LUIGI ARMANDO OLIVERO
Rondò dle masche L'Alcyone, Roma, 1971
Ij faunèt Il Delfino, Roma, 1955
Articoli di Giovanni Delfino riguardanti Luigi Olivero pubblicati su giornali e riviste
Le poesie di Luigi Armando Olivero (Seconda parte)
Le poesie di Luigi Armando Olivero (Terza parte)
Poesie di Luigi Olivero dedicate allo sport
Ël Tòr N° 11 1946
Poesie riguardanti Villastellone
ed il Piemonte
Questa pagina è dedicata alle poesie che Luigi Olivero, nel corso della sua vita, ha dedicato, prendendone ispirazione, al suo paese natio, Villastellone. Mi è sembrato giusto farle precedere da una poesia che un suo concittadino, Giacomo Avataneo, gli ha dedicato. La segnalazione di questa poesia la debbo alla gentilissima concittadina di Olivero, Clara Domenino, cui molto debbo nelle ricerche che da anni vado conducendo sulla vita e le opere di Olivero. A Lei la parola per un ritratto di Giacolin.
Giacomo Avataneo
Giacomo Avataneo, per tutti “Giacolin”, villastellonese di nascita (1916-1982), fu un personaggio caratteristico e straordinariamente umano che per anni si dedicò alla poesia come canto spontaneo e vero.
E’ stato cantore della sua terra, delle sue vicende e dei suoi dolori. Si è dedicato a scrivere versi con la semplicità delle sue parole, usando la parlata piemontese come un tranquillo conversare, cosicché ogni situazione pare di riviverla.
Il suo è stato il canto di un uomo che parla agli altri dicendo ciò che sente con il cuore in mano e con amore per le tradizioni, senza eloquenza né cercando con calcolo la rima.
Dai suoi versi escono il vero spirito piemontese, l’anima della parlata popolare, la lingua che il tempo sta impolverando, gli ultimi cenni di una tradizione che sta tramontando .
Si legge un piemontese dolce, espressivo, con sfumature anche strane ma toccanti, che ripropone ricordi e frasi di tempi lontani, sensazioni care ai nostri vecchi. Si pone con gli occhi di un bambino e l’entusiasmo per le cose umili nel ritrarre con malinconico ricordo il suo passato.
Poesia senza ricercatezze, così espressiva da far rivivere come in una vecchia foto certe visioni, assolutamente naif.
Giacolin ebbe come faro e guida i versi di Angelo Brofferio e di Nino Costa; è unito a loro dalla profonda fede nei valori di libertà dell’uomo.
Di Giacolin sono state pubblicate due raccolte poetiche: Ij ranabòt e Ij luminin editi dalla Tirrenia Stampatori di Torino rispettivamente nel 1980 e nel 1981.
Proprio da Ij ranabòt sono tratti i versi dedicati al poeta concittadino Luigi Armando Olivero.
Clara Domenino
Nota. La poesia di Giacomo Avataneo, dedicata a Luigi Olivero, è riprodotta in fac-simile come è stata stampata e licenziata dall'autore. La grafia è quella che lo stesso ha utilizzato nei suoi vari componimenti.
AVVERTENZA
La scelta delle poesie è stata fatta tra le oltre 500 composte da Luigi Olivero, fino ad oggi rintracciate. Non mi sono limitato, in questa raccolta, alle sole poesie che contengano riferimenti specifici al Comune di Villastellone o ad elementi sicuramente riconducibili a quel territorio. A far capo dalla poesia Ël pont non ci sono più indicazioni dirette, ma sembra poter ricondurre il testo e le descrizioni a paesaggi compatibili con quelli della campagna villastellonese.
La grafia utilizzata è quella stessa che Olivero ha licenziato nei vari periodi della sua vita e ne è, in ogni caso, indicata la fonte in calce ad ogni poesia. Si potranno notare quindi delle differenze, a volte anche notevoli, tra le varie composizioni, a seconda del periodo cui le stesse datano. Luna – lun-a, canssôn – cansson, rañe – rane ecc.
Quando non indicato, la traduzione è mia. È stata fatta senza alcuna pretesa poetica, con il solo intento di rendere comprensibile il testo anche a chi non conosce il Piemontese. Gli stessi Piemontesi, qualche volta, potrebbero trovarsi in difficoltà di fronte ai lemmi, spesso ricercati e desueti, che utilizza Olivero nella costante ricerca di vocaboli adattabili alla sua ispirazione, al suo estro e, in particolar modo, alla sua metrica sempre in cerca di nuove forme d’espressione.
Nelle traduzioni ascritte a Clemente Fusero e Luigi Olivero, ho riportato la grafia da loro stessi utilizzata senza porvi alcuna variante, curando in particolar modo l’esatta corrispondenza dell’accentazione all’originale.
Neuit a La Vila
CHOPIN. «Nocturne en mi bèmol».
Canta, côn tut l’argent ëd la tôa góla
candìa – ch’a sa la goi ëd la mia man ;
canta che la canssôn a vola sôla,
côme n’ala ‘d cardlin, lôntan lôntan.
E se la neuit a cala e s’as fa sôla
l’ànima ‘nt ël silensi d’ij rian,
canta, che la tôa vôs a la cônssôla
e ‘l cheur – ch’a scôta – a sangiutis pì pian.
Dal cel a pendô ij rapôlin dle steile
madure a la vendumia ‘d nostr amôr
e l’ômbra, ‘ntôrn, l’è un frissônè ‘d parpèile…
L’ultima nota a s-ciod côme ‘na fiôr;
mentre le peñe a deurmô sôt le steile
e ij seugn côn le sperasse a fan l’amôr!
Vilastlôn, 1931.
Notte a Villastellone
Canta, con tutto l’argento della tua gola / candida – che conosce la gioia della mia mano; / canta che la canzone vola sola,/ come un’ala di cardellino, lontano, lontano.//
E se la notte scende e si fa solitaria / l’anima nel silenzio dei burroni, / canta, che la tua voce la consola / e il cuore – che ascolta – singhiozza più piano. //
Dal cielo pendono i grappolini di stelle / mature alla vendemmia del nostro amore / e l’ombra, intorno, è un fremito di palpebre… //
L’ultima nota sboccia come un fiore,/ mentre le pene dormono sotto le stelle / e i sogni con le speranze fanno l’amore!
Armanach piemontèis, 1932 (Grafia de ‘l caval ‘d brôns)
Le tre fôntañe
Cantarañe d’la neuit, vsiñe lôntañe,
le rañe a cantô sôta ‘l cel steilà,
e ij grij a vriñô a fé la bela vià
le note scliñe d’le canssón paisañe.
Lumin ch’as perdô për le bussônà
(parpeile pcite stôfie ‘d cose vañe);
e cel e tèra a fan j’añnamorà,
mentre a ciusiôñô ‘d lôr le tre fôntañe.
- Fôntañe ariônde, tue bôrdà ‘d pere,
ch’i v’atarde ‘nt la neuit a ciaramlè
côma tre paisanote cômnarere,
cheteve, che la luña av veul parlè…
Un bate d’ala, un pass, dôe man legere;
‘na steila ch’a rôbata an s’ël sentè.
Vilastlôn, 1931
Le tre fontane
Raganelle della notte, vicine lontane, / le rane cantano sotto il cielo stellato, / e i grilli friniscono a rendere bella la veglia / le note squillanti delle canzoni paesane. //
Lucciole che si perdono per le siepi / (piccole palpebre stanche di cose vane); / e cielo e terra fanno gli innamorati, / mentre malignano di loro le tre fontane. //
- Fontane rotonde, tutte bordate di pietre, / che v’attardate nella notte a ciarlare / come tre paesanotte chiacchierone //
quietatevi, che la luna vi vuol parlare… / Un batter d’ala, un passo, due mani leggere; / una stella che vaga sul sentiero.
Armanach piemontèis, 1932 (Grafia de ‘l caval ‘d brôns)
Ël sanssué dël Pasch
Larga, da ‘n slë stradon, l’è la dësteisa
dla campagna cha slòira ‘d gnun laoror
da setssent agn l’ha pi nen faje onor.
Babi e moschin respiro l’aria peisa.
Dal Brich a Borgo, an là fina ai neivor,
nen una baucia ‘d gran, na fèrla drita,
ma ‘d tampe piene d’eva e ‘d lësche an fior,
dont la sanssùa a regna an mes dla nita.
D’istà në strop ëd feje a va broté
dontrè fij d’erba nisra dël rivass
e, ‘n pòch pi leugn, un cavalin pia ‘l giass.
Ma ‘l Mento – vej! – tut l’ann l’ha so da fé:
baston e tasca, an giù fina ai polpass,
l’è la gòi dle sanssùe di paciass!
Il raccoglitore di sanguisughe del Pasch
Larga, dallo stradone, è la distesa / della campagna cui aratro di nessun bracciante / da settecent’anni ha più fatto onore. / Rospi e moscerini respirano l’aria pesante. //
Dal Brich a Borgo, in là fino ai macereti, / non uno stelo di grano, non una fronda diritta, / ma fossati pieni d’acqua e di sale in fiore, ° / in cui la sanguisuga regna in mezzo al fango. //
D’estate un gregge di pecore va a brucare / i pochi fili d’erba nera dei dirupi / e, un po’ più lontano, un cavallino si corica. //
Ma Mento – vecchio – tutto l’anno ha il suo da fare: / bastone e sacca, giù fino ai polpacci, / è la gioia delle sanguisughe dei pantani!
° lesca, sale : erba palustre usata per impagliare
Nota al testo. Il Bric, una collinetta d’origine incerta in mezzo alla vastissima piana alla periferia di Villastellone con su un gruppo di cascine (forse costruita ad arte a protezione del paese da possibili straripamenti del fiume Stellone); Borgo, la frazione odierna di Borgo Cornalese; per recarvisi, essendo dall’altra parte della strada statale SS 393, si costeggia il Bric e si passa attraverso il Pasch, pascolo ricco di acque stagnanti regno delle sanguisughe dove Mento (Clemente, contadino centenario, morto qualche anno fa, o qualche suo avo) ne faceva la raccolta.
Sol d’invern
Dick, bel can luv dal peil giaun bigerà,
cor via lontan për la campagna speuja,
spariss dré dle caussagne e ant ël sëmnà
së slanssa a boconé l’ariss porcheuja:
Caì!… caì!…, le lesne a schersso pa,
sta geneuria d’invern, col l’è na pleuja!
La campagna as dëstend coma na feuja
e ‘l sol aj pieuv na lus còtia, andorà:
Cel d’un biadèt leger, nuvole bianche;
erbo ch’a stendo i branch maire e patì
a ciamé la stagion bela di nì…
E tra coi branch: tnisend le man an s’j’anche,
coma na cassinera ant so polé,
la Vila –Vilastlon – ‘s china a vardé.
Sole d’inverno
Dick, bel cane lupo dal pelo giallo screziato / corre via lontano per la campagna spoglia, / sparisce dietro gli argini e nel seminato / si slancia ad addentare il riccio porcello: //
Caì!…Caì!…, le lesine non scherzano, / questa marmaglia d’inverno, quello è poco raccomandabile!! La campagna si distende come una foglia / e il sole lascia cadere una luce morbida, / dorata: //
Cielo di un azzurrino leggero, nuvole bianche; / alberi che distendono i rami secchi e patiti / a reclamare la bella stagione dei nidi… //
E tra quei rami: tenendo le mani sulle anche, / come una contadinotta nel suo pollaio, / la Vila – Villastellone – si china a guardare.
Armanach piemontèis, 1933
Mercà dle fior
S’l’ànima sombra ‘l sofe d’na malìa
coma ‘l sospir d’na boca an-namorà,
l’han porta-je al poeta an agonia
tante vos già lontane e dësmentià.
Vos cantarine ‘d boche parfumà
d’ij soris pì grassios dla poesìa,
con na cadena ‘d reuse anghirlandà
l’han anvlupalo ‘nt una sinfonia…
Maupassant, Maupassant!, la toa tortura
l’hai sentùla d’cò mi fasseme ‘l cheur
(e la mia ment l’era bin ciaira e pura!).
Na musica, ‘n sospir largh ëd bonheur
l’han sprofondà ‘l batel dla vela scura,
s’l’onda dël mar a l’han robame ‘l cheur
Mercato dei fiori
Sull’anima ombrosa il soffio d’una malia / come il sospiro d’una bocca innamorata, / han portato al poeta in agonia / tante voci già lontane e dimenticate. //
Voci canterine di bocche profumate / dei sorrisi più graziosi della poesia, / con una catena di rose inghirlandate / l’hanno avvolto in una sinfonia… //
Maupassant, Maupassant !, la tua tortura / l’ho sentita anch’io fasciarmi il cuore / (e la mia mente era ben chiara e pura!). //
Una musica, un sospiro profondo di felicità / hanno affondato il battello dalla vela scura, / sull’onda del mare mi hanno rubato il cuore.
‘l caval ‘d brôns, 23 gené 1932 (Grafia del giornale)
J’ole ‘d monssù Dino
A Pinin Pacòt
An drinta j’ole tracagnotta e bele,
óra veuide e quacià come doe cosse,
j’era, un temp, cói salam dle cóne rosse
ch’a fan suvè ‘l vinèt ant le vassele.
L’han sentù, para a lor, dontrè morfele
(la manina dacant le boche rosse)
confidasse d’amor le prime angosce,
ant ël pèilo, tra i tond e le scudele.
Veusto, Pinin, che giù dal cel stèilà
tuti ij fidlin dla nostra pena ‘ncreusa
jë sleujo drinta an lacrime ‘d rosà?
Ma no! ‘Nt le neuit ch’a odoro ‘d fengh tajà
l’hai vist-je mi dontrè bochine ‘d reusa,
da para j’ole, a combinè ij pecà !
Gli orci del Signor Dino
Dentro gli orci tracagnotti e belli, / ora vuoti e accovacciati come due cosce, / c’erano un tempo quei salami dalle cotiche rosse / che fanno asciugare il vinello nelle tinozze. //
L’han sentito, dietro a loro, alcune ragazze / (la manina accanto alle bocche rosse) / confidarsi dell’amor le prime angosce, / nel camino, tra i piatti e le scodelle. //
Vuoi, Pinin, che giù dal cielo stellato / tutti i fili della nostra pena nascosta / vi si sciolgono dentro in lacrime di rugiada? //
Ma no! Nelle notti che profumano di fieno tagliato / le ho viste io alcune bocchine di rosa, / dietro agli orci, combinare peccati!
‘l caval ‘d brôns 21/5/1932 (Grafia del giornale)
Nota al testo. Dino Piccaluga, farmacista di Villastellone e mentore di Olivero. Pinin = Pinin Pacòt. Il sonetto fa parte di una serie di 12, 6 composti da Olivero e 6 da Pacòt. Titolo generale Le reuse ant j'ole. Solo tre sonetti sono stati pubblicati da Olivero. La serie completa ha visto la luce recentemente su Piemontèis ancheuj grazie al Prof. Giuseppe Goria che ne ha rintracciato il testo tra le carte del M° Alfredo Nicola (Alfredino).
Ël rodon
O my prophetic soul!
Shakespeare: Hamlet.
Mi ‘t veuj bin, o rusnent e vej rodon
che ‘t vire pase a val dël sàut ëd l’eva
për fé bogé con toa fatiga greva
la pera che a carcagna ‘l gran dl’amson.
L’hai scotate a ciovì për d’ure antere,
ghërgoté con la scuma an mes ai dent,
ant le sèire paisan-e sensa vent
quand j’era un cit con tante pen-e amere.
L’hai sentite tranfié sota la lun-a
tant che ‘l paìs a l’era an-nià ‘nt la seugn:
e mach ël giap d’un can vnisìa da leugn,
e, da avzin, ël naniné ‘d na cun-a.
Ti ‘t l’has cheujì le lacrime ‘d col cit
maladiss ëd romantica tristëssa:
t’l’has ciusionaje an sl’andi ‘d na carëssa
ij tò consèj che ant cheur a guèrna scrit.
L’hai amprendù da ti ch’a venta unisse
fòrt assamblà a lì assal ëd nòst travaj
e nen fërmesse e nen lassélo, mai,
për gnun-e anvije al mond, për gnun caprisse.
Tuti e doi l’oma avù ‘l midem destin:
ti ‘t vire ant l’onda për fé meule ‘l gran,
mi viro ‘l mond për guadagneme ‘l pan.
La vita a l’è la meula ‘d nòstr mulin.
E an pòver d’òr l’è andàit nòst seugn pì bel
ëd vëde a calé j’àmgej an sla Tèra:
l’òm a sfranda ant l’asur d’éliche ‘d guèra
ch’a strompo j’ale ai cherubin dël Cel…
‘T l’has la saviëssa ‘d Giòb, ti, vej rodon.
E quand të sclame che la Tèra a vira
e pì chila a fa ‘d vir pì l’òm delira,
të scoto con sagrin ma it dagh rason.
Mi l’hai vist tante gent e tante tère,
l’hai travërsà ‘d desert, navigà ‘d mar.
Dësgainà come ‘l sàber d’un corsar,
son mach sempre passè tra slussi ‘d guère.
D’ammassìdi e ‘d ravagi arbeuj la Stòria.
Ma, ancheuj, la Siensa antòssia aria e radis.
Caìn guida j’esèrcit dj’òm nemis.
E dël Crist va përdendse la memòria.
Da quand che ‘l fèr dla msòira e dël martel
l’è stàit fondù për j’arme dla conquista,
la rassa uman-a l’è dventà pì trista:
da mila Tor ‘d Babel a mnassa ‘l Cel.
E ti ‘t vire, ò rodon, sempre pì meuse
e la ruso a s’angrìngia tra ij tò dent:
fin-a al di che ‘t fërmras e che la gent
l’avrà pì nen ‘d farin-a d’andé a cheuse.
Col di, rodon, ch’a ven-a mai al mond.
Ma, se a vnirà, ij tò dent se sgureran
a mastié le sërvele dij tiran.
E ‘t beivras ant un gorgh, ëd sangh, profond…
***
Ò rodon che ‘t l’has vistme a cheuje ‘d more
ant l’alba dla mia vita arlongh al Taj,
spetme seren, ché, un di, ritornerai
a spòrzme da ‘n sla pianca për dëscore.
Mej andé mëssonand ëd ragg ëd sol
an sle rive ‘d nòst rì, vërde e fiorìe,
vaitand passé tra j’arbre e le gasìe
na testa bionda come un virassol
A l’è motobin mej vive ‘sta vita
pistand gramon e buse ‘d nòst paìs
e fongand ij magon ant ij mojìs
për ch’as lo mangio ij babi an mes dla nita.
A l’è assè pì civil un cheur paisan,
corm dle canson dij baticheur dla Tèra,
che ‘l cheur, përgn ëd velen, dj’òmini ‘d guèra
ch’a sforno ‘d bombe an leu dë sforné ‘d pan..
Òh, lass-me un po’ sfoghé, mè vej cambrada,
lassa che strenza ij pugn contra ‘l maleur.
E peuj versme ant le ven-e la dosseur
dla rijada armoniosa ‘d toa cascada.
Mè vej rodon che ‘t fas viré ‘l mulin,
arcòrdme. E speme. It tornerai davzin.
Vila Stlon, 1933
La ruota del mulino
Ti voglio bene, o vecchia ruota arrugginita / che giri pacifica a valle della cascata d’acqua / per far muovere con la tua greve fatica / la macina che schiaccia il grano delle messi. //
Ti ho ascoltato cigolare per delle ore intere, / gorgogliare con la schiuma in mezzo ai denti, / nelle sere paesane senza vento / quando ero un bimbo con tante pene amare. //
Ti ho sentito ansimare sotto la luna / mentre il paese era annegato nel sogno: / e solo il guaito di un cane veniva da lontano: / e, da vicino, la ninna nanna di una culla. //
Tu hai raccolto le lacrime di quel bimbo / malato di romantica tristezza: / gli hai sussurrato sulla mossa d’una carezza / i tuoi consigli che in cuore custodisce scritti. //
Ho appreso da te che bisogna tenersi / fortemente uniti all’asse del nostro lavoro / e non fermarsi e non lasciarlo, mai, / per nessuna brama al mondo, nessun capriccio. //
Tutti e due abbiamo avuto lo stesso destino: / tu giri nell’onda per far macinare il grano, / io giro il mondo per guadagnarmi il pane. / La vita è la macina del nostro mulino. //
E in nulla è finito il nostro sogno più bello / di vedere gli angeli scendere sulla Terra: / l’uomo scatena nell’azzurro eliche di guerra / che mozzano le ali ai cherubini del Cielo… //
Tu hai la saggezza di Giobbe, tu, vecchia ruota. / E quando tu esclami che la Terra gira / e più quella fa dei giri più l’uomo delira, / ti ascolto con dolore ma ti do ragione. //
Ho visto tante genti e tanti paesi, / ho attraversato deserti, navigato mari. / Sguainato come la sciabola di un corsaro, / son soltanto sempre passato tra lampi di guerre. //
D’omicidi e di devastazioni ribolle la Storia. / Ma, oggi, la Scienza intossica aria e radici. / Caino guida gli eserciti di uomini nemici. / E del Cristo va perdendosi la memoria. //
Da quando il ferro della falce e del martello / è stato fuso per le armi della conquista, / la razza umana è diventata più triste: / da mille Torri di Babele minaccia il Cielo. //
E tu giri, o ruota, sempre più lenta / e la ruggine s’insinua tra i tuoi denti: / fino al giorno che ti fermerai e che la gente / non avrà più farina d’andare a cuocere. //
Quel giorno, ruota, non venga mai al mondo. / Ma, se verrà, i tuoi denti si puliranno / a masticare le cervella dei tiranni. / E tu berrai in un gorgo, di sangue, profondo… //
***
O ruota che mi hai visto cogliere more / nell’alba della mia vita lungo il Taj, / attendimi sereno, che, un giorno, ritornerò / a sporgermi dalla palancola per discorrere. //
Meglio andare spigolando raggi di sole / sulle rive dei nostri rii, verdi e fiorite, / spiando passare tra i pioppi e le acacie / una testa bionda come un girasole. //
È molto meglio vivere questa vita / pestando gramigna e sterco del nostro paese / e affondando i dispiaceri nei pantani / perché se li mangino i rospi in mezzo al fango. //
È molto più civile un cuore paesano / ricolmo delle canzoni dei palpiti della Terra, / che il cuore, pregno di veleni, d’ uomini di guerra / che sfornano bombe in luogo di sfornare pane… //
Oh, lasciami un po’ sfogare, mio vecchio compagno, / lascia che stringa i pugni contro la sventura. / E poi versami nelle vene la dolcezza / della risata armoniosa della tua cascata. //
Mia vecchia ruota che fai girare il mulino, / ricordami. E aspettami. Ti tornerò vicino.
‘l caval ‘d brôns, XLIV, giugn 1966 (Altro titolo: Cantada dël rodon)
Nota al testo. Taj: piccolo rio che scorre nel territorio di Villastellone.
Ël demone ‘d mesdì
Su da le reis angavignà ‘nt la tèra,
su da le vene ‘l desidere arbeuj
e la mia man at tasta prima e at cheuj
parèj dël pom madur ch’a casca ‘n tèra..
Boca su boca, sensa vëd-.se ant j’euj
(ant i cavèj n’odor d’erbassa amèra)
randa a lë Stlon, che ten la cauna a meuj,
i nòstri nerv son grop ëd serp an guèra.
Bela e sarvaja, ant ël calor d’mesdì,
tuta toa carn a l’è ‘n foré dë spì:
zanzive rosse al sangh ëd la rijada…
I bei rimòrs a passo andrinta ‘d mi
coma ‘n vòle ‘d colomb sota n’arcada.
E un gal a canta për la gran solada.
Il demone di mezzogiorno
Su dalle radici aggrovigliate nella terra, / su dalle vene il desiderio ribolle / e la mia mano prima ti tasta e poi ti coglie / come la mela matura che casca in terra. //
Bocca su bocca, senza guardarsi negli occhi / (nei capelli un odore d’erbaccia amara) / vicino allo Stellone, che tiene la canapa ad ammollare, / i nostri nervi sono nodi di serpi in guerra. //
Bella e selvaggia, nel calore del mezzogiorno, / tutta la tua carne è un pungere di spighe: / gengive rosse al sangue della risata… //
I bei rimorsi passano dentro di me / come un volo di colombe sotto un’arcata. / E un gallo canta per il grande caldo.
Armanach piemontèis 1935
Nota al testo. Stellone: Fiume che scorre per Villastellone.
Tristizia
I pin an miniatura
sislà ‘nt un cel ëd giassa
scajo ‘d neir la bordura
da Sant’Ana a la piassa.
Parpajòle ferije
- file drite, antërsìe -
ale càndie, fior càndie,
fiòco le litanie.
E ‘l silensi bianch-reusa
(la grand’ala dësteisa!)
cova l’ànima ofeisa
për ch’a s’ciòda la reusa.
Ma i nassrà na baldanza
ògni rupia ‘ndurmìa
ch’a massrà la speransa
euj-ëd-nita da strìa.
Se ‘l cussin a l’è candi,
s’a dindano le pene,
ël savuj ëd le vene
scor adase, a pié l’andi.
…Mi veuj fé na corona
con le giòie pì fine
për cissela dë spine
l’ora freida ch’a sona.
Tristezza
I pini in miniatura / cesellati in un cielo di ghiaccio / scagliano di nero il filare / da Sant’Anna alla piazza. //
Farfalle ferite / - filari diritti, attorcigliati - / ali candide, fiori candidi, / fioccano le litanie. //
E il silenzio bianco-rosa / (la grande ala distesa!) / cova l’anima offesa / perché sbocci la rosa. //
Ma nascerà una baldanza / ogni ruga addormentata / che ucciderà la speranza / occhi di fango da strega. //
Se il cuscino è candido, / se dondolano le pene, / la linfa delle vene / scorre adagio, a prendere l’avvio. //
…Voglio fare una corona / con le pietre più preziose / per trafiggere di spine / l’ora fredda che inganna.
Armanach piemontèis, 1936
Lë strangé
L'hai vivù tròp ampess girand ël mond
e adess im sento un ë-strangé 'nt mia tèra.
Mè paìs l'é cangiasse: dòp la guèra
'd gent l'é an sla cresta dl'onda e 'd gent an fond!
Chi l'é nà, chi l'é andassne sota-tèra.
Grize le fomne viste an cavèj biond.
Fin-a 'l cel a l'é niss e men profond
d'un temp lontan ch'a smija gnanca vèra.
'D cà neuve. ‘D fàce neuve. Un vel sospèis
a spartiss mè passà da cost present
ch'a parla gnanca pì an bon piemontèis...
M'ancamin-o an s'na strà d'arbre d'argent.
Mama, ambrasso toa tomba a brass dëstèis.
E 'm në vad: chin e fovatà dal vent.
Vila Stlon (Turin), Pasqua 1961
Traduzione di Luigi Olivero
Lo straniero
Son vissuto troppo a lungo girando il mondo / e ora mi sento uno straniero nella mia terra. / Il mio paese è mutato: dopo la guerra / gente è sulla cresta dell’onda e gente in fondo! //
Chi è nato, chi se n’è andato sottoterra. / Grigie le donne viste in capelli biondi. / Perfino il cielo è livido e meno profondo / d’un tempo tanto remoto da sembrare che non sia mai esistito. //
Case nuove. Facce nuove. Un velo sospeso / separa il mio passato da questo presente / che non sa neanche più parlare in buon piemontese… //
Mi avvio su una strada di pioppi d’ argento. / Mamma, abbraccio la tua tomba a braccia tese. / E me ne vado: chino e staffilato dal vento.
‘l caval ‘d brôns stèmber 1964
Galucio d’òr, sul cioché ‘d mon
ross, ant ël cel ëd Vilastlon.
Galucio viv, tut giajolà,
ant na cassin-a an mes ai prà.
Galucio-galucin
- doi galucio paisan -
che cante a la matin
ant mè paìs lontan.
Canteme drinta ‘l cheur
una canson d’azur
ancheuj che un fià ‘d maleur
tut ël mond a fà scur.
*
Paìs baròch, quacià ‘nt ij gran,
mi ‘t portrai sempre an palma ‘d man.
Dòp avei vist mond e sità,
tornerai, vei, doa ch’i son nà.
Paìs-paisotin
che ‘t madure ant ël sol
ij pom gròss ëd j’autin
ch’a viro an sël picòl.
Pensandte, stamatin,
mi ‘m sento un paisanòt
con doi galucio avsin
ant l’èira ‘d so ciabòt.
*
Ciabotin bianch, ricamà ‘d vis,
specie ‘nt doi euj ëd fiordalis.
Të s-ciaro, an seugn, bërluse an fond
ëd la mia vita ‘d vagabond…
Ant na gàbia d’argent
doi galucin ardì
ancheuj am pòrta ‘l vent
tra ij portugaj fiorì.
E mè cheur prepotent
a svanta degordì
come na crësta
ant l’ora dël mesdì.
E a canta drinta ‘d mi:
- Chicchirichì
- Chicchirichìiii!
Casetta dei galletti paesani
Galletto d’oro, sul campanile di mattone / rosso, nel cielo di Villastellone. //
Galletto vivo, tutto screziato, / in una cascina in mezzo ai prati. //
Galletti-gallettini / - due galletti paesani - / che cantate alla mattina / nel mio paese lontano. //
Cantatemi dentro il cuore / una canzone d’azzurro / oggi che un soffio di sventura / tutto il mondo fa scuro. //
Paese barocco, acquattato tra il grano, / ti porterò sempre in palmo di mano. //
Dopo aver visto mondo e città, / tornerò, vecchio, dove sono nato. //
Paese, paesottino / che maturi nel sole / le mele grosse dei frutteti / che ruotano sul picciolo. //
Pensandoti, stamattina, / mi sento un contadinotto / con due galletti vicino / nell’aia della sua casetta. //
Casetta bianca, ricamata di viti, / specialmente nei due occhi di fiordaliso. //
Ti vedo, in sogno, brillare alla fine / della mia vita di vagabondo… //
In una gabbia d’argento / due galletti arditi / oggi mi porta il vento / tra gli aranci fioriti. //
E il mio cuore prepotente / sventola lesto / come una cresta / nell’ora del mezzogiorno. //
E canta dentro di me: //
- Chicchirichì //
- Chicchirichìiii!
Madrigal dle fije ‘d mè paìs
LE fije ‘d mè paìs son tute bele.
A rijo come j’onde tra doe rive.
L’han i cavèj ch’a odoro ‘d ramulive.
Sò sangh a l’è un vin d’uve moscatele.
Le fije ‘d mè paìs son tute bele.
Magara ij sò dilin san gnanca a scrive
ma, s’at carësso an front, at fan arvive.
E j’euj? Bleu ‘d j’Alp, ël bleu dle gensianele.
Le fije ‘d mè paìs son tute bele.
L’han nen studià la musica e ‘l latin:
ma ai camp a canto e an cesa a diso ‘l bin.
Mi l’hai mai vist al mond ëd fìe pi bele.
Spose d’Alpin, d’alpin a saran mame.
Se ‘l sol a splend, son lor ch’ai dàn le fiame.
Madrigale per le figlie del mio paese
Le ragazze del mio paese son tutte belle. / Ridono come le onde tra due rive. / Hanno i capelli che profumano d’olivo. / Il loro sangue è un vino d’uve moscatelle. //
Le ragazze del mio paese son tutte belle. / Magari le loro manine non sanno scrivere / ma, se ti carezzano, ti fan rivivere. / E gli occhi? Blu dell’ Alpi, blu delle genzianelle. //
Le ragazze del mio paese son tutte belle. / Non hanno studiato né musica né latino: / ma cantano ai campi e in chiesa pregano bene. //
Non ho mai visto al mondo ragazze più belle. / Spose d’Alpini, di alpini saranno mamme. / Se il sole splende, son loro a dargli fiamme.
Ij Brandé Armanach ëd poesia piemontèisa 1964
Premiata a Fossano.
Nota al testo. Si può notare che la composizione è quasi completamente a monostici. (Singoli versi compiuti)
Ël pont
Ël Pont a l’è un archèt liss ëd violin
chinà ‘n s’ij fij d’argent dl’eva corìa
ch’a slargo ij sèrcc ëd j’onde ‘d n’armonìa
ch’a vària come a vària ‘l temp alpin.
Ij son, folèt dij gorgh, a rijo s-clin,
sbrìncio ‘l silensi ‘d cit bësbìj d’avìa,
a s-cionfo ant un chërzent ëd sinfonia,
mincadì dle stagion ëd nòst destin.
Ël pont, quand a fa bel, l’è un arch-an-cel.
A trambla e arbomba, lord come un brucel,
tra j’argonfi dl’avèrsa e ij crij dël vent…
Ma, ‘l pont, a cun-a an brass tò seugn nossent
se ‘d neuit it guarde ‘l rì sëmnà dë stèile,
ti, con doe feuje ‘d reusa an sle parpèile.
1963
Traduzione di Luigi Olivero
Il ponte
Il Ponte è un archetto liscio di violino / chinato sui fili argentei dell’acqua corrente / che dilatano i cerchi dell’onde d’un’armonia / la quale vària come vària il tempo alpino. //
I suoni, folletti dei gorghi, ridono tinnuli, / sprùzzano il silenzio con impercettibili bisbigli d’ape, / esplodono in un crescendo di sinfonia, / ogni giorno delle stagioni del nostro destino. //
Il ponte, quand’è bel tempo, è un arcobaleno. / Trema e rimbomba, come un burchiello in preda alle vertigini, / nelle piene del nubifragio ululando il vento… //
Ma, il ponte, culla sulle sue braccia il tuo sogno innocente / se a notte ti affacci a guardare il rio disseminato di stelle, / tu, con due pètali di rosa sulle palpebre frullanti.
Ij Brandè Armanach ëd poesìa piemontèisa 1965
La serp
L’HAI vistla da masnà, la serp oslera,
coacià a l’avàit contra le rèis d’na pianta.
Sle rame an fior un bel re cit a canta
e ‘l cant jë stissa an sl’onda ‘d na bialera.
Ma j’è na testa con j’euj verd ch’a svanta
su la cadansa dla canson legera:
e tra j’erbe sarvaje dla bruera
la bissa a sghija pian randa a la pianta.
Tut a l’è pase ant l’ora dël mesdì.
Ma ‘nt ël calor ch’a cësis quasi e a sfiama
un sube tramolant a smia ch’a ciama:
e ‘l re cit a cor giù da rama an rama,
a sàuta ‘nt ël gramon tut degordì…
Peui: doe piume e un po’ ‘d sangh tacà a në spi.
1930
Il serpente
L’ho vista da fanciullo la serpe uccellatrice, / acquattata all’agguato contro le radici d’una pianta. / Sui rami in fiore un bello scricciolo canta / ed il canto gli gocciola sull’onda di una gora. //
Ma c’è una testa con gli occhi verdi che muove / sulla cadenza della canzone leggera: / e tra le erbe selvatiche della brughiera / la biscia scivola piano vicino alla pianta. //
Tutto è pace nell’ora del mezzogiorno. / Ma nel calore che quasi afferra e riverbera / un sibilo tremolante sembra chiami: //
e lo scricciolo corre giù di ramo in ramo, / salta tutto lesto nella gramigna… / Poi due piume e un po’ di sangue attaccato ad una spiga.
Ij Brandé N° 74 1949
Ij sochét
QUALA mai armonïa ‘d tarachëtte
dë Spagna ò qual rolman ëd tambornin
am arcòrdo ij sochèt d’un birichin
con ij ginoj patìcio e le brajëtte?
S’a l’era bel d’invèrn, a la matin,
core e scòla an lustrandse le brochëtte
fazend la sghijaròla, e, an mez dle fiëtte,
sfrandé tirand al vòl tërse e cotin.
S’a l’era bel scoté ij sochèt a bate
con ij tich-tach d’un cavalin al tròt
sla giassa dla strà ‘d j’orm frangià ‘d candlòt.
E che ‘d tempeste ‘d musichëtte mate
l’han sonà ij mè sochèt tra le sochëtte
‘d na cita con j’euj bleu come ‘d ciochëtte!
1948
Gli zoccoletti
Quale mai armonia di nàcchere / di Spagna o quale rullio di tamburelli / mi richiamano alla memoria gli zoccoletti di un birichino / con le ginocchia nude sotto i pantaloncini corti? //
Quant’era bello, nei mattini d’inverno, / correre a scuola lucidandosi i chiodini / facendo la scivolarella, e, in mezzo alle bambine, / irrompere tirando al volo trecce e sottanelle. //
Qunat’era bello udire picchiettar gli zoccoletti / con i tìcchete-tàcchete d’un cavallino al trotto / sul ghiaccio della via degli olmi frastagliata di ghiaccioli. //
E quante grandinate di musichette folli / han ritmato i miei zoccoletti tra le due zoccolette / d’una bimba dagli occhi grandi e azzurri come convòlvoli!
Il Cavour N° 1 1968 Traduzione di Luigi Olivero
Tèra paisan-a
Veuj scassé la sivìtola dle pen-e
ch’a l’ha fàit la soa nià drinta mè cheur
e a l’ha ‘nluchìme l’ànima ‘d maleur.
Veuj che mè sangh a scora ant le toe ven-e
e che ij mè pols a cheujo tò boneur,
tèra paisan-a! An sle toe pupe pien-e,
s’j’erbe novele an but për le moren-e,
veuj ch’a s’angrìngio le radis d’mè cheur.
Ant la mia ment veuj ch’a së specia ‘l cel,
come a së specia ant j’euj d’una masnà,
con tuti ij sèt color ëd l’arch-an-cel.
Cogià arvèrs ant un sorch pen-a scarsà,
veuj essi come un dent d’n’èrpe d’assel
ant la tèra ch’a fuma al sol d’istà.
1928
Terra paesana
Voglio scacciare la civetta delle pene / che ha fatto la sua nidiata dentro il mio cuore / e mi ha allucinato l’anima di disgrazia. / Voglio che il mio sangue scorra nelle tue vene //
e che i miei polsi raccolgano la tua felicità, / terra paesana! Sulle tue mammelle piene, / sulle erbe novelle in germoglio per le morene, / voglio che s’insinuino le radici del mio cuore. //
Nella mia mente voglio che si specchi il cielo, / come si specchia negli occhi d’un bimbo, / con tutti i sette colori dell’arcobaleno. //
Coricato riverso in un solco appena aperto, / voglio essere come un dente d’un erpice d’acciaio / nella terra che fuma al sole d’estate.
‘l bochèt: quaderni del Cenacolo di Torino 1954
Prim frisson
ANDOA ch’it sesto mai, Catarinin,
che ‘t l’has dësviame ‘l prim frisson ëd veuja
ch’a preuva un gich novel, tra feuja e feuja,
quand ch’a s-ciòd a la luz ëd la matin?
Andoa ch’it sesto mai, Catarinin?
Sèt ani: Doi pipì fòra dla greuja…
Na pieuva ‘d reuse e d’òr cala mineuja
sul bòsch dij mè ricòrd. Sùbia un cardlin.
Scotlo, s’it vive ancor, Catarinin.
J’ero përdusse, an mez a j’èrbo, a cheuje
‘d mofe për fé ‘l presepio: e ‘l cavagnin
lo rezijo ancroziand nòstri dilin…
Na tampa. Un tonf… Doi cheur ant un nì ‘d feuje.
Na stèila e un mè frisson tra ij tò brassin.
1947
Traduzione di Luigi Olivero
Primo frèmito
Dove potrai essere mai, Caterinella, / che mi hai suscitato il primo fremito di desiderio / che prova un virgulto novello, tra foglia e foglia, / quando sboccia alla luce del mattino? //
Dove mai sarai tu, Caterinella? / Sette anni. Due pulcini fuori del guscio… / Una pioggia di rose e d’oro scende lentamente / sulla foresta dei miei ricordi. Trilla un cardellino. //
Ascòltalo, se vivi ancora, Caterinella. / Ci eravamo perduti, tra gli alberi, a raccogliere / muffe per allestire il presepio: ed il cestello //
lo reggevamo incrociando i nostri ditini…/ Una fossa. Un tonfo… Due cuori in un nido di foglie. / Una stella e un mio frèmito tra le tue braccine.
Il Cavour N° 1 1968
El bal dle lusentele
El senté scur l’è tut fiorì dë stèile
- ël senté creus da mira a mia ciabota -
dë stèilin-e ch’a danso una gavòta
sui fii dl’ombra e ij fij brun dle mie parpèile.
Oh, l’armonia ‘d cost bal ëd lusentele
ch’a s’ancrósio, a s’anlijo, a së slontan-o
për ritorné ant un vòl ch’a dësdavan-o
an tanti sercc dë scume e d’onde e ‘d vele!
A l’è tut n’arabesch ëd pontin verd
sempre cangiant slë sfond dë vlu dla seira:
una scritura d’euj sla ròca neira
na procession d’avemarie ch’as perd…
Ch’as perd andrinta un gorgh ëd poesia
con dë sbarbaj d’argent ëd luminaria.
Come ij basin d’amor ch’as pèrdo ant l’aria.
Come perle ‘d rosà ‘n sla fior passìa
dl’anima mia.
Monserà dël Borgh San Dalmass, 13-7-1955
Traduzione di Luigi Olivero
Il ballo delle lucciole
Il sentiero buio è tutto fiorito di stelle / - il sentiero profondo adiacente il mio casolare - / di stelline che danzano una gavotta / sui fili d’ombra ed i fili bruni delle mie ciglia. //
Oh, l’armonia di questo ballo di lùcciole / che s’intersecano, s’allàcciano, s’allontànano / per ritornare in un volo che dispànano / in tanti cerchi di spume e d’onde e di vele! //
È tutto un arabesco di puntolini verdi / sempre cangianti sullo sfondo vellutato della sera: / una scrittura di occhi sulla roccia nera / una processione d’avemarìe che si perde… //
Che si perde in un vòrtice di poesia / con bagliori argèntei di luminaria. / Come i baci d’amore che si pèrdono nell’aria. / Come perle di rugiada sul fiore appassito//
dell’anima mia.
‘l bochèt: quaderni del Cenacolo di Torino 1955
Pan-e ‘d mèlia
Dë stisse d’òr më sprìcio ant l’angassin
ëd j’euj ch’a me s-ciuplìsso dë sbarbàj
mirand le pan-e ‘d mélia, al cant dij gaj,
ant l’èira dle cassin-e a la matin.
Che maravìa ‘d nuanse d’òr mat, giaj,
oranz e reusa, ross e gialdolin,
a fan ij chich dle pan-e antlà davsin,
penduve për le mape tra doi paj.
Stenduve an cóbie bin samblà, ‘ntërsije,
su larghe scale ‘d pèrtie a ghisa ‘d tlé
che al sol a smìo ‘d ciovende ‘d feu: satije.
D’cò ‘n sle faciade, fin-a ai colombé…
Ma, tut cost òr, l’è ‘d mélie ò ‘d terse ‘d fije
ch’a scapo ‘d nans al diao dij mè pensé?
1957
Pannocchie di granturco
Gocce d’oro mi zampillano nel lacrimatoio / degli occhi che mi sfavillano di barbagli / ammirando le pannocchie di granturco, al canto dei galli, / nell’aia delle cascine alla mattina. //
Che meraviglia di sfumature d’oro opaco, giallo, / arancio e rosa, rosso e giallo di Fiandra, / diffondono i chicchi delle pannocchie intelaiati vicino, / appesi per le infiorescenze tra due pali. //
Stese in coppie ben unite, intrecciate, / su larghe scale di pertiche a guisa di telaio / che al sole assomigliano a siepi di fuoco: pigiate. //
Anche sulle facciate fino ai colombai… / Ma, tutto quest’oro, è di granturco o di trecce di fanciulle / che scappano davanti al diavolo dei miei pensieri?
‘l bochèt: quaderni del Cenacolo di Torino 1957
Èira
Da ‘n sla sima dël brich
tant che ‘l sol a declin-a
s-ciàiro, a val, na cassin-a
con l’èira anlagà ‘d chich
ëd mélia quarantin-a. °
Oh ij rifless d’òr ch’a j’è
ant la lun-a ‘d col’èira
che, tra j’ombre dla sèira,
seugna aranda a un pajé
ch’a smìa ‘l tèit d’un cioché!
Qual mai lus ëd mistà
tramóla al son ë-s-clin
dl’Angelus bricolin!
Cól reu ‘d mélia andorà
l’è un mosàich bizantin.
E a më spécia ant la ment
nen figure ‘d missàj
ni ‘d vedrià ‘d catedraj:
ma l’Euj biond-sorident
ëd Nossgnor dël Travaj.
° mélia quarantin-a: tipo di granturco Zea mais
1957
Aia
Dalla cima del poggio / mentre il sole tramonta / scorgo, a valle, una cascina / con l’aia inondata di chicchi / di granturco quarantano. //
Oh i riflessi dorati che ci sono / nella luna di quell’aia / che, tra le ombre della sera, / sogna vicino ad un pagliaio / che assomiglia al tetto d’un campanile! //
Quale mai luce di sacralità / tremola al suono squillante / dell’Angelus della collina! / Quel cerchio di granturco indorato / è un mosaico bizantino. //
E mi rispecchia nella mente / non immagini di messali / né di vetrate di cattedrali: / ma l’Occhio biondo-sorridente / di Nostrosignore del Lavoro.
‘l bochèt: quaderni del Cenacolo di Torino 1957
Murador
A l’ombra dle travà bianche ‘d caussin-a
ij murador a deurmo, ant ël mezdì,
con ij brass ancrozià, d’assel brunì,
e la fàcia coatà da na caplin-a.
Caplin-a ‘d paja… E na buschëtta ‘d paja
a spòrz a inglèt dal bèch ‘d na rondolin-a
ch’a sèrca già ‘d fé l’ nì su na muraja
ancora bianca e profumà ‘d caussin-a.
1964
Muratori
All’ombra delle travature bianche di calce / i muratori dormono, nel mezzogiorno, / con le braccia incrociate, d’acciaio brunito, / e la faccia coperta da un cappellino. //
Cappellino di paglia…E un bruscolino di paglia / sporge ad unghia dal becco di una rondinella / che cerca già di fare il nido s’una muraglia / ancora bianca e profumata di calce.
‘l bochèt: quaderni del Cenacolo di Torino 1964
Obada °
TRA i ciuf ëd limonària e ‘d sussambrin
la lòdna sautarëtta a fa la rela
sle pupe reusa dla Matin novela
ch’as dësvija s’un let ëd margritin.
E le ciochëtte ai vèrso an s’ij mimin
le pèrle dla rozà për angiojela
tant che chila a së stira, viva e bela,
‘d nans ai mè euj ch’a seugno ij sò basin.
- O Matinà cochëtta ‘d primavera,
l’hai fate doi orcin con doi bronclin
dël quatërfoj ch’a l’è nàte davsin.
E at jë pòrta mè cheur: un cit cardlin
che, ant ël trabucèt d’òr d’un rissolin,
veul meuire strangolà ‘n sla toa caviera!
° Obada: mattinata, canto amoroso con accompagnamento musicale con cui si risvegliava al mattino la donna amata.
1924
Mattinata
Tra i ciuffi di limonaria e di giuggiolo / l’allodola salterina fa la coda / sulle mammelle rosa dell’incipiente Mattina / che si sveglia s’un letto di margheritine. //
E le campanule le versano sui capezzoli / le perle della rugiada per ingioiellarla / tanto che lei si stira, viva e bella, / dinnanzi ai miei occhi che sognano i suoi baci. //
O Mattinata civetta di primavera, / t’ho fatto due orecchini con due germogli / del quadrifoglio che t’è nato vicino. //
E ti porta il mio cuore: un piccolo cardellino / che, nel trabocchetto d’oro d’un ricciolino, / vuol morire strangolato tra i tuoi capelli!
Musicalbrandé mars 1961
Nina-nana dle ròndole fòle
Nòte ‘d musichëtte s’un papé rigà
rondolin-e fòle a biàuto su trè fii.
Tërlo e a svanto j’ale con ëd citi crii
come un gieugh dë scale su n’arpa acordà.
Bato le piotin-e e argrìgno ij so trè dii
sui trè fii ch’a luso ‘d rifless argentà.
J’euj pontù ‘d giajèt a frisson-o sbrincià
dai bicerin ross d’un leànder ch’a rii.
Rondolin-e fòle a fan ciambërlocanda
con testin-e e bèch ch’as chin-o da na banda
e peuj da l’àutra banda. E din-din e danda.
Din e din e danda, a balo dòp la pieuva
cantand la nina-nana ‘d ne fàula bleuva
per chi, dòp la pieuva, as sent n’ànima neuva.
1956
Traduzione di Luigi Olivero
Ninna-nanna delle rondini folli
Note di muisichette sul pentagramma di una pagina / rondinelle folli si altalènano su tre fili. / Prillano e frùllan l’ali con esili stridi / come un gioco di scale sopra un’arpa accordata. //
Battono le zampette e sèrrano i tre ditini / sui tre fili che baluginano di riflessi argentei. / Gli occhi aguzzi di giaietto trasaliscono spruzzati / dai bicchierini ròsei d’un oleandro che ride. //
Rondinelle folli fanno la gazzarra / con testine e becchi inclinati da un lato / e poi dall’altro lato. E din-din e dòndola. //
Din e din e dòndola, bàllano mentre spiove / cantando la ninna-nanna d’una favola azzurra / per chi, dopo la pioggia, si sente un’anima nuova.
‘l caval ‘d brôns magg 1965
Egloga mínima
Ille ego qui quondam…
BEJ gran, dorà dal sol, che maravìa
‘d na fàula ij conte al vent ëd la colin-a?
La fàula svìcia ‘d na salamandrin-a
ch’a scapava al mè amor ch’a la vorìa.
Trames jë spì, con ba rijada s-clin-a
chila as voltava e l’eui ai bërlusìa:
ma un fil d’gramon, bëschì da soa cavìa,
ai tira na trapëtta birichin-a.
Mi fas un sàut e la mia man la toca…
Quand son sentume vni come un frisson
su për ij ren e ai nerv un tramolon.
L’hai tnula fòrt. Ma, boca contra boca,
pòvri spì d’òr, soma cascave ‘d zora.
Peuj… ij papàver ross a rijo ancora!
1927
Traduzione di Clemente Fusero
Egloga minima
BELLE distese di grano, dorate dal sole, qual meraviglia / di una favola narrate al vento della collina? / La favola briosa di una piccola salamandra / che sfuggiva al fuoco del mio amore che l’anelava. //
Framezzo alle spighe, con una risatella tìnnula / ella si voltava e gli occhi le scintillavano: / ma un filo di gramigna, sfiorato dalla sua caviglia, / l’accalappia in una tràppola birichina. //
Io faccio un balzo e la mia mano la tocca… / Quando mi son sentito assalire da un brivido / su per le reni e da un trèmito in tutte le fibre. //
L’ho sostenuta con vigore: Ma, bocca contro bocca, / povere spighe d’oro!, vi siamo crollati sopra. / Poi… i papaveri vermigli ridono ancora!
Ij faunèt 1955
Message
TANT che j’era cogià
tra spì ‘d gran e papavèr
na farfala vlutà
l’é volame an s’ij làver.
A l’è andasse e tornà
con na festa ‘d gatìi.
Fior e bàuce andorà
as passavo ‘d bësbìi.
Mi sentìa ij frisson
- è-lo ‘d mòrt, è-lo ‘d veuja? -
d’una reusa an boton
che, a ‘n sospir, as dësfeuja.
A l’è stait un basin
d’ale rosse. Na fiama.
N’ànima? ‘N rissolin?
O ’n message ‘d mia Mama?
1951
Traduzione di Clemente Fusero
Messaggio
MENTRE ero coricìcato / fra spighe di grano e papaveri / una farfalla vellutata / mi è volata sulle labbra. //
Se n’è andata e tornata / con una festa di vellichìi. / Fiori e steli dorati / si scambiavano dei sussurri. //
Io sentivo i frèmiti / - saranno di morte, saranno di desiderio?- / di una rosa in boccio / che, a un sospiro, si sfoglia. //
È stato un bacio / d’ali rosse. Una fiamma. / Un’ànima? Un ricciolo? / O un messaggio di mia Mamma?
Ij faunèt 1955
Le siale
J’ALE ‘d papé-velin dle siale a svanto
an s’j’arbre ch’a sbalùco al sol d’istà
e ant ël silensi grev ëd poer dorà,
tut ant un nen, milion ‘d siale a canto.
A canto, a canto, mate, dësfrandà
come se i bòsch a fusso tuti an fiame.
A canto con jë s-ciàt sèch ëd le rame
ch’as tòrzo al feu ‘nt na lòta disperà.
Peuj a vèrso ij romor ëd le cascade
d’un fium inmens ch’a romp àvio e rampàr
con dë scume bujente e dë slampade.
A canto un còro ‘d ronf ràucc ëd corsàr
con ‘d bëdre corme ‘d branda e ‘d chitarade
ant un’ìsola ‘d braza an mez al mar.
1961
Traduzione di Luigi Olivero
Le cicale
Le élitre di cartavelina delle cicale frùllano / sui pioppi che abbàcinano al sole d’estate / e nel silenzio greve di pulvìscolo d’oro, / improvvisamente, milioni di cicale càntano. //
Càntano, càntano, frenetiche, scatenate / come se le foreste fossero tutte in fiamme. / Càntano con i crepitìi secchi delle rame / che si contorcono al fuoco in una lotta disperata. //
Poi fanno dilagare i rumori delle cascate / d’un fiume immenso che rompe àlveo e àrgini / con schiume e spruzzaglie ribollenti. //
Càntano il coro d’ un russare rauco di corsari / con epe trabboccanti d’acquavite e di sonate di chitarre / in un’ìsola di bragia in mezzo al mare.
Musicalbrandé 6 1962
Mòrt dël lauror
È bello doppo il morir vivere anchora.
B: CORIO: Patria potestas (1503).
«A L’È bel, dòp ël meuire, vive ancóra».
A dis parèj n’imprèisa dël Sinchsent.
Un mar ëd gran ch’a sfiama al sol e al vent
a sarà ‘l camp ëd chi ch’a lo lavora.
E se ‘l lauror a meuir, a meuir content,
con j’euj pien dl’òr d’j’amson, ant l’ùltima’ora.
S’un deul ëd ciòche, sò cit mond a piora.
Ma chièl a viv an sël dolor dla gent.
Ma chièl arviv ant l’ànima dle fior,
combìn ch’a deurma an fàuda a mare Tèra;
vivo ant jë spì le stisse ëd sò sudor.
E la neuit ëd sò còrp l’è nen amèra.
Sò fià beuj ant ël pan, canta ant l’amor.
Sla mòrt, soa vita a l’ha vinciù la guèra.
1960
Traduzione di Luigi Olivero
Morte dell’aratore
«È bello, dopo il morire, vivere ancóra». / Così dice un’impresa del Cinquecento. / Un mare di grano che fiammeggia al sole e al vento / sarà il campo di colui che lo lavora. //
E se l’aratore muore, muore contento, / con gli occhi pieni dell’oro delle messi, nell’ultim’ora. / Sopra un duolo di campane, il suo piccolo mondo piange. / Ma egli sopravvive al dolore della gente.//
Ma egli rivive nell’anima dei fiori, / malgrado (egli) dorma in grembo a madre Terra; / vivono nelle spighe le gocce del suo sudore.
E la notte del suo cuore non (gli) è amara. / Il suo àlito liévita nel pane, canta nell’amore. / Sulla morte, la sua vita ha vinto la battaglia.
La Martinella VII-VIII 1960
Ël Tòr N° 1 1945 ~ Fregio di Orfeo Tamburi
Piemont
Ò Piemont, ò paìs dij montagnar,
Paìs d’òmini dur e tut d’un tòch,
Ma àut, ma frèm, ma fòrt, com ij tò ròch.
Ma militar!
Cesare Balbo
PIEMONT! Piemont! I crijo con la fòrsa
ëd tut mè sangh e ‘d tuta la mia vos.
Contra ‘st mond salopard ëd luv rabios
tò nòm lo saro ant cheur come ant na mòrsa.
E tò parlé da mas-cc, Piemont glorios,
tò langagi scurì ‘d paròle crùe,
l’è un arc dë stèile e ‘d nì d’aquile drùe
con ale ‘d vent, euj visch ëd sol radios.
Un arch sizlà ‘nt ël diamant bleu ‘d tò cel
ch’a splend, Piemont, sle toe montagne a pich
sui tò biond camp laurà dai pian ai brich.
E ‘l pensé ch’a sluzìss ant mè sërvel
l’è un ragg dl’arà d’assel che ant le toe tère
squarsa j’òss dij nemis ëd le toe guère.
Mont Bianch, 1925
Traduzione di Luigi Olivero
Piemonte
PIEMONTE! Piemonte! Grido con la forza / di tutto il mio sangue e di tutta la mia voce. / Contro questo sozzo mondo di lupi inferociti / il tuo nome lo serro in cuore come in una morsa. //
E il tuo parlar virile, Piemonte glorioso, / il tuo linguaggio scolpito di parole aspre, / è un arco di stelle e un nido d’aquile intrèpide / con ali di vento e pupille corrusche di sole radioso. //
Un arco inciso nel diamante glauco del tuo cielo / che rifulge, Piemonte, sulle tue Alpi sovrastanti a picco / i tuoi biondi campi lavorati dai piani ai colli. //
E il pensiero che sfòlgora nel mio cervello / è un raggio dell’aratro d’acciaio che, nelle tue Terre, / frantuma le ossa dei nemici delle tue guerre.
Ël Tòr N° 1 14 lugn 1945
A un passarìcc ferì
DAL cel vèrd ëd la tòpia a l’è tombà
pròpe ‘d nans ai mè pé, ne sfurniolòt.
L’ha pro sërcà d’arpiesse. Ma, ‘nt ël bòt,
l’era stait con na piòta mangagnà.
Ant la cun-a ‘d mie man, pòr passaròt,
l’hai cheujìlo e scaudalo con mè fià.
Peuj l’hai ciadlaje sò piotin strompà
con un po’ ‘d fil e un rissolin dë scòt.
L’hai sofiaje an s’eujìn. E, apress, l’hai daje
dontrè frise meujà ‘d molèja ‘d pan
che, an tramoland, l’ha picotame an man.
L’hai aossàlo an s’un dil: doe cite tnaje
a së strenzijo a la mia pel… «Corage!».
L’ha sbatù j’ale. E, frrr! l’ha arpià so viage.
*
Vòla ant l’ària celesta, pòr oslin,
tente al sol ch’a l’ha tanti cordin biond
Son content d’essi stait, an tò cit mond,
una sémpia carëssa dël destin.
Sinch dii a pòcio at mando un mè basin.
Masnà, ‘d cò mi son tombà moribond
con na gambëtta rota… Vagabond,
scassà, son rabastame oltre ij confin.
Nò. Mi l’hai mai avù n’ombra ‘d boneur:
nen n’agiut, na carëssa, nen na man
l’ha dame aleta ò na fërvaja’d pan.
Son viv l’istess: Ma a l’è vnu dur, mè cheur,
a l’è vnu sord e grev come un martel:
ch’a bat ë-s-clin për ti, cit rè dël cel.
1953
Traduzione di Clemente Fusero
A un passeretto ferito
Dall’incielato verde della pergola è caduto, / proprio dinnanzi ai miei piedi, un passerotto sfrugolino. / Egli ha tentato, si, di risollevarsi. Ma, nell’urto, / era rimasto con una zampetta storpiata. //
Nella culla delle mie mani, povero esserino, / l’ho accolto e rianimato con il mio àlito. / Poi gli ho accomodato la zampetta fratturata / con un tratto di filo e un ricciolo di fuscello. //
Gli ho soffiato delicatamente sugli occhietti e quindi gli ho offerto / due o tre brìciole di mollìca di pan bagnato / ch’egli, tremando, ha beccato sulla mia mano. //
L’ho solletavato orizzontalmente su un dito: due esili tenaglie / aderivano tenaci alla mia pelle…«Coraggio!». / Egli ha sbattuto le alucce. E, frrr! Ha ripreso il suo viaggio. //
Vola nell’aria celeste, povero uccellino, / aggrappati al sole che ti porge tante cordicelle bionde. / Sono lieto di essere stato, nel tuo piccolo mondo, / una semplice carezza del destino. //
Cinque dita riunite a nèspolo ti màndano un mio bacio. / Nell’infanzia, anch’io sono caduto moribondo / con una gambetta rotta… Vagabondo, / scacciato, mi sono trascinato oltre i confini. //
No. Io non ho mai avuto una parvenza di felicità: / non un’aiuto, non una carezza, non una mano / che mi abbia offerto un avvìo o una briciola di pane. //
Sono vivo ugualmente. Ma è divenuto duro, il mio cuore, / è diventato sordo e greve come un martello: / che, tuttavia, batte con tintinnìi argentini per te, o minuscolo re del cielo.
Ij faunèt 1955
ELENCO DELLE POESIE
Neuit a La Vila
Le tre fôntañe
Ël sanssué dël Pasch
Sol d’invern
Mercà dle fior
J’ole ‘d monssù Dino
Ël rodon
Ël demone ‘d mesdì
Tristizia
Lë strangé
Vilòta dij galucio paisan
Madrigal dle fije ‘d mè paìs
Ël pont
La serp
Ij sochét
Tèra paisan-a
Prim frisson
El bal dle lusentele
Pan-e ‘d mèlia
Èira
Murador
Obada
Nina-nana dle ròndole fòle
Egloga minima
Message
Le siale
Mòrt dël lauror
Piemont
A un passarìcc ferì
Luigi Olivero (secondo da sx) lungo la riva dello Stellone
nel suo paese natale