dal Principe degli umoristi.

FREUD – Dopo il vostro riconoscimento che mi conferisce finalmente la gloria, mi rammarico di essere mancato ai mortali proprio due settimane or sono.

LE GIOVANI DONNE (gli si fanno attorno, intrecciando carole e gridando) – Ma la vostra opera rimane immortale e non la adottiamo come la Grammatica dell’Umorismo. 

Il tramonto scende sotto l’aspetto di una pioggia di pètali di violacciocche. Fra balli, un principio di luminaria tra grida giubilanti di “Viva la psicanalisi. Viva la psicanalisi! Viva la Grammatica dell’Umorismo!”.

E la scena si chiude con molte future attrici comiche che “faranno ridere sapendo di far ridere” e non inconsapevolmente come accade nel cinema italiano.

Notte. Buon riposo dei burattini e marionette sui tetti di Arlecchinia.

                                                                                                         OL. 

 Nota La commedia è tratta da un manoscritto di Luigi Olivero oggi nella collezione Silvio Bonino di Margarita CN che qui ringrazio per avermelo messo a disposizione. Non mi risulta pubblicato né ho notizia di eventuale rappresentazione teatrale o radiofonica.

  

 L A    D A N Z A    D E I    M O T O R I
 
(Progetto teatrale) 

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          In un viale del Parco del Valentino nell’epoca della mostra autunnale della Moda, un tenente aviatore ed una modella stanno concludendo il loro amore. Il giovane per un bisogno quasi fisico di totale libertà d’azione, la ragazza per quell’istinto morboso di evasione e di esperienza che caratterizza, nella raffinata sensibilità della donna moderna, la necessità di conoscenza della gioventù contemporanea. Scorcio dello scatolone-facciata dell’edificio illuminato della Mostra, suono del diffusore radio, ronde delle guardie civiche pei viali, scenette di innamorati, gags comici, conclusione definitiva dei due amanti. Segue un interno del padiglione della moda: caricatura couplets di personaggi dell’industria e del giornalismo; breve sfilata di mannequins: Un grande sarto di Manhattan rinnova alla modella la proposta di seguirlo in un viaggio mondiale di studio dell’abbigliamento. La ragazza accetta di partire così col ricco americano. L’aviatore, separandosi cordialmente da lei, le avrà restituito alcune letterine profumate, annunciandole la sua partenza imminente per un grande raid attorno al mondo che egli compirà su un nuovo tipo di apparecchio che una grande casa produttrice gli ha offerto di pilotare.

         Da questo momento i due personaggi si allontanano in direzioni opposte, con avventure e peripezie diverse, con scene alternate delle tappe di uno e dell’altro, nel viaggio di entrambi che costituirà come un nastro Nord-Sud Est-Ovest avvolto attorno al globo e nel corso del quale si potranno largamente sfruttare le risorse della rivista-giornale, di marca nordamericana, diorama interessante ed inesauribile del materiale di attualità. Le frecce opposte di questo viaggio dovranno incontrarsi a Tripoli il giorno della corsa della Lotteria. Lei avrà avuto un bambino, regalo postumo dell’aviatore: e fra le …(manca l’ultima riga della pagina nel dattiloscritto) , un giorno di nostalgia e di rimpianto in cui rileggeva queste fragilità sentimentali un biglietto di lui dove le confessava la sua quasi certezza di averla resa madre e la pregava di imporre alla creatura se fosse stato un figlio come egli aveva il presentimento, un nome X all’intestazione del quale univa un Biglietto della Lotteria del quale credeva nella fortuna.

         Naturalmente, come in tutti i romanzi, il numero del biglietto uscirà vincitore. Lui si sarebbe trovato a Tripoli, in occasione della lotteria reduce festeggiatissimo, in quei giorni, del suo raid intorno al mondo compiuto con successo; lei, dopo aver goduto e sofferto nel suo animo di vita vertiginosa, accorsa colma di speranza chiamata dall’estrazione e dalla designazione favorevole che aveva avuto il biglietto del bimbo. Il triangolo, questa volta moralissimo e di assoluto omaggio alle direttive del Regime: il figlio: e la vicenda si chiuderà con il matrimonio dei due giovani. La nuova famiglia di milionari si stabilisce in Colonia, impiantando una vasta piantagione, con casa europea, hangar, servitù di colore, ecc.. e su questo finale georgico coloniale splenderà l’azzurro della loro perfetta felicità coniugale raggiunta attraverso le opposte ed equivalenti esperienze (eroismo di lui, megalomania di lei) incontrandosi nell’apoteosi sublime di una nuova vita aggiunta fatalmente , dai due giovani, al diadema meraviglioso della creazione.

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          Ogni scena (tappa) alternata del viaggio dei due personaggi (inserito nella trama, come si vede, tenue e popolarissima della commedia) dovrà essere commentata da uno speciale apparato (o carta geografica o addirittura un globo di carta, con illuminata in luce multicolore la località dove avviene l’azione) collocato ai due lati della ribalta. Troveremo il modo di passare in rassegna brillantemente (compito onomatopeico particolarmente musicale) tutti i motori della civiltà meccanica. Ma soprattutto lo spettacolo dovrà essere reso vivo dalla veloce sceneggiatura (o commento effervescente) della notizia d’attualità mondiale: espediente con cui potremo rinfrescare e peptonizzare quotidianamente la vicenda: …(ultima riga del dattiloscritto illeggibile).

         In conclusione: il viaggio décauville dei due personaggi è il pretesto teatrale per allestire questo gaio defilè di giornale rivista aggiornato al massimo di attualità, nuovo ed interessante, che dovrebbe incontrare successo.

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Nota Il progetto è tratto da un dattiloscritto di Luigi Olivero oggi nella collezione Silvio Bonino di Margarita CN che qui ringrazio per avermelo messo a disposizione. Non mi risulta pubblicato né ho notizia di eventuale rappresentazione teatrale o radiofonica.

Olivero da Ij faunèt

Giuseppe Macrì ~ Caricature di Luigi Olivero tratte da I jfaunèt Il Delfino, Roma, 1955